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Negli ultimi tempi si parla di nuovo e con più frequenza di bellezza, ma questo discorso non ha un’influenza particolare. I Papi parlano di bellezza quando si rivolgono agli artisti. Si menziona la bellezza come argomento a favore del vecchio rito liturgico tridentino. E qua e là ci sono concorsi di bellezza. Ma che cosa significa la bellezza in un mondo che sempre più rivela le tracce di una distruzione senza precedenti? «La bellezza salverà il mondo», ha detto una volta Dostoevskij. Lo farà davvero? Oggi la bellezza è sempre più equiparata a ciò che piace. Ma la bellezza è sempre piacevole? E che cosa accade se si sperimentano dolore e morte?
Quando si parla della bellezza, si deve porre una domanda che conduca al di là di ciò che è estetico: che cosa dà senso alla vita dell’individuo e alla vita di una società? Che cosa dà pienezza alla vita? Anche per l’annuncio di fede è fondamentale la risposta a tale domanda. Nelle società europee appare evidente che la risposta a tale domanda non può essere semplicemente il benessere generale: altro e di più è necessario per una buona vita.
La pienezza della vita verrà sperimentata da coloro che ricevono e godono la vita come dono. Questo atteggiamento non è affatto una cosa ovvia. Oggi si ha spesso l’impressione che ognuno di noi debba fornire una prestazione che giustifichi la propria vita di fronte alla società. Chi non è in grado di fornire tale prestazione viene preparato, come i bambini, a fornirla in futuro, oppure, come nel caso delle persone anziane o disabili, viene considerato sempre più come un peso che compromette la vita degli altri. Per chi invece considera la vita come dono, ogni esistenza è preziosa e bella.
Come esercitarsi a praticare tale atteggiamento? Che cosa posso fare perché la mia vita sia considerata come un dono? Un dono che accolgo con gratitudine, giorno per giorno? Innanzitutto, posso coltivare un senso di bellezza e mantenere la capacità di stupirmi. Un’altra possibilità sarebbe quella di esercitarmi a pensare oltre l’orizzonte terreno. Questi esercizi possono essere riassunti in uno solo: praticare il senso di stupore di fronte al bello, e proprio in questo atteggiamento cogliere un’apertura del mondo a una sua realizzazione al di là di se stesso. Nella percezione del bello si riconosce che tutto ciò che ci viene dato è un dono.
Quando si parla di bellezza nel contesto ecclesiale, di solito ci si riferisce all’arte. Nel suo discorso in occasione dell’incontro con gli artisti nella Cappella Sistina, il 21 novembre 2009, Benedetto XVI ha citato Paolo VI e ha detto ai convenuti: «Ricordatevi che siete i custodi della bellezza nel mondo»[1]. Ha affermato che nella visione del bello risplende una realtà superiore: «La via della bellezza ci conduce […] a cogliere il Tutto nel frammento, l’Infinito nel finito, Dio nella storia dell’umanità». Questo discorso di Benedetto XVI ci fa capire che la bellezza è chiaramente donata e si riferisce esplicitamente a Dio. Si parla di una bellezza autentica e vera.
Oggi però la bellezza non viene più menzionata, ma scoperta: non è semplicemente data e comprensibile con una sola parola, ma appare sotto diverse forme. A seconda del contesto, queste forme o si riferiscono soltanto al mondo interiore, o fanno aprire lo sguardo su una realtà che trascende la Terra. I fenomeni del mondo non sono più di per sé evidenti: il modo in cui vengono visti e interpretati dipende dallo spettatore e dal contesto in cui egli li colloca. Il discorso sul bello è ancora valido, ma deve essere ispirato dai poeti e dagli artisti, dagli amanti e dai mistici perché oggi si riveli il segreto del bello.
La bellezza di Dio si rivela anche nei rifiuti
La bellezza, dunque, non è semplicemente presente e disponibile, ma deve essere riconosciuta. La percezione della bellezza è un processo di apprendimento infinito. L’arte del XX secolo ci ha insegnato a riconoscere la bellezza in molte cose, a scoprirla anche là dove prima si vedevano soltanto sporcizia e rifiuti. Kurt Schwitters ce ne dà un chiaro esempio. Intorno al 1920, egli fu il primo artista che prestò attenzione a ogni genere di rifiuto: resti di cartelloni, cartacce, pezzi di legno, lattine, ferro arrugginito e così via. Da tutto questo egli ha creato piccole opere di carta, e opere d’arte più grandi, che rivelano una sorprendente bellezza nell’interazione di forme e colori.
