
Un tema per lo più inesplorato
La Chiesa si è a più riprese occupata del tema degli abusi, anche in tempi recenti, sia a livello di riflessione che di provvedimenti e protocolli operativi[1]. Tuttavia la rilevanza del tema ha riguardato per lo più gli abusi sessuali e psicologici nei confronti di minori da parte di ministri della Chiesa, soprattutto presbiteri. Si tratta di aspetti indubbiamente preponderanti, ma non certamente esaustivi.
Un tema che non ha avuto finora sufficiente attenzione è l’abuso all’interno delle Congregazioni femminili. Esso non assume per lo più la forma della violenza sessuale e non riguarda minori; tuttavia non per questo risulta essere meno importante e gravido di conseguenze rilevanti. Dall’esperienza pastorale e dai colloqui avuti in proposito si tratta per lo più di abusi di potere e di coscienza.
Il fascino del potere nelle Congregazioni femminili
Il vento di rinnovamento suscitato dal Concilio Vaticano II e dal magistero successivo non è stato vissuto allo stesso modo nelle varie Congregazioni religiose. Alcune hanno dato vita a una difficile, ma efficace opera di aggiornamento e di riforma; altre, invece, non sono riuscite in tale scopo, o per mancanza di forze, o perché convinte che le consuetudini sinora praticate potessero costituire ancora la modalità ideale di governo. La storia insegna purtroppo che senza una tale fatica di confronto e ricerca di strade nuove si rischia di smarrire la freschezza del carisma, avviando un lento ma inarrestabile declino.
Va anche aggiunto che le dinamiche della vita religiosa femminile risultano essere molto diverse da quella maschile sotto vari aspetti. Gli studi e le molte possibilità pastorali di chi ha ricevuto gli Ordini permettono ai religiosi maschi di vivere con maggiore apertura e autonomia anche la vita fraterna e i voti religiosi.
Inoltre, la risposta vocazionale e l’entusiasmo che una giovane percepisce agli inizi del suo cammino non sempre consentono di valutare in maniera accurata la differenza fra i vari Istituti religiosi; la spinta in avanti e una certa incoscienza tipica di chi è all’inizio del cammino a volte si saldano tristemente con l’abilità di alcune superiore, capaci di individuare anime generose, ma anche vulnerabili alle manipolazioni. Lentamente la fedeltà al carisma diventa fedeltà nei confronti dei gusti e delle preferenze di una particolare persona, che decide arbitrariamente chi possa o no usufruire delle possibilità formative o di studio, considerate una forma di premio assegnato alle più fedeli e docili, a scapito invece di chi esprime un pensiero differente. Da qui forme di ricatto per conseguire una gestione del potere senza limiti.
Si tratta di situazioni purtroppo note e diffuse, al punto da essere state pubblicamente menzionate in sede di dicastero pontificio. In un’intervista rilasciata alla rivista Donne Chiesa Mondo, il card. João Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita consacrata e le Società di Vita apostolica, si è espresso con chiarezza: «Abbiamo avuto casi, non molti per fortuna, di superiore generali che una volta elette non hanno più ceduto il loro posto. Hanno aggirato tutte le regole. Una ha voluto persino cambiare le costituzioni per poter restare superiora generale fino alla morte. E nelle comunità ci sono religiose che tendono a ubbidire ciecamente, senza dire ciò che pensano. Tante volte si ha paura, nel caso delle donne ancora di più, si ha paura della superiora. Nella vera obbedienza, al contrario, è necessario dire quello che il Signore suggerisce dentro, con coraggio e verità, per offrire al superiore più luce per decidere»[2].
La situazione di alcune comunità religiose
Fa pensare il fatto che nell’odierno contesto culturale, dove l’autorità risulta essere impopolare e fonte di stress (al punto che diversi superiori maggiori di Congregazioni maschili chiedono anzitempo un avvicendamento), in alcuni Istituti femminili si noti piuttosto la tendenza contraria, a prolungare a ogni costo il mandato ricevuto.
In una Congregazione (attualmente in fase di commissariamento) la medesima suora è stata consigliera generale per 12 anni, successivamente superiora generale per 18 anni, ed è riuscita a farsi eleggere di nuovo vicaria generale, «pilotando» il capitolo, per poter continuare a governare di fatto negli anni successivi.
