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Da 167 anni, cioè sin dal 1850, La Civiltà Cattolica intende offrire ai suoi lettori la condivisione di un’esperienza intellettuale illuminata dalla fede cristiana e profondamente innestata nella vita culturale, sociale e politica dei nostri giorni. Con il presente quaderno essa raggiunge il numero 4.000, un traguardo davvero raro nella storia delle riviste culturali. Facendo una sorta di check di salute quando la rivista compiva 100 anni, nel 1950 Pio XII poteva concludere: «Vigoreggia il vostro periodico e conserva quasi intatta la freschezza della sua vita giovanile». E Paolo VI, al compimento dei 125 anni, la definiva «giovanile e pugnace». Oggi noi confidiamo che essa diventi «più giovane a misura del suo invecchiare», come disse Giovanni XXIII al direttore dell’epoca, il p. Tucci — divenuto poi cardinale —, il 9 febbraio 1963.
Le riviste culturali nei primi anni del nostro Novecento e tra le due guerre mondiali hanno rappresentato un luogo vivo e inquieto di scambio, incontro e scontro culturale, di valori e di idee. La Civiltà Cattolica, nel suo «fortunoso viaggio» nel tempo, come lo definivano nel 1892 i nostri predecessori giunti al numero 1.000, non è mai venuta meno alla sua missione, anche se in forme e con contenuti differenti. Il termine «rivista», del resto, deriva dal verbo «rivedere» e indica il compito di confrontare, esaminare, giudicare. Oggi non si tratta ovviamente di fare proclami o campagne ideologiche, ma certamente di avere una coscienza critica attiva, capace di dichiarare gusti e prospettive, e soprattutto capace di aprire scenari, ispirare l’azione e la sensibilità.
Il contributo de La Civiltà Cattolica è serio e qualificato, ma non elitario. Non è mai stato tale. Essa soprattutto è una rivista che, sin dall’epoca del nostro Risorgimento, vuole condividere le proprie riflessioni non solamente con il mondo cattolico, ma con ogni uomo impegnato seriamente nel mondo e desideroso di avere fonti di formazione affidabili, capaci di far pensare e di far maturare il giudizio personale. Anche se in modalità molto differenti nel corso di ormai quasi 170 anni, la rivista ha inteso fare da ponte, interpretando il mondo per la Chiesa e la Chiesa per il mondo. Questo è anche ciò che papa Francesco ci chiede nel chirografo che ha voluto offrire alla rivista come augurio per la pubblicazione del suo fascicolo numero 4.000: La Civiltà Cattolica sia «una rivista ponte, di frontiera e di discernimento».
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Giovanni Paolo II, nel 1982, incontrando gli scrittori della rivista, fece un elenco di temi da trattare. «In questa situazione — ci disse — una rivista come la vostra deve necessariamente aprirsi ai grandi problemi del mondo di oggi: sociali, politici, economici, morali e religiosi. Il problema ecumenico, il dialogo delle culture, l’inculturazione della fede, i problemi dell’indifferenza religiosa, del secolarismo e dell’ateismo, il problema della fame, del sottosviluppo e dell’ambiente». Considerando gli ultimi 1.000 numeri, possiamo notare come dal 1975 la rivista si sia trovata ad affrontare queste e tante altre sfide. E lo ha fatto mentre sulla cattedra di Pietro si sono avvicendati cinque Pontefici: Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco.
Gli ultimi quarant’anni hanno visto succedersi avvenimenti che si possono presentare con una rapida carrellata: la fine della guerra in Vietnam, l’elezione di Margaret Thatcher, di Ronald Reagan e di Mikhail Gorbaciov, la guerra delle Falkland/Malvinas, l’incidente di Cernobyl, la caduta del muro di Berlino, la guerra del Golfo, la costituzione dell’Unione Europea e dell’Unione monetaria europea, la tragedia a seguito della dissoluzione della Jugoslavia, l’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, gli attentati dell’11 settembre 2001 che colpirono il World Trade Center di New York e il conseguente rovesciamento del regime dei talebani in Afghanistan, l’invasione dell’Iraq e l’uccisione di Saddam Hussein, l’insediamento alla Casa Bianca di un presidente degli Stati Uniti d’America di colore, Barack Obama, l’uccisione di Osama Bin Laden e di Muhammar Gheddafi, le «primavere arabe», e poi la nascita del cosiddetto «Stato Islamico» (Isis), l’emergenza del fenomeno migratorio.
