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La Civiltà Cattolica ha appena compiuto 170 anni. L’itinerario della nostra rivista nella storia è lungo. Il paesaggio attorno è cambiato col tempo. Ma il nostro occhio è rimasto vigile. In questo percorso ci sono stati momenti di stanchezza e non sempre la vista è stata limpida, ma questa è proprio la forza di un’iniziativa culturale longeva: essere umana, vivere nella storia, all’interno dei suoi condizionamenti, ma con uno spirito profetico. Confidiamo che essa diventi «più giovane a misura del suo invecchiare», come ci disse san Giovanni XXIII nel 1963.
«170 anni fa il beato Pio IX chiese alla Compagnia di Gesù…»
Ed essa vive, oggi come 170 anni fa, di un rapporto speciale con il Pontefice. Papa Francesco si è rivolto direttamente a La Civiltà Cattolica in due udienze nel Palazzo Apostolico – il 14 giugno 2013 e il 9 febbraio 2017 – e attraverso un chirografo, in occasione dell’uscita del fascicolo numero 4000. Oggi, al compimento del 170° anno, abbiamo ricevuto un chirografo, che esordisce così: «170 anni fa il beato Pio IX chiese alla Compagnia di Gesù di fondare “La Civiltà Cattolica”».
Francesco ricorda che la rivista nasce per esplicita richiesta del Papa, che dunque ne è stato il fondatore. Infatti, il 9 gennaio 1850 Pio IX, che in quel tempo risiedeva a Portici, presso Napoli, ricevette in udienza privata il Preposito generale della Compagnia di Gesù, Jan Roothaan. In quel colloquio ordinò d’autorità che si desse inizio, da parte dei gesuiti, alla pubblicazione di una rivista o di un «giornale popolare», scritto in lingua italiana, che fosse militante nel diffondere la fede e nel combattere gli «errori» dei razionalisti.
In realtà all’interno della Compagnia c’era da anni una discussione circa l’opportunità o meno d’intraprendere un impegno così gravoso e delicato. Ma una volta che fu il Papa a decidere, i gesuiti diedero immediatamente pronta esecuzione all’ordine, troncando ogni ulteriore discussione. Il p. Roothaan, che all’inizio si era dimostrato eccessivamente prudente, per non dire timoroso, riguardo alla pubblicazione della rivista, dopo l’incontro con Pio IX la sostenne contro tutti gli oppositori interni.
Il primo gruppo di autori della nuova rivista era costituito da valenti studiosi gesuiti che si erano distinti nel campo delle scienze teologiche, filosofiche e letterarie e avevano dato prova di essere buoni scrittori. L’impegno fu rilevante e furono destinati alla rivista i migliori pensatori della Compagnia di quel tempo.
Il primo fascicolo de La Civiltà Cattolica fu stampato a Napoli il 6 aprile 1850, in una piccola tipografia ubicata nel cortile di via San Sebastiano. L’articolo di presentazione del p. Carlo Maria Curci, intitolato «Il giornalismo moderno ed il nostro programma», spiegava le finalità che la nuova rivista si proponeva nel campo della stampa. Si specificava che, sebbene la sede fosse Napoli, i gesuiti della rivista aspiravano a essere considerati «indigeni e naturali» in tutte le altre città. Ricordiamo che la rivista veniva pubblicata in uno Stato retto da un regime assoluto, e l’azione della polizia borbonica gettava ombra sull’effettiva libertà dell’opera appena iniziata. Voler essere «indigeni e naturali» dovunque significava il distacco netto dal regime ormai destinato a morire, e una chiara tensione «internazionale», capace di scavalcare le frontiere degli Stati, a partire da Roma e da quelle sue particolari «ispirazioni» che poi «fecondarono l’Italia e il mondo».
«Le voci di tante frontiere che si ascoltano…»
In questi 170 anni La Civiltà Cattolica ha seguìto la storia della Chiesa, dell’Italia e del mondo. Ha attraversato le due guerre mondiali, il Concilio Vaticano II, e visto la conclusione di 11 pontificati. Sfogliare la raccolta dei suoi 4.069 fascicoli pubblicati fino ad oggi significa percorrere la storia contemporanea entrando nelle sue pieghe e nelle sue ragioni. Per questo nel 2018 abbiamo fondato una collana dal titolo «Accènti», che oggi festeggia la pubblicazione del suo decimo volume. In essa raccogliamo la migliore riflessione che abbiamo prodotto in questi 170 anni a partire da un tema di forte attualità. Sappiamo che l’oggi non si comprende senza conoscerne le radici.