Una tale situazione fa sorgere la domanda se il governo sia considerato una forma di assicurazione di privilegi preclusi agli altri membri, come ad esempio, nel caso in questione, affidare alle comunità i familiari e i parenti, ospitati e curati gratuitamente, «precettando» le religiose infermiere, le quali non si trovano certo in condizione di agire altrimenti. In alcuni casi i familiari sono anche stati sepolti nella tomba della Congregazione. Le giovani religiose, per lo più straniere, registrano così il messaggio che il potere è una scorciatoia che agevola favori anche per i familiari e che l’imperativo di «lasciare il padre e la madre» riguarda soltanto loro.
In un altro Istituto la superiora, senza consultare nessuno, si è portata la mamma nella comunità delle suore fino alla morte, permettendole anche di condividere gli spazi comunitari per circa vent’anni. Ogni estate abbandonava la comunità per portarsi la mamma in vacanza.
Essere superiora sembra garantire altri privilegi esclusivi, come usufruire delle migliori cure mediche, mentre chi è una semplice suora non può neppure andare dall’oculista o dal dentista, perché «si deve risparmiare». Gli esempi riguardano purtroppo ogni aspetto della vita ordinaria: dall’abbigliamento alla possibilità di fare vacanza, avere una giornata di riposo o, più semplicemente, poter uscire per una passeggiata, tutto deve passare dalla decisione (o dal capriccio) della medesima persona. Se si chiede un indumento pesante, si deve attendere la deliberazione del Consiglio, o la richiesta viene rifiutata «per motivi di povertà». Alla fine alcune suore si sono rivolte ai familiari. Diventa perciò ancora più triste per loro venire a sapere che l’armadio della superiora è pieno di indumenti acquistati senza consultare nessuno con i soldi della comunità, mentre altre hanno a malapena un ricambio[3].
Sono esempi che possono apparire sconcertanti e difficilmente credibili per chi vive in Congregazioni maschili, e di fronte ai quali ci si può limitare a sorridere. Purtroppo per alcune suore questa è la realtà quotidiana: una realtà che per lo più non possono far conoscere, perché non sanno a chi rivolgersi, o per paura di ritorsioni.
Anche la gestione patrimoniale di un Istituto come proprietà personale è un altro tasto doloroso di alcune Congregazioni femminili, dove la complicità fra la superiora generale e l’economa (anch’essa di fatto a vita, nonostante i limiti dell’età) finisce per consentire il controllo completo dei beni.
Come nel racconto La roba di Giovanni Verga, tutto finisce per concentrarsi nelle mani di una sola persona (che fa della Congregazione una gestione familiare, assumendo persone prive di competenza, ma con le quali ha legami di parentela), nonostante le prescrizioni del diritto canonico e le regole dello stesso Istituto: essendo la superiora generale l’istanza suprema, nessuno può verificare la gravità della situazione. A scapito di chi verrà dopo, specie delle suore più giovani.
Un messaggio eloquente
Quale idea di vita religiosa viene comunicata da questi casi? Evidentemente che governare è sinonimo di privilegio, a scapito dei più deboli. Questi medesimi Istituti non hanno più vocazioni in Italia da oltre 50 anni. Sarà forse un caso? Certo, le vocazioni sono in calo, ma perché altre terre e altre comunità conoscono invece una continuità anche sotto questo aspetto?
In ogni caso, la carenza di vocazioni non sembra aver posto alcun interrogativo al riguardo, e nemmeno ha suscitato la necessità di dare vita a un’aggiornata pastorale vocazionale, valorizzando i carismi delle sorelle più capaci. Contrariamente agli orientamenti espressi dalla Chiesa ormai da molti anni, si continua a praticare l’usanza di importare vocazioni da altri Paesi, impiegando le giovani come «tappabuchi», invece di garantire loro una migliore formazione[4]. Le nuove arrivate per lo più non hanno possibilità di difendersi, sia per la difficoltà della lingua sia per l’assoluta incapacità a orientarsi al di fuori della casa religiosa dalla quale di solito non possono uscire e che, più che come una comunità, viene vissuta come una prigione.
Il card. João Braz de Aviz ricorda anche casi di abusi sessuali subiti dalle novizie da parte delle formatrici; una situazione più rara rispetto alle Congregazioni maschili, ma forse, proprio per questo, ancora più grave e dolorosa. E auspica anche in questo campo il coraggio di fare chiarezza e tutelare i più deboli come missione propria della Chiesa[5].