L’opera di Schwitters ha avuto un grande impatto nel corso del XX secolo e fino ai giorni nostri. L’«Arte povera» – con la sua preferenza per materiali «poveri» – si colloca in questa tradizione. Naturalmente la bellezza di tutte queste opere d’arte non è paragonabile a quella che una volta era considerata tale. Per gli artisti dei tempi moderni fino al XIX secolo il termine «bellezza» aveva un significato diverso, armonioso, prezioso, nobile. Ma questo può essere scoperto anche là dove non era mai stato cercato in precedenza. Uno spettatore deve saper percepire anche quest’altra bellezza, perché essa non si impone con la forza, a differenza delle molte belle forme precedenti.
La bellezza delle piccole cose, della spazzatura e degli scarti, è silenziosa. Richiede pazienza e uno spettatore capace di attendere. Tutto questo, a prima vista, sembra sconcertante; ma poi, a poco a poco, riaffiora in noi quello sguardo con il quale, da bambini, guardavamo il mondo ed eravamo in grado di riconoscere nei pezzi di legno meno appariscenti le figure più meravigliose. È lo stesso sguardo con cui san Francesco osservava il mondo: dal momento che non possedeva nulla, per lui anche l’oggetto meno appariscente e senza valore diventava prezioso. La bellezza di Dio gli si rivelava anche in queste cose.
Una condizione essenziale per la percezione della bellezza è il saper attendere. L’attesa potrebbe in molti casi non essere difficile, ma esigere solo un po’ di pazienza. Che cosa accade, però, quando essa viene richiesta in una situazione di dolore lancinante, di terribile necessità? La bellezza può mostrarsi anche in tali situazioni? Può la perseveranza nel dolore portare alla percezione di una bellezza inimmaginabile?
La poesia dischiude una visione ampia della vita
Nell’opera di Giuseppe Ungaretti Il dolore, pubblicata nel 1947, sono raccolte – sotto il titolo «Roma occupata» – poesie composte in un periodo estremamente difficile, nella Roma degli anni 1943 e 1944. Una di esse è «Mio fiume anche tu»: Mio fiume anche tu, Tevere fatale, / Ora che notte già turbata scorre; / Ora che persistente / E come a stento erotto dalla pietra / Un gemito d’agnelli si propaga / Smarrito per le strade esterrefatte; / Che di male l’attesa senza requie, / Il peggiore dei mali, / Che l’attesa di male imprevedibile / Intralcia animo e passi; / Che singhiozzi infiniti, a lungo rantoli / Agghiacciano le case tane incerte; / Ora che scorre notte già straziata, / Che ogni attimo spariscono di schianto / O temono l’offesa tanti segni / Giunti, quasi divine forme, a splendere / Per ascensione di millenni umani; / Ora che già sconvolta scorre notte, / E quanto un uomo può patire imparo; / Ora ora, mentre schiavo / Il mondo d’abissale pena soffoca; / Ora che insopportabile il tormento / Si sfrena tra i fratelli in ira a morte; / Ora che osano dire / Le mie blasfeme labbra: / «Cristo, pensoso palpito, / Perché la Tua bontà / S’è tanto allontanata?»[2].
Questa poesia ha il carattere di una litania, e con quell’«ora» più volte ripetuto coinvolge il lettore in una situazione di grande dolore. Leggendo, veniamo introdotti sempre più profondamente in esso. Sembra che il dolore diventi insopportabile, e che rimanga permanentemente aperta una grave ferita.
Tuttavia, stranamente, questa ferita non ci priva della vista; al contrario, la poesia dischiude una visione ampia della vita: una vita caratterizzata da una grave ferita, ma che non è sconfitta. È proprio in questo luogo che la lingua si apre a una possibilità impensabile. Ora le labbra osano dire qualcosa che può sembrare blasfemo, ma che dischiude un nuovo e meraviglioso orizzonte. Cristo è invocato e posto di fronte a una domanda; viene chiamato «pensoso palpito»: un’immagine meravigliosa, nella quale sono uniti sentimento e ragione. E si parla di una «bontà», che di fatto si è allontanata, ma che è ugualmente presente.
Il testo che abbiamo citato è la prima delle tre parti della poesia. Nella terza parte viene ripresa l’espressione «Cristo, pensoso palpito». La poesia termina con una specie di inno, che mostra che proprio nel luogo del dolore, proprio nella ferita aperta può essere sperimentata la presenza della santità. In definitiva, la poesia è la rivelazione di una bellezza meravigliosa proprio là dove questa non poteva essere attesa. Ungaretti ha scritto un inno sull’attesa nel luogo del dolore, perché proprio lì si può rivelare la presenza della salvezza e può risplendere una bellezza inaspettata.