La rivista poi è diventata una «rivista internazionale dei gesuiti». Oggi si dichiara tale, coordinando, in seconda di copertina, questa carta di identità con la presenza del motto originario – Beatus populus, cuius Dominus Deus eius – adesso collocato in una posizione nobile, vicina al logo.
Perché e come internazionale? Internazionale per il suo sguardo da sempre ampio al mondo e alle sue tensioni geopolitiche e religiose; internazionale perché dall’aprile 2017 la rivista è pubblicata in 5 lingue; internazionale perché dal febbraio 2018 il collegio si è allargato grazie a un gruppo di 12 «corrispondenti» da tutto il mondo, ma anche a tanti altri gesuiti di varie nazioni.
Papa Francesco ci conferma su questa strada quando, nel suo biglietto augurale, scrive: «Vi auguro di essere creativi in Dio esplorando nuove strade, anche grazie al nuovo respiro internazionale che anima la rivista: si sentono salire dalle pagine le voci di tante frontiere che si ascoltano».
E questo dialogo tra frontiere ci immerge nel mondo e nelle sue tensioni, nei suoi nodi politici globali. Ci fa condividere «le gioie, le tristezze e i problemi del mondo contemporaneo, al livello del progresso scientifico e tecnico, delle conquiste terapeutiche, dell’era digitale, dei mass media, delle comunicazioni; al livello della povertà, delle guerre e delle afflizioni di tanti fratelli e sorelle in diverse parti del mondo, a causa della corsa agli armamenti, delle ingiustizie sociali, della corruzione, delle disuguaglianze, del degrado morale, del terrorismo, della discriminazione, dell’estremismo e di tanti altri motivi».
Riconosciamo il nostro campo di lavoro in questo ampio contesto così com’è descritto in questa citazione tratta dal «Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune», firmato lo scorso 4 febbraio ad Abu Dhabi da Francesco e dal Grande imam di al-Ahzar. E quel documento sarà certamente un punto di riferimento per la nostra «sfida all’apocalisse», come la descriviamo in questo primo fascicolo del 2020.
La «parte amena»
In realtà, nelle sue articolate recenti innovazioni, La Civiltà Cattolica ha tenuto sempre lo sguardo fisso sul passato, sapendo che noi veniamo da lì, e che nel 1850 c’è il nucleo caldo che deve ispirare la nostra rivista anche oggi.
Ed è giunto il momento di recuperare la parte creativa della rivista, parte integrante della sua ispirazione originaria e poi persa nel tempo. Nel suo articolo programmatico pubblicato nel primo fascicolo, il p. Curci scriveva che parte della «sustanza» de La Civiltà Cattolica sarebbe stata «una che potrebbe chiamarsi parte amena, in quanto si studierà di ribadire con forme non iscientifiche ed alquanto leggiadre le verità medesime esposte e ragionate» negli articoli. A occuparsi di questa «parte amena» sarebbe stato p. Antonio Bresciani, famoso a quel tempo come scrittore di romanzi e racconti. Sono note le riflessioni di opposto segno suscitate dalle sue pagine: ad esempio, da parte di Antonio Gramsci.
Rileggiamo oggi quelle parole e riconosciamo in esse un compito per noi. Se vogliamo davvero leggere l’esperienza, non possiamo affrontarla solamente con gli strumenti della logica e del ragionamento: è possibile attingere i significati dell’esperienza grazie alla parola poetica e al linguaggio dell’arte. La «forma leggiadra», come dicevano i nostri, non è un puro ornamento, ma ha a che fare con la verità. È chiaro che l’evoluzione del pensiero estetico dal 1850 a oggi è stata enorme. L’Estetica di Hegel all’epoca era stata pubblicata da poco. La nostra rivista ha seguìto le evoluzioni di questo pensiero. Basti ricordare i saggi di p. Virgilio Fagone. Ma poi nel tempo la critica letteraria e quella cinematografica hanno accompagnato la rivista, anche grazie alle firme recenti dei padri Mondrone, Castelli, Baragli e Fantuzzi, che molti lettori ricordano. Anche l’attuale direttore, p. Antonio Spadaro, ha dedicato ben oltre un decennio della sua attività all’approfondimento letterario e artistico, che adesso è seguìto da p. Claudio Zonta.
Ma la «parte amena» si era persa. Sappiamo però dal nostro Archivio che san Paolo VI nel 1963, in modo gentile, parlando con il p. Roberto Tucci, allora direttore, aveva evocato la necessità di riprendere quella parte che aveva curato p. Bresciani, anche in termini di «letteratura popolare, come fanno i comunisti».