Il dramma di chi lascia la Congregazione
Quanto riportato sopra, anche se in forma anonima, è purtroppo per alcune religiose la dolorosa realtà quotidiana. Una situazione che era stata riconosciuta con chiarezza anche in sede di magistero. Il documento Per vino nuovo otri nuovi, tracciando un bilancio della situazione della vita religiosa postconciliare, non manca di rilevare situazioni problematiche dovute a mancanza di fiducia e dipendenza per ogni cosa: «Chi esercita il potere non deve incoraggiare atteggiamenti infantili che possono indurre a comportamenti deresponsabili […]. Purtroppo bisogna riconoscere che situazioni del genere sono più frequenti di quanto si sia disposti ad accettare, e in maggiore evidenza negli Istituti femminili. Questa è una delle ragioni che sembra motivare numerosi abbandoni. Per alcuni sono l’unica risposta a situazioni divenute insopportabili»[6].
Ma anche il tempo dell’abbandono della vita religiosa, già di per sé difficile e doloroso, reca con sé ulteriori sofferenze, per lo più sconosciute a chi appartiene a Congregazioni maschili. Il card. de Aviz ha menzionato la tragica condizione in cui vengono a trovarsi queste religiose: in molti casi esse non hanno ricevuto alcun aiuto, anzi si è cercato in tutti i modi di impedire loro di trovare una sistemazione[7].
Il problema è diventato così grave che papa Francesco ha deciso di costruire una casa per coloro che, soprattutto straniere, non hanno un posto dove andare. «Io sono andato – ha detto il cardinale – a rendere visita a queste ex-suore. Ho trovato lì un mondo di ferite, ma anche di speranza. Ci sono casi molto duri, in cui i superiori hanno trattenuto i documenti di suore che desideravano uscire dal convento, o che sono state mandate via. Queste persone sono entrate in convento come suore e si ritrovano in queste condizioni. C’è stato anche qualche caso di prostituzione per potersi mantenere. Si tratta di ex-suore! Le suore scalabriniane hanno assunto la cura di questo piccolo gruppo. Però alcuni casi sono veramente difficili, perché siamo di fronte a persone ferite con le quali bisogna ricostruire la fiducia. Dobbiamo cambiare l’atteggiamento di rifiuto, la tentazione di ignorare queste persone, di dire “non è più un problema nostro”. E poi, spesso queste ex-suore non vengono in nessun modo accompagnate, non viene detta una parola per aiutarle… tutto questo deve assolutamente cambiare»[8].
Alcune suore rimangono nel loro Istituto solamente perché non vedono nessun’altra possibilità di vivere diversamente, non conoscono la città, la lingua, non hanno potuto conseguire alcun titolo di studio. Una situazione di ricatto psicologico che suscita grande tristezza. Altre invece, pur avendo lasciato la Congregazione, non hanno messo da parte il desiderio di consacrarsi al Signore, ma cercano una modalità che possa rispettare la loro dignità.
Colpisce come alcune forme di consacrazione che consentono un maggiore spazio di libertà a chi vi appartiene, come l’Ordo Virginum, registrino un crescente numero di adesioni. In vari casi si tratta di ex religiose uscite dal loro Ordine spesso proprio per i motivi sopra ricordati. Esse cercano un’autonomia e una coerenza di vita che non è incompatibile con la consacrazione (poter uscire, svolgere un’attività pastorale, studiare, insegnare), un’autonomia che è stata loro negata. Anche questo costituisce un messaggio che non può essere ignorato circa il futuro della vita religiosa femminile.
Dare voce a chi non ha voce
Il tema degli abusi include aspetti molteplici e di differente gravità, ma che richiedono di essere ugualmente presi in considerazione, se si vuole che la voce della Chiesa continui a essere credibile. Occuparsi di tali casi non significa certamente ridurre a questo la realtà della vita religiosa femminile. Nessuno nega il ruolo e l’importanza dell’opera svolta da tante religiose nel servizio agli ultimi – come, ma solo per restare nel tema, il ministero delle suore scalabriniane sopra ricordato –, e neppure si vuole mettere in un medesimo sacco ogni conduzione e stile dell’autorità negli Ordini femminili. Al contrario, proprio la rilevazione di tali differenti stili può essere di aiuto per promuovere forme di consacrazione sempre più imbevute del vino nuovo dello spirito evangelico. E al tempo stesso per farsi carico della grande sofferenza, a livello affettivo, psicologico e spirituale, che il tradimento di un tale spirito comporta per molte. Giovani che avevano con entusiasmo lasciato tutto per seguire il Signore ora si ritrovano sole, abbandonate e in molti casi disperate, in una situazione di deserto affettivo, relazionale e professionale. Queste anime cadute in trappola a quale ovile appartengono? Chi risponderà al loro grido di aiuto?