Il Concilio Vaticano II aveva avuto poco da dire sulla bellezza; tuttavia alcune sue affermazioni ci possono indicare come essa potrebbe essere scoperta. Si parla di semplicità, sobrietà e dignità (cfr Sacrosanctum Concilium [SC], nn. 34 e 80): «Nel promuovere e coltivare una autentica arte sacra, gli ordinari procurino di ricercare piuttosto una nobile bellezza che una mera sontuosità» (SC 124). Si dovrebbero tenere lontane dalle chiese le opere d’arte «che offendono il genuino senso religioso, o perché depravate nelle forme, o perché insufficienti, mediocri o false nell’espressione artistica» (ivi). Ciò può significare molte cose, eppure sta a indicare che la Chiesa può imparare a percepire una bellezza diversa da quella dell’arte ecclesiastica del XIX e XX secolo.
Scoprire una bellezza misteriosa
Quest’altro tipo di bellezza può essere scoperto attraverso una riflessione su Gesù Cristo e sul suo modo di vedere il mondo. La preferenza di Gesù andava ai poveri, agli emarginati, ai piccoli. In essi egli scopriva la bellezza della salvezza, della purezza, della figliolanza divina. Un esempio di questo atteggiamento si trova nella parabola del pastore che lascia le 99 pecore per andare alla ricerca dell’unica che si è perduta. Nelle parabole del regno dei cieli Gesù si riferisce a cose e persone semplici. In ciò che è semplice e poco appariscente brilla il mistero della bellezza di Dio. Sì, brilla anche dove ogni bellezza sembra oscurarsi, nella morte sulla croce.
La prospettiva di Gesù Cristo, la natura delle sue parabole e la sua vita e morte offrono un contesto in cui molte opere profane di arte moderna e contemporanea acquistano un significato nuovo e diverso. Esse non vengono assunte come testimonianze della fede cristiana, ma la loro forma si apre a ulteriori interpretazioni.
Così le opere di Francis Bacon (Dublino, 1909 – Madrid, 1992), uno dei grandi pittori del XX secolo, ateo dichiarato, non possono essere interpretate soltanto come testimonianza del suo ateismo. Le figure tenute in sospeso, la straordinaria bellezza dell’incarnato, l’essere esposto delle figure, tutto questo assume un significato diverso nel contesto di una riflessione ispirata dal misticismo cristiano. Riluce una bellezza molto particolare: non più gli orrori dell’isolamento, ma l’essere sostenuto da poteri invisibili; non più l’orrore della deformazione, ma la bellezza dei colori. Si manifesta un mondo estremamente a rischio, ma che non è lasciato cadere. Chi riconosce ciò, può scoprire in tali opere una bellezza misteriosa.
Ovviamente tutto questo non è semplicemente dato, ma dipende dallo sguardo di chi osserva e dal contesto della sua osservazione. Il grande compito dei cristiani è senza dubbio quello di imparare a percepire tali opere sempre più nel contesto di un misticismo cristiano. In questo modo, essi raggiungono una dimensione della bellezza che allude a una realtà ulteriore a ciò che è dato sulla Terra: una dimensione che insegna a percepire anche nell’inutilità di ciò che è solo terreno la presenza di una realtà più grande.
La magia meravigliosa del silenzio
Quando parliamo della bellezza, dobbiamo sottolineare un elemento che nel XX secolo e fino ai nostri giorni ha acquisito una straordinaria importanza: il silenzio. Il senso del silenzio è la bellezza dell’attesa. Aspettare può essere lancinante, può torturare e persino uccidere; ma può anche avere una magia meravigliosa. Per essere bella, l’attesa deve essere strutturata e non essere soltanto un «non so cos’altro fare». L’attesa deve essere sopportata: anche nella noia, io devo rimanere presente in modo raccolto. L’attesa mi prepara a una venuta. Allora acuisco i miei sensi, mi mantengo sveglio, divento sensibile a segni piccoli e poco appariscenti.
Di volta in volta, l’attesa viene premiata da un risultato sorprendente: qualcosa si apre a me, ma si sottrae anche di nuovo; eppure io so che è tutto lì. Tutti sanno cosa significhi guardare con pazienza, sempre di nuovo, le opere d’arte, ascoltare sempre di nuovo la stessa musica, ascoltare attentamente qualcuno, o semplicemente restare seduti e non fare nulla.
Nell’arte del XX secolo, questa attesa è particolarmente favorita dalla mancanza di immagini. Perché davanti a un’immagine vuota, a una tela monocromatica o a un cubo rigoroso non c’è un contenuto da decifrare. Una musica al limite dell’udibile non mi trascina con sé, ma io vengo rimandato a me stesso e mi viene chiesto di tacere. Non vengo interrogato da nulla che mi distragga da me stesso. Sono solo con me stesso. Questo è il momento in cui in me può sorgere la bellezza dell’attesa. Perché nel vuoto, nel nulla e nel silenzio che si aprono io scopro che l’altro mi viene incontro, sia che sorgano per me i colori nella loro bellezza, sia che si manifesti la straordinarietà di un suono, di una chiamata, o il miracolo di un incontro.