Nel 2020 la «parte amena» ritorna con pieno diritto di cittadinanza tra le nostre pagine. E a firmarla saranno sempre gesuiti, come una volta. Questo richiede uno sforzo di ricerca e selezione significativo. Ci spinge anche un’osservazione di Francesco che, da parte sua, ricevendoci in udienza per festeggiare il fascicolo numero 4000, aveva ricordato alcuni versi di Baudelaire su Rubens, commentando: «Il pensiero della Chiesa deve recuperare genialità e capire sempre meglio come l’uomo si comprende oggi per sviluppare e approfondire il proprio insegnamento». Siamo certi che la «parte amena» darà frutto, anche nella linea della «genialità» chiesta da Francesco. Abbiamo deciso di inaugurarla con un’opera di Jean-Pierre Sonnet, gesuita biblista che per la sua poesia è stato premiato dall’Accademia reale di lingua e letteratura francesi del Belgio.
Una nuova «lettera»
Infine, ricordiamo che in questi ultimi anni la rivista si è ripensata graficamente e ha seguìto anche le evoluzioni della comunicazione contemporanea, diffondendo il suo messaggio in tutte le principali reti sociali (Twitter, Facebook, Instagram, Telegram…), potenziando il suo sito web, creando un’applicazione per i dispositivi mobili e rendendo i fascicoli disponibili anche per tutti gli e-reader (kindle, kobo, tolino ecc.). La rivista si identifica con tutte le piattaforme nelle quali comunica il suo messaggio, creando conversazione viva in chi ci segue e ci legge. Abbiamo dedicato una particolare attenzione alle immagini da collegare ai nostri contenuti – su Instagram soprattutto –, perché parte integrante del messaggio che vogliamo comunicare.
Ma oggi, presi da ritmi che a volte concedono poco spazio alla lettura, comincia a diffondersi l’abitudine ad ascoltare i contenuti culturali. E questo a beneficio anche degli ipovedenti. Crescono le applicazioni che permettono di indossare le cuffie e ascoltare i testi. La Civiltà Cattolica ha così deciso di seguire questa strada. Da alcuni mesi è possibile ascoltare tutti i contenuti del nostro sito. Gli abbonati sull’applicazione possono non solo leggere ma anche ascoltare la lettura integrale degli articoli. Sulla piattaforma Storytel è anche possibile ascoltare i volumi della collana «Accènti» e alcuni articoli letti da attori professionisti.
Al compimento dei nostri 170 anni però abbiamo deciso di aggiungere un nuovo prodotto editoriale dal nome emblematico, che è poi una data: 1850. Si tratta di una newsletter quindicinale che si unisce a quella già attiva da tempo e che presenta il fascicolo in uscita. 1850 conterrà un editoriale in forma di tweet e alcuni contenuti aperti che pescano dalla produzione attuale e dal passato. Sarà presente pure uno spazio che suggerisce la lettura di un contenuto esterno alla nostra rivista: ci serve lo sguardo degli altri. La Civiltà Cattolica, scrivevano i nostri predecessori nel 1851, «ti entra in casa per recarti novelle, per proporti dubbi, per darti schiarimenti su questa o quella quistione delle più dibattute». 1850 sarà una «lettera» di notizie che «ti entra in casa», appunto.
«Combattete la meschinità»
Nel 2020 come nel 1850 la nostra rivista vive di un particolare rapporto con il Pontefice e del dialogo forte con i temi ecclesiali, culturali e sociali che muovono da Roma la vita della Chiesa. È il tratto specifico della sua internazionalità, che non è globalismo, ma cattolicità.
Come scrivevamo, Francesco si era già rivolto direttamente a La Civiltà Cattolica con due discorsi e un chirografo. Oggi riceviamo un secondo chirografo ampio, che abbiamo già citato nello sviluppo di questo editoriale. In esso ci sembra di poter riconoscere i tratti caratteristici del nostro impegno nel presente e nel prossimo futuro.