Per un sacerdote l’ordinazione e gli studi compiuti rimangono pur sempre una garanzia di trovare un sostegno e una possibilità di incardinazione che sono preclusi a una religiosa. Come è distante tutto ciò dalla lettera con la quale papa Francesco, nell’indire il Sinodo sui giovani, si indirizzava loro! Nel passaggio finale egli ricordava la raccomandazione di san Benedetto agli abati «di consultare anche i giovani prima di ogni scelta importante, perché “spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore”»[9].
E come è distante anche dalla caratteristica propria della vecchiaia, di essere preparazione all’incontro con l’Amato! Il card. Carlo Maria Martini notava in proposito: «Ci sono almeno due tipi di adulti: quelli che si lasciano trascinare dal vortice degli impegni e quelli che sanno prendere tempo per far maturare i propri principi. Solo questi ultimi meritano in pieno il titolo di adulto. Quanto più uno cresce in responsabilità, tanto più sono necessari momenti di ritiro e di silenzio […]. C’è poi lo stadio del dipendere da altri, quello che non vorremmo mai, ma che viene, al quale dobbiamo prepararci»[10].
Quando invece ci si attacca al posto troppo a lungo occupato, sorge il dubbio che non ci si aspetti più nulla dalla vita: è un messaggio di nichilismo pratico. Papa Francesco rileva con tristezza la chiusura al futuro da parte di sacerdoti e religiosi/e attaccati al proprio ruolo, incapaci di delegare, di dare spazio, di preparare qualcuno dopo di loro: «Si accontentano di avere qualche potere e preferiscono essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che semplici soldati di uno squadrone che continua a combattere. Quante volte sogniamo piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti!»[11].
Anche per questi motivi il documento Per vino nuovo otri nuovi auspica l’elaborazione di norme a livello generale per «attenuare gli effetti di media e lunga durata della diffusa prassi di cooptazione ai ruoli di responsabilità di membri dei precedenti governi generali. Normative in altri termini che impediscano il mantenimento delle cariche oltre le scadenze canoniche, senza permettere di ricorrere a formule che in realtà aggirano ciò che le norme cercano di evitare» (n. 22).
Non si tratta dunque soltanto di occuparsi di tali casi dolorosi – sebbene questo rimanga un compito prioritario e indispensabile –, ma anche di approntare interventi efficaci di verifica e vigilanza sulla modalità di esercizio del governo, perché tali abusi non si ripetano e si possa offrire a chi desidera consacrarsi al Signore una modalità più evangelica di vivere l’autorità e la vita fraterna.
La grande attenzione giustamente riservata agli abusi compiuti nei confronti di minori non deve impedire di dedicare adeguata cura a queste situazioni, anche se non riceveranno il medesimo clamore mediatico: anche in questo caso, si tratta di dare voce a chi non ha voce.
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ABUSES OF AUTHORITY IN THE CHURCH. Problems and challenges of women’s religious life
The Church has on several occasions dealt with the theme of abuse, both at the level of reflection and of measures and operational protocols. However, the issue has mostly concerned the sexual and psychological abuse of children by ministers of the Church, especially priests. While acknowledging its importance and seriousness, not enough attention has yet been paid to abuse within women’s congregations. It generally does not take the form of sexual violence and does not involve minors; however, it is no less important and has significant consequences. From pastoral experience and conversations held in this regard, it is mostly an abuse of power and conscience. The article presents some of the situations and questions which this raises with regard to the future of the consecrated life of women.