La bellezza dell’attesa consiste nello sperimentare tutto come dono. Questo è ciò che il misticismo chiama «grazia». Molte delle chiese moderne sono prive di immagini. Esse creano spazio all’incontro con Dio, sia per una persona tranquillamente seduta in attesa sia per una comunità che celebra. Molti dipinti moderni sono senza contenuto, superfici vuote, oppure contengono un grande vuoto. La musica contemporanea crea lunghi e intensi momenti di silenzio, il cui senso è la bellezza dell’attesa.
Un grande ostacolo a tale bellezza è la crescente accelerazione del nostro tempo. Oggi, chi si prende il tempo di sostare più di qualche minuto davanti a un’immagine? Il cinema – il genere artistico forse più caratteristico del XX secolo – riunisce in sé i due motivi: la velocità delle immagini e il perseverare. Un film può, nel suo insieme, essere considerato come un’immagine che, per essere riconosciuta come tale, richiede del tempo. A tale riguardo, esso rivela delle analogie con la musica. In questa prospettiva, anche la liturgia può essere considerata come uno sguardo sulla vita.
La presenza dei sofferenti e degli emarginati
Si può sempre trovare la bellezza anche nei dettagli, ma è soltanto nel contesto dell’insieme che si manifesta una bellezza diversa, più profonda e duratura. Riguardo alla liturgia, ciò significa che semplicità, momenti di silenzio, gesti e azioni poco appariscenti acquistano il loro significato solo in relazione al contesto. Quando parliamo del contesto dell’insieme, non ci riferiamo soltanto alle singole opere, ma anche all’intera vita, al mondo. Oggi c’è il pericolo che l’estetismo separi settori parziali della vita dal loro contesto, attribuendo a essi una particolare magia. Un pezzo di natura, settori della convivenza umana, oggetti o luoghi sviluppano, nell’esperienza dell’esteta, una sorprendente bellezza. Anche le cose piccole e poco appariscenti diventano il luogo della rivelazione di una pienezza inaspettata.
Il fenomeno del bello viene staccato dal bene, che richiede che non si perda di vista proprio il mondo dei sofferenti e degli emarginati. Chi si dedica a una contemplazione soltanto del bello assolutizza alcuni settori del mondo, escludendo il resto: viene esclusa soprattutto l’area del dolore, della minaccia e della sofferenza. L’esteticismo dimentica la compassione. Esso si crea un suo proprio mondo, che può essere altamente artistico, ma si chiude al mondo della sofferenza. Per «sofferenti» non dobbiamo intendere soltanto coloro le cui esistenze sono minacciate da malattie e guerre, ma anche quelle persone che sono relegate ai margini della società e le cui esistenze sono dure e piene di privazioni.
Il mondo dei sofferenti può essere modellato artisticamente solo entrando in contatto con esso. Questo è successo più volte, a partire da Los desastres de la guerra di Goya, all’inizio del XIX secolo. Le poesie di Ungaretti ne offrono un eccellente esempio. E tra i molti libri fotografici del XX secolo, due devono essere ricordati in particolare: Roma, di Josef Koudelka, pubblicato per la prima volta nel 1975 con 60 fotografie dei rom nella Cecoslovacchia dell’epoca; e In the American West, di Richard Avedon, pubblicato nel 1985. Per i cristiani, rivolgersi artisticamente alla vita e alla sofferenza degli altri si radica in definitiva nel rivolgersi di Dio al mondo, nell’incarnazione di Gesù Cristo.
La Chiesa occidentale ha in molti modi perso il senso della bellezza, così come ha perso il rapporto con l’arte contemporanea. Non si tratta soltanto di preservare le belle forme tradizionali – come affermano gli oppositori del rinnovamento liturgico e i sostenitori della bellezza della vecchia liturgia tridentina –, ma di riscoprire la bellezza di questo mondo nel contesto del messaggio evangelico. In altre parole, si tratta di vivere una preferenza estetica per i poveri e i reietti, gli emarginati e i dimenticati. Solo quando nella persona poco appariscente e disprezzata verrà percepita la bellezza, il dono della vita potrà essere riconosciuto anche in questi ambienti. Nel riconoscere la bellezza, risplende il dono della vita.
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DISCOVERING BEAUTY. How can the world be saved?
The Western Church has in many ways lost its sense of beauty, just as it has lost its relationship with contemporary art. “Beauty will save the world,” said Dostoevsky. But what beauty? The traditionally recognized and appreciated one? The works of art of the 20th century teach us the sense of a different and new beauty. It is about living an aesthetic preference for the poor and the outcasts, the marginalized and the forgotten. Only when beauty is perceived in those can the gift of life be recognized in these environments as well.
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[1]. Benedetto XVI, Discorso nell’Incontro con gli Artisti, 21 novembre 2009, in www.vatican.va
[2]. G. Ungaretti, «Mio fiume anche tu», in Id., Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2009, 268.