Nel nostro Paese si sono succeduti fino ad oggi 25 governi, e la nostra società ha subìto le scosse degli «anni di piombo» e dello scandalo «Tangentopoli» e la relativa inchiesta «Mani pulite». In questi anni sono stati assassinati Aldo Moro, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sono nati nuovi partiti quali «Forza Italia» e la «Lega Nord» in una fase definita «Seconda Repubblica», che ha visto il sorgere di un sistema parzialmente bipolare; successivamente è nato il «Movimento 5 Stelle», che ha nuovamente cambiato gli schemi. E infine, che dire della crisi dell’economia, dello sviluppo eccezionale delle tecnologie digitali e del loro enorme impatto sulla cultura, sulla politica e sulla comunicazione?
La Civiltà Cattolica si è trovata a trattare di tutti questi temi e di molti altri, dei quali, ovviamente, qui non è possibile dare conto. E ha cercato di farlo sempre in maniera attenta, vigile, critica, propositiva. Sfogliare gli ultimi 1.000 fascicoli toglie il respiro, e fa comprendere la mole di riflessioni e di lavoro che i nostri scrittori hanno assunto sulle proprie spalle per condurre avanti il nostro periodico.
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Tutte le riflessioni che la rivista ha offerto su questi temi, e quelle che continua a offrire oggi, sono caratterizzate da una sintonia speciale con la Santa Sede. Questa «sintonia» è alle radici della rivista, come è attestato pure dal breve di Pio IX Gravissimum supremi, del 12 febbraio 1866, cioè di ormai 150 anni fa compiuti. In questo breve il «Collegio degli scrittori» della Civiltà Cattolica viene eretto con uno statuto che — è detto esplicitamente — solo un Pontefice può modificare per espressa affermazione papale. La rivista in questi 4.000 fascicoli ha tenuto ferma questa «sintonia», che tutti coloro che si sono succeduti sulla cattedra di Pietro hanno riconosciuto come «carattere essenziale di questa rivista».
Al compiersi del primo millesimo numero (1892), i nostri predecessori, con tono tipico dell’epoca e non senza immaginazione, definivano il Papa «l’astro benefico, al cui calore e alla cui luce il nostro periodico deve la florida vita». Al compiersi del secondo millesimo (1933), più sobriamente e forse anche più efficacemente lo si definiva «iniziatore primo» e «costante ispiratore». Nell’editoriale del terzo millesimo fascicolo (1975) leggiamo parole più articolate, che esemplificano il rapporto di fiducia e fedeltà tra la rivista e il Papa. Esse risuonano oggi di grande — e a tratti inquietante — attualità: «Ci sembra che questo carattere di assoluta fedeltà al Papa debba essere oggi particolarmente sottolineato non tanto come un merito, quanto piuttosto come un impegno della Civiltà Cattolica. Di fronte ad attacchi sempre più violenti alla persona ed all’insegnamento del Papa, anche da parte di taluni cattolici; di fronte ai tentativi di minimizzare e di ridurre a poca cosa, se non addirittura di negare, il primato ed il magistero del Romano Pontefice; di fronte al “disinteresse” che taluni ostentano nei confronti del Vicario di Cristo, la Civiltà Cattolica, in continuità ed in coerenza con tutta la sua tradizione, intende lavorare in spirito di fedele adesione alle direttive dottrinali e pastorali del Romano Pontefice, nella coscienza di servire in tal modo con fedeltà autenticamente evangelica Cristo e la Chiesa».
I Pontefici hanno sempre corrisposto al legame di affetto e di fedeltà. Ad esempio, Giovanni Paolo II, il 19 gennaio 1990, ha ribadito essere suo «vivo desiderio che questo vincolo non solo si mantenga, ma si rafforzi», perché la rivista adempie «a un servizio che la Santa Sede apprezza molto e sul quale è sicura di poter contare in ogni circostanza». Questo «particolare legame con il Papa e la Sede Apostolica» — ha ricordato papa Francesco nell’udienza concessa ai gesuiti della rivista il 14 giugno 2013, a tre mesi dalla sua elezione — è un «tratto essenziale» della rivista, che è dunque da considerare «unica nel suo genere». Il Pontefice, riprendendo la missione che i suoi immediati predecessori avevano conferito alla rivista, l’ha rilanciata e arricchita di significato. Ha così sintetizzato le parole chiave di tale missione: dialogo, discernimento, frontiera. Per noi queste tre parole sono diventate un programma da mettere in atto con fedeltà.
