
ITALIA, REGNO UNITO, 2025 (SERIE NETFLIX, 6 EP.).
«Chi non ha letto Il Gattopardo alzi la mano». Così, provocatoriamente, si può aprire il discorso su uno dei capolavori della letteratura italiana e internazionale, scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, vincitore del Premio Strega 1959, che, dopo la celebre trasposizione cinematografica a opera di Luchino Visconti (1963), maestro del realismo cinematografico e vincitore della Palma d’Oro a Cannes, oggi parla il linguaggio contemporaneo della serialità.
Disponibile da marzo 2025 in Italia su Netflix, la saga del Principe di Salina, don Fabrizio Corbara, interpretato da Kim Rossi Stuart, sembra aver applicato alla lettera l’iconica frase detta dal nipote Tancredi (Saul Nanni) a suo zio: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Il piccolo schermo e i codici linguistici e produttivi della piattaforma streaming costituiscono gli architravi del mutamento radicale, anche se l’opera letteraria, tra le più simboliche e metaforiche della condizione umana, risulta inalterata nella struttura drammaturgica. Un kolossal dal punto di vista produttivo raro per l’Italia, ma televisivo, dato che oggi la visione della maggior parte dei film «si consuma» dal divano di casa.
Siamo in Sicilia, i Salina hanno diversi possedimenti e controllano il territorio; nel maggio 1860 Garibaldi sbarca sull’isola, vuole portare l’unità. A lungo divisa e sotto varie influenze, la penisola sta infatti per trasformarsi nel Regno d’Italia. Quel che muta è il punto di vista, più vicino allo spettatore del XXI secolo; ma di chi?
Il personaggio che subisce una trasformazione più decisa è Concetta (Benedetta Porcaroli): ama suo padre, ma si ribella al «patriarcato» che costringe la donna entro limiti precostituiti, oggi come allora. Intelligente, bella, sensibile e colta, non può scegliere per la sua vita. Nel malessere della ragazza che diventa donna si snoda la linea narrativa attraverso la Sicilia dei nobili aristocratici, investiti come divinità di un potere, e le manovre politiche di una «generazione disgraziata, a cavallo fra i vecchi tempi e i nuovi».
Allusiva di una condizione umana nei suoi temi universali – potere, amore, progresso politico e sociale –, la serie diretta da tre diversi registi (Tom Shankland, Giuseppe Capotondi e Laura Luchetti) ruota intorno a «bellezza», molto evidente nella scelta degli interpreti principali, e «decadenza», sinonimo di morte. Questa dicotomia si incarna a livello visivo nei paesaggi tipici siciliani, bruciati dal sole torrido: ad esempio, nelle carrozze della famiglia Salina, che sollevano polvere nel paesaggio quasi desertico dei Calanchi, ma in particolare nella danza del coreografo Gianni Santucci, specialmente in due grandi momenti: il Ballo della Liberazione e il Gran Valzer del finale, grandioso – con protagonisti «Il Gattopardo» e Angelica (il vecchio versus il nuovo) –, malinconico e decadente.
«Il discorso coreografico è stato affrontato dal punto di vista “storico” e “tecnico”, domandandosi “cosa” e “come” si danzasse in quel periodo e in quella società, per trovare una via personale», come ci ha spiegato Cristina Arrò, assistente coreografa, notando che ogni quadro di danza è un momento diegetico, un tassello della storia. Ma è Santucci, l’autore delle coreografie, a mettere a fuoco la chiave di quel connubio indissolubile bellezza/morte che attraversa la serie: il valzer finale è ballato a sinistra. Normalmente il valzer si balla a destra, lungi dall’essere un mero dettaglio; al pari del bal musette – danza francese popolare a Parigi nel 1880, che utilizza lo stesso giro del valzer, ma a sinistra –, il «valzer all’inverso» era danzato dalle prostitute, dai ladri, dai «reietti». Ma ne Il Gattopardo, dunque, è il ballo dei potenti? La danza incarna così il respiro della Storia, che volge oramai in senso inverso. L’arma del cambiamento, a un livello puramente narrativo, è la bellissima Angelica (Deva Cassel), figlia del sindaco Don Calogero Sedara; ma, a un livello cinestetico, è la danza a dar vita all’ordine capovolto, facendo girare al contrario i destini degli esseri umani, travolti dal ritmo fatale della valse à l’envers.
«Il Gattopardo: film o serie?», sembra essere la domanda diffusa. Piuttosto: siamo certi che nel radicale mutamento di superficie noi spettatori contemporanei siamo così distanti da quella sfolgorante decadenza?