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[1]. Cfr gli ultimi contributi pubblicati su questo argomento dalla rivista: F. Lombardi, «Verso l’incontro dei vescovi sulla protezione dei minori», in Civ. Catt. 2018 IV 532-548; Id., «Dopo l’incontro su “La protezione dei minori nella Chiesa”», ivi 2019 II 60-73; Id., «Protezione dei minori. I passi avanti del Papa dopo l’incontro di febbraio 2019», ivi 2020 I 155-166; e, infine, il volume monografico Abusi, della collana «Accènti» de La Civiltà Cattolica (giugno 2018). Per un inquadramento generale, cfr G. Cucci – H. Zollner, Chiesa e pedofilia. Una ferita aperta. Un approccio psicologico-pastorale, Milano, Àncora, 2010.
[2]. R. Ferrauto, «Bisogna cambiare. Vocazioni e abbandoni, autorità, beni, rapporto uomo-donna, abusi… Intervista a tutto campo con il prefetto João Braz de Aviz», in Donne Chiesa Mondo, n. 85, febbraio 2020, 17. Questa situazione viene descritta in maniera eloquente anche nel documento Per vino nuovo otri nuovi: «Con parresia evangelica dobbiamo prendere coscienza che in alcune congregazioni femminili si riscontra il perpetuarsi di cariche. Alcune persone rimangono nel governo, pur con diverse funzioni, per troppi anni» (Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, Per vino nuovo otri nuovi. Dal Concilio Vaticano II la vita consacrata e le sfide ancora aperte. Orientamenti, 6 gennaio 2017, n. 22).
[3]. Sono situazioni menzionate anche nel già citato documento Per vino nuovo otri nuovi: «C’è ancora molto da fare per incoraggiare modelli comunitari convenienti all’identità femminile delle consacrate […]. Nessuna sorella deve essere relegata a uno stato di sudditanza, cosa che si riscontra purtroppo con frequenza […]. Si vigili perché il divario che corre tra le consacrate che servono in autorità (nei vari livelli) o che hanno il compito dell’amministrazione dei beni (nei vari livelli) e le sorelle che dipendono da esse non diventi fonte di sofferenza per la disparità e l’autoritarismo» (n. 40).
[4]. «Se in epoca non proprio lontana c’era chi s’illudeva di risolvere la crisi vocazionale con scelte discutibili, ad esempio “importando vocazioni” da altrove (spesso sradicandole dal loro ambiente), oggi nessuno dovrebbe illudersi di risolvere la crisi vocazionale aggirandola, poiché il Signore continua a chiamare in ogni Chiesa e in ogni luogo» (Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche, Nuove vocazioni per una nuova Europa, Documento finale del Congresso sulle Vocazioni al Sacerdozio e alla Vita Consacrata in Europa, 1997, n. 13 c). Un’avvertenza che, purtroppo, in questi casi è del tutto disattesa.
[5]. «In una congregazione ci sono stati segnalati nove casi. Questo fenomeno che tocca l’ambito femminile è rimasto più nascosto. Però viene fuori. Dovrà venire fuori. Molte volte la maturità nel campo affettivo e sessuale è debole, è relativa. Se arrivano accuse, noi accogliamo e cominciamo a discernere. Tante cose sono vere, tante no, però non nascondiamo nessun problema. Il Papa ci chiede totale trasparenza» (R. Ferrauto, «Bisogna cambiare…», cit., 18). Nella medesima intervista il cardinale menziona il grave problema degli abusi sessuali compiuti da presbiteri su religiose, un tema anch’esso per lo più inesplorato. Per un approfondimento, cfr A. Deodato, Vorrei risorgere dalle mie ferite. Donne consacrate e abusi sessuali, Bologna, EDB, 2016.
[6]. Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, Per vino nuovo otri nuovi…, cit., n. 21; cfr n. 39.
[7]. Il can. 702 del Codice di Diritto Canonico precisa: «Coloro che legittimamente escono dall’istituto religioso o ne sono stati legittimamente dimessi non possono esigere nulla dall’istituto stesso per qualunque attività in esso prestata» (n. 1). Ma aggiunge subito dopo: «L’istituto deve però osservare equità e carità evangelica verso il religioso che se ne separa» (n. 2).
[8]. R. Ferrauto, «Bisogna cambiare…», cit., 17.
[9]. Regola di San Benedetto III, 3; Francesco, Lettera ai giovani in occasione della presentazione del Documento Preparatorio della XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 13 gennaio 2017.
[10]. C. M. Martini, Le età della vita, Milano, Mondadori, 2010, 191; 193.
[11]. Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, n. 96.