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La storia della rivista è storia di alti e bassi, di chiari e scuri, e anche di una vis polemica della quale nel passato essa si è fatta carico secondo lo spirito dei tempi. Francesco ha ricordato che La Civiltà Cattolica ha inizialmente assunto un atteggiamento combattivo e spesso anche aspro. Tuttavia non ha invitato a rinnegare la storia, ma a prendere spunto da essa. La polemica resta un valore, se diretta contro «le ipocrisie frutto di un cuore chiuso, malato». La Civiltà Cattolica è chiamata in questo senso a una missione di denuncia. Ma la pars destruens non è affatto sufficiente: il primo scopo della rivista è quello di «costruire ponti», di dialogare con la cultura contemporanea, con l’uomo di oggi.
Con questo invito Francesco tocca implicitamente il passaggio più decisivo e doloroso per la rivista, e soprattutto per il suo fondatore, il p. Carlo Maria Curci. Egli, da antiliberale e difensore strenuo del potere temporale del Papa, dopo la breccia di Porta Pia e l’inizio della «questione romana» imparò a vedere nello Stato unitario una autorità civile irreversibile, impegnandosi per superare l’intransigenza di alcune correnti cattoliche — incluse quelle ultraconservatrici e ultramontane della stessa Compagnia di Gesù di allora — e agendo per lavorare a fondo per la rinascita morale, civile e religiosa dell’Italia. Una posizione molto vicina a quella di Alessandro Manzoni e di Rosmini, per altro. La tensione tra gli intransigenti clericali e gli intransigenti liberali e anticlericali fu forte negli ultimi decenni dell’Ottocento e portò all’espulsione del p. Curci dalla rivista, dalla Compagnia di Gesù e persino alla sua sospensione a divinis nel 1884. Dopo varie vicende, egli fu riammesso come professo nella Compagnia 7 anni dopo, poco prima di morire.
Sebbene le strade della rivista e del suo fondatore si siano separate, oggi sarebbe utile riscoprire la sua figura di precursore di una religiosità inscindibile dall’apertura alla libertà e alla tolleranza che rendono lo Stato democratico una «casa comune» per tutti i cittadini. P. Curci ha cercato nella fedeltà e con sacrificio personale nuove vie della Chiesa italiana ed europea.
Del resto, oggi la situazione è profondamente mutata rispetto agli anni in cui nacque La Civiltà Cattolica. E, come fece Giovanni Paolo II in occasione dei 150 anni della rivista, così anche Francesco ha richiamato la Gaudium et spes (n. 92), per ricordare la necessità di stabilire un dialogo — ispirato dal solo amore della verità — con tutti gli uomini, anche con coloro che non condividono la fede cristiana ma «hanno il culto di alti valori umani», e perfino «con coloro che si oppongono alla Chiesa e la perseguitano in varie maniere». I Papi del Concilio Vaticano II hanno dimostrato la rinnovata capacità della Chiesa di interpretare i segni dei tempi, aiutando gli uomini ad affrontare il proprio tempo con tutte le sue sfide. Di questa capacità La Civiltà Cattolica ha voluto farsi interprete con decisione.
Il dialogo ha senso soltanto se si riconosce in chi si ha davanti un interlocutore che abbia qualcosa di buono da dire. Senza cadere nel relativismo, occorre fare spazio ai punti di vista differenti, spesso sostenuti non solo da persone, ma anche da istituzioni culturali, sociali, politiche, per comprenderne le ragioni dall’interno. Il compito di una rivista di cultura come la nostra, dunque, non può essere la pura apologetica. In un mondo come il nostro, «soggetto a rapidi mutamenti» e «agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede» — come disse Benedetto XVI, annunciando la sua rinuncia al ministero petrino —, deve includere lo sforzo di comprendere le ragioni profonde dei dibattiti culturali, politici e sociali. Senza capire non si può riflettere né aiutare gli altri, cioè i lettori, a comprendere.