Ci chiede il Papa: «Continuate a vivere la dinamica tra vita e pensiero con occhi che ascoltano, sapendo che la “civiltà cattolica” è quella del buon samaritano». Occhi che ascoltano. L’occhio ascolta è il titolo di un’opera di Paul Claudel, autore amato e citato da Francesco; ed è anche la qualità che Hans Urs von Balthasar individua nella visione di Romano Guardini: il suo occhio ascolta, si mette a disposizione totale di colui che sta guardando. Questo è anche ciò che Francesco ha chiesto dialogando con i gesuiti in Thailandia: «Dobbiamo cercare il nostro piccolo sentiero attraverso la contemplazione della realtà». E guardando la realtà si prende «consapevolezza delle ferite di questo mondo». Francesco ce lo aveva già detto nel 2017: la vostra «sia una scrittura che tende a comprendere il male, ma anche a versare olio sulle ferite aperte, a guarire». Ce lo ripete adesso, affermando che la vera «civiltà cattolica» è quella del «buon samaritano». Un’affermazione folgorante, che è simile a quella per la prima volta detta al nostro direttore durante l’intervista del 2013: «La Chiesa è un ospedale da campo».
Ci chiede ancora il Papa: «Fate discernimento sui linguaggi, combattendo l’odio, la meschinità e il pregiudizio». Questa frase esprime la consapevolezza di come oggi sia necessario un discernimento non soltanto sui contenuti, ma anche sul linguaggio. È un tema sul quale Francesco è tornato più volte. Ma oggi ci colpisce soprattutto il fatto che ci chieda di combattere la meschinità. Ricordiamo bene quel che scrisse in Amoris laetitia: «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano» (n. 304). E dopo la recita dell’ Angelus, il 15 agosto 2019 esclamò: «Quante meschinità nella vita!». Francesco vuole che la nostra scrittura abbracci la vita umana, non abbia i «paraocchi», non si nasconda dietro a ovvietà, non giudichi per norme rigide e sorde.
Ci chiede infine il Papa: «Soprattutto non accontentatevi di fare proposte di rammendo o di sintesi astratta: accettate invece la sfida delle inquietudini straripanti del tempo presente, nel quale Dio è sempre all’opera». In queste parole cogliamo una visione del mondo che non vede un Dio assente, deluso e dunque alieno alla realtà, ma sempre «all’opera».
Siamo grati a Mauro Biani per la tavola che ha realizzato per noi, ispirato dalle parole di Francesco, tenendo presente tutto, e in equilibrio su un filo (spinato): il buon samaritano; l’essere creativi in Dio esplorando nuove strade; il respiro internazionale; le voci di tante frontiere che si ascoltano; il combattere odio, meschinità e pregiudizio.
«La sfida delle inquietudini straripanti del tempo presente»
In questo quadro, la sfida è offerta dalle «inquietudini del tempo presente», che Francesco definisce «straripanti». L’aggettivo sembra insolito e non comune per il Papa. In realtà lo «straripamento» è un termine chiave, se ritradotto in spagnolo, dal quale chiaramente deriva: desborde. È un termine che Francesco ha appreso da Romano Guardini tramite la lettura di Alfonso López Quintás, e che egli applica, ad esempio, sia alla gioia dei tempi messianici (Evangelii gaudium, n. 4) sia al «missionario pienamente dedito al suo lavoro», che sente se stesso come «una sorgente, che tracima e rinfresca gli altri» (ivi, n. 272). Ma è sin dall’inizio del suo pontificato che Francesco parla di «de-bordi» (periferie, pensiero «incompleto», ponti e non muri, agire per la «maggior» gloria di Dio…). Le risposte che offre, adeguate alle strutture e all’universale, sono spesso sul lato della creatività e del rischio.
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Francesco chiede a La Civiltà Cattolica di non addomesticare le inquietudini, di dare loro aria, di percepirle e fare discernimento su esse, senza optare per soluzioni facili e prêt-à-porter, capaci di spegnere anche lo Spirito, che invece muove e origina alcune di queste inquietudini. Grazie al biglietto che abbiamo appena ricevuto e al suo riferimento al desborde comprendiamo l’importanza di dire una parola – sia quella «ragionata» degli articoli sia quella «leggiadra» della poesia – in grado di contenere l’inquietudine tenendola in caldo, senza raffreddarla, senza spegnerla.
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“LA CIVILTÀ CATTOLICA” TURNS 170.
La Civiltà Cattolica has just turned 170. While touching on the history of our magazine, this editorial recalls the innovations that it has launched in recent years. Commencing with the message received from the Pontiff for the occasion, La Civiltà Cattolica confirms – and from today declares itself – an “international Jesuit magazine”. Recalling that from its very founding there was a poetic and creative “tone”, with this Editorial we announce that the tradition is being recovered, and the reasons for it are here given. Finally, the birth of a new newsletter entitled “1850” (the year the magazine was founded) is announced so as to amplify its message. The great challenge indicated by Francis is confirmed: “to accept the challenge of the overflowing restlessness of the present time, in which God is always at work”.