Questo ponte è esso stesso anche una frontiera. Noi, in quanto gesuiti, siamo già di per sé chiamati a rivolgerci «verso chi è meno facilmente raggiungibile dal ministero ordinario della Chiesa» (Congregazione Generale XXXIV, Decreto IV, n. 18). Francesco, nell’udienza del 2013, ci ha incoraggiato ad essere «uomini di frontiera, con quella capacità che viene da Dio». Ma ci ha esortato soprattutto a non cadere «nella tentazione di addomesticare le frontiere: si deve andare verso le frontiere e non portare le frontiere a casa per verniciarle un po’ e addomesticarle». Noi siamo chiamati a vivere nelle frontiere, per essere realmente a contatto con ogni realtà umana, anche la più lontana. L’obiettivo è quello di essere capaci di abitare i confini difficili e di entrare in contatto con le realtà culturali e sociali «lontane» e non raggiunte ancora dalla parola del Vangelo.
In un certo senso, sin dal 1849, cioè quando la rivista era ancora in fase progettuale, la si concepiva come «una vera medicina» per tempi avvertiti come estremamente difficili. Siamo ben lontani dalle sensibilità di oggi e dalla Chiesa «ospedale da campo», secondo la definizione di Francesco. E tuttavia colpisce la funzione «terapeutica» del giornalismo che i nostri fondatori avevano in mente. E perché fosse realmente medicina, si voleva che la rivista contenesse «l’attraente della novità, dell’attualità e varietà». Soprattutto si voleva che non fosse assolutamente una testata «clericale». Scriveva il p. Curci, a proposito del periodico: «Il farlo apparire come cosa da sagrestia e Breviario, lo farebbe rilegare tra i conventi ed i seminari scemandone od annullandone quella grande utilità che noi ce ne promettemmo». Era il 1849!
Pertanto il discernimento è indispensabile. Una rivista culturale come la nostra deve immergersi nel mondo per ascoltarne il cuore pulsante, per riconoscerne i desideri, le attese e le frustrazioni, come pure la presenza operosa di Dio. Il discernimento spirituale evangelico che deve guidare La Civiltà Cattolica è quello capace di riconoscere la presenza dello Spirito di Dio nella realtà umana e culturale, il seme già piantato della sua presenza. E questo senza pregiudizi, paraocchi, automatismi, presunzioni o rigidità.
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Invece oggi la tentazione forte — a volte anche nel mondo cattolico — è quella di serrare le file e di opporre al caos percepito la risposta di un cattolicesimo intransigente e identitario: non una «civiltà cattolica», insomma, ma una bolla chiusa in se stessa e dentro una cortina di rancore nei confronti di un mondo che sembra ormai perso e alla deriva, abbandonato da Dio, come qualcuno teme. Ma in questo quadro la Chiesa si ridurrebbe a essere una setta di «puri», che resistono bellicosamente. Attorno a noi avvertiamo esserci la tentazione di costituire l’ennesima «tribù» con norme e regole che superano e — in definitiva — uccidono lo spirito. La tentazione identitaria è la necrosi del cristianesimo.
Noi invece facciamo nostre, mille fascicoli dopo, le parole che i nostri predecessori scrivevano nel 1975, in occasione della pubblicazione del numero 3.000: si deve «escludere ogni pretesa integrista: sia la pretesa di costruire una “civiltà cattolica” noncurante della pluralità delle idee, delle concezioni del mondo oggi vigenti e del diritto che i non-cattolici hanno di farle valere in forza della loro libertà di coscienza; sia la pretesa che i “cattolici” possano e debbano costruire la “nuova civiltà” da soli, respingendo l’apporto che possono dare altri, portatori di valori diversi, ma pure validi perché “umani”».
E ci riconosciamo, in maniera rinnovata, nella nostra testata, che mette insieme i termini «civiltà» e «cattolicità».
Giovanni Paolo II, nel 1982, ricevendo i nostri scrittori, notava che molto saggiamente i fondatori hanno preferito al termine «cultura» il termine classico di «civiltà». Considerava che «anche la migliore antropologia culturale distingue tra “culture”, che possono essere “barbare”, e “civiltà”, che possono essere “primitive”, ma non barbare. Barbaro in realtà è ciò che è disumano, anche se “evoluto”; civile ciò che è umano, anche se semplice e primitivo».
Sin dall’editoriale del primo fascicolo del 1850 la nostra rivista ha dato una chiara interpretazione della propria «cattolicità»: «Una Civiltà cattolica non sarebbe cattolica, cioè universale, se non potesse comporsi con qualunque forma di cosa pubblica». Oggi la fedeltà che ci viene richiesta è quella di uscire dalle secche dei porti sicuri e di entrare in mare aperto e affrontare le sfide attuali con decisione, ma senza acredine, senza costruire muri e barriere, componendoci «con ogni forma di cosa pubblica», appunto. Questo ci ha insegnato papa Francesco, e questo richiede oggi la nostra fedeltà alla Sede Apostolica.
Grazie alla molteplicità e all’ampiezza degli argomenti trattati, il nostro lettore può familiarizzarsi con una quantità di temi dibattuti e attuali. Soprattutto potrà avere materiali e spunti per farsi un’opinione personale, grazie ad analisi incisive, ma non troppo complesse e articolate. La Civiltà Cattolica rimane dunque una rivista «militante» più che «da laboratorio». Lo affermiamo con le parole che Paolo VI ci ha detto nel 1975: «“La Civiltà Cattolica” è stata punto di riferimento, col quale è stato sempre vantaggioso porre il confronto: e lo è stata, non certo dettando norme astratte dall’alto di un’impossibile lontananza, ma prendendo viva parte al travaglio del secolo, interpretandone le correnti, indicandone i traviamenti, sceverandone gli elementi positivi, costituendo una sicura pietra di paragone, un reagente che permettesse il confronto delle idee, nel rispetto degli uomini, sì, ma nel più grande e necessario rispetto della verità» (corsivi nostri).
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Questa apertura di approccio e di temi ci ha portato negli ultimi anni ad accrescere la dimensione internazionale della rivista. Se una volta bastava un gruppetto di scrittori, i quali, chiusi in casa, potevano lavorare sui grandi problemi del mondo, oggi questo sarebbe assurdo. Non solo: abbiamo capito che non basta neanche uscire di casa. Abbiamo bisogno di scrittori che siano testimoni diretti o che vivano climi culturali, sociali e politici diversi dai nostri, pur condividendo il nostro approccio alla realtà, essendo gesuiti. Abbiamo rapidamente maturato la convinzione che oggi una rivista di cultura sempre meno può essere identificata da una nazionalità precisa. Per comprendere la realtà occorre uno sguardo ampio e plurale, che non solo sappia vedere quel che accade nel mondo, ma che accolga anche voci dalle varie parti del mondo. Da alcuni anni ormai le firme della rivista — tutte di gesuiti — provengono da varie nazioni e continenti e forniscono contributi originali. E il Collegio stesso ha accolto gesuiti di altre nazioni.
Così, anche La Civiltà Cattolica negli ultimi anni è andata assumendo un profilo decisamente internazionale. Già nel 1849, nel primo documento progettuale della rivista, si parlava del desiderio di una «universalità dei lettori». È proprio questa tendenza a far maturare oggi l’esigenza improrogabile di offrire la rivista a un più ampio numero di lettori in lingue diverse dall’italiano. Per questo con il fascicolo n. 4.000 partono le edizioni della rivista in francese (Parole et Silence), inglese (UcaNews), spagnolo (Herder) e coreano (a cura della Provincia coreana dei gesuiti). Chiaramente questa dimensione pluringuistica — una novità assoluta nella storia de La Civiltà Cattolica — non lascerà immutata l’identità stessa della rivista, proprio perché, avendo lettori in altre lingue, le istanze di altri Paesi e culture entreranno a far parte del cuore stesso della rivista come mai prima.
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Ma una rivista è fatta anche di stili tipografici e mezzi di diffusione. Il 5 aprile 2013, presso la Sala Stampa della Santa Sede, ha avuto luogo una conferenza stampa di presentazione del primo numero della nuova versione cartacea e digitale de La Civiltà Cattolica. In quella occasione veniva annunciato l’avvio ufficiale di una serie di innovazioni importanti. E infatti, dall’aprile 2013 il nostro lettore ha ricevuto la rivista in una veste grafica differente rispetto a quella alla quale era abituato da 41 anni. Chi ha un po’ di memoria storica ha riconosciuto nel font (o «carattere») della nuova testata lo stesso «bodoni» che aveva caratterizzato da sempre La Civiltà Cattolica, e in particolare nella forma che aveva prima del 1971. Per proseguire verso il futuro la nostra rivista ha preso la rincorsa, andando indietro per avere più forza per correre avanti, anche nell’aspetto grafico. È cambiato anche il font delle pagine de La Civiltà Cattolica. Adesso è il «cardo», un tipo di carattere open source, cioè libero, molto usato negli ambienti accademici e di ricerca per la sua flessibilità e per l’ampio numero di segni propri delle varie lingue del mondo. Oltre che per la sua eleganza e ariosità, esso è stato scelto come un segno di apertura alle diverse lingue e culture.
I primi gesuiti della rivista furono innovatori, immaginando l’uso della stampa, che era il mezzo stesso di cui si servivano i rivoluzionari, i liberali e gli anarchici. Colpisce leggere come nel primo «progetto» de La Civiltà Cattolica del 1849 si dedichi un’ampia riflessione agli aspetti pratici della diffusione, ipotizzando l’acquisto di una presse mécanique da Parigi, del costo di 7.000 franchi, capace di stampare allora 1.000 fogli all’ora. Così oggi è naturale — mutatis mutandis — che il nostro messaggio sia diffuso anche su supporti tecnologicamente adeguati per essere fruibile da parte di un numero maggiore di persone. Quindi La Civiltà Cattolica da oggi arriva anche sotto forma digitale di «applicazione» su iPad e iPhone, i tablet Android e Kindle. La presenza sul digitale è complementare a quella sulla carta. Con occhio molto attento al passato, grazie alla collaborazione di Google, sono stati resi disponibili in forma digitale tutti i fascicoli pubblicati sin dal 1850.
La nostra riflessione, al tempo dei network sociali, è chiamata a diventare «condivisa». L’evoluzione del mondo dell’informazione ci ha spinto da anni ormai a essere presenti su Facebook, Twitter (@civcatt), e più di recente su Instagram e Telegram. Infine, nel dicembre 2016 è stato aggiornato radicalmente il nostro sito internet www.laciviltacattolica.it che offre un’informazione più ampia sugli articoli e permette una maggiore interazione con il nostro lavoro, incluse anche le nostre conferenze e le attività che si svolgono nella nostra sede.
La natura di rivista di cultura generale e di alta divulgazione, propria sin dalle origini de La Civiltà Cattolica, rimane una sua peculiarità. È sempre difficile tenere un equilibrio tra le riviste popolari e quelle specializzate. Sembra che ci sia mercato solo per testate di massa o pubblicazioni di settore. Eppure la nostra sfida resta aperta e valida. Soprattutto perché crediamo che ci sia bisogno di uno spazio aperto tra il campo della ricerca, che tende a chiudersi in élites di specialisti colti, e quello della vita ordinaria di persone che si interrogano su tanti problemi della vita del mondo e che sono alla ricerca di risposte o anche di corretti interrogativi. La nostra informazione, ci diceva Paolo VI, deve essere «completa e appassionante». La Civiltà Cattolica — scrivevano i nostri predecessori nel 1851 — «ti entra in casa per recarti novelle, per proporti dubbi, per darti schiarimenti su questa o quella questione delle più dibattute».
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Contemplando la raccolta completa de La Civiltà Cattolica, ci rendiamo conto, come scrissero i nostri predecessori nel 1933, in occasione del numero 2.000, che «non sono “morte carte” per noi; è tutta una vita raccolta» in questi 4.000 quaderni. È una storia umile «di lavori continuati e di frutti», «di sforzi, d’industrie e di studi ininterrotti ed intensi», «di lotte sostenute, di danni sofferti, di contraddizioni incontrate, di amarezze patite». Se Leone XIII ci definiva un «gruppo di uomini eruditi», i nostri predecessori si definivano semplicemente «lavoratori».
È una storia pienamente umana la nostra, dunque. La storia di uomini «uniti in comunanza di vita e di studi» — come confermò papa Leone XIII —, che lavorano «consultandosi tra loro». Ma, accanto alla consapevolezza della «missione sacra», i gesuiti esprimevano nel 1933 anche la certezza che questo compito «non può dare frutti se non è sostenuto e incoraggiato dai lettori, associati ed amici, i quali non solo lo ascoltino e lo seguano, ma lo diffondano largamente intorno». La simpatia e il sostegno dei lettori sono condizione essenziale per la vita de La Civiltà Cattolica.
E la nostra rivista oggi si apre alla comunità dei lettori con lo stesso spirito che nel 1851 veniva così formulato: «Tra chi scrive e chi legge corre una comunicazione di pensieri e di affetti che tiene molto dell’amicizia, spesso giunge ad essere quasi una segreta intimità: soprattutto quando la lealtà da una parte e la fiducia dall’altra vengono a raffermarla».