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Ogni guerra è la sconfitta della pace. Ogni guerra è dolore, sofferenza e morte. In ogni guerra la pace è un percorso di ricostruzione complesso. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha risvegliato dal torpore le società europee, assuefatte all’idea che la guerra fosse problema di altri.
Eppure, il mondo è attraversato da numerosi conflitti, la maggior parte dei quali si trovano in Africa e Asia, ma tutti i continenti sono coinvolti (cfr The armed conflict location and event data project). La mappa geografica mostra la tragedia della «Terza guerra mondiale a pezzi», che già da tempo papa Francesco aveva evocato.
Gli organismi internazionali che dovrebbero operare per allentare le tensioni e disinnescare i conflitti sembrano impotenti. Quando essi iniziavano il loro compito, al termine della Seconda guerra mondiale, Maritain auspicava la formazione di «una comunità sovra-nazionale fondata non sui trattati, basati sull’autorità degli Stati, ma su una sorta di Costituzione del mondo.
Nonostante la forza utopica di queste intenzioni e il cammino fatto negli ultimi settant’anni, purtroppo vale ancora la tesi che “lo spirito è sempre in ritardo sulla materia e sugli eventi”. Siamo tragicamente in ritardo, interessi economici, militari ed identitari superano i pensieri di pace» (Fabio Mazzocchio, «Il realismo della pace e le sue condizioni»).
La guerra in Ucraina, che per anni è stata combattuta in sordina – «conflitto a bassa intensità», lo chiamano gli esperti – all’interno della regione del Donbass, è esplosa ora in tutta la sua violenza. Dopo il 24 febbraio 2022 un’efficace strategia comunicativa ha toccato le coscienze dell’opinione pubblica europea e italiana. Governi democratici e organizzazioni internazionali hanno approvato rapidamente la proposta di isolare il Paese aggressore con un embargo senza precedenti (cfr Fernando de la Iglesia Viguiristi, «Le conseguenze economiche della guerra di Putin»).
I Paesi europei – a partire da quelli confinanti, in particolare la Polonia – si sono resi disponibili ad accogliere i rifugiati, dimostrando una grande capacità di rispondere all’emergenza. Inoltre, le nazioni aderenti alla Nato si stanno impegnando a rifornire di beni e di armi il Paese aggredito, dichiarando di non volere intervenire direttamente nel conflitto, per evitare un’escalation che diventerebbe irrimediabile. Tuttavia, i primi mesi di guerra e gli effetti dell’embargo imposto alla Russia iniziano a essere sentiti da tutti: petrolio, gas naturale, grano (di cui i Paesi belligeranti sono ricchi o sono punto di transito), ad esempio, sono risorse preziose che subiscono rincari vertiginosi, come sperimentano le famiglie quando pagano le bollette del gas, o i Paesi in via di sviluppo, che vedono iniziare a scarseggiare le loro provviste di farina. Così impariamo che siamo tutti coinvolti, anche indirettamente.
Tocchiamo con mano quanto aveva già affermato papa Francesco nella sua enciclica Fratelli tutti: «Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male. Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi subisce i danni. Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili massacrati come “danni collaterali”. Domandiamo alle vittime. Prestiamo attenzione ai profughi, a quanti hanno subìto le radiazioni atomiche o gli attacchi chimici, alle donne che hanno perso i figli, ai bambini mutilati o privati della loro infanzia. Consideriamo la verità di queste vittime della violenza, guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace» (FT 261).
Preparati alla guerra
I conflitti non nascono per caso; ci sono diversi interessi che si sovrappongono e si intrecciano: da quelli economici a quelli politici, da quelli culturali a quelli religiosi (cfr A. Spadaro, «Sette quadri sull’invasione dell’Ucraina. Il mondo non è una scacchiera»). Le strategie politiche fondate su difesa delle frontiere, estensione delle aree di influenza, definizione di zone neutrali e di Stati «cuscinetto» alimentano e giustificano gli investimenti nell’industria bellica, che non conosce crisi. L’ Annual Review 2021, elaborato dal Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), stila la classifica dei primi 10 Paesi che investono in armamenti. Nell’elenco troviamo al primo posto gli Usa (778 miliardi di dollari), al secondo la Cina (252 miliardi), al terzo l’India, e al quarto la Russia (61,7 miliardi); seguono Regno Unito (59,2 miliardi), Germania (52,8) e Francia (52,7). Cifre da capogiro che danno un’idea dell’imponenza dell’impegno economico e suggeriscono una competizione tra i diversi soggetti! Attraverso le spese militari si inviano segnali, e i Paesi più potenti competono per mantenere le loro posizioni nella scacchiera mondiale. Dal rapporto si trae un’ulteriore indicazione che mostra anche quali sono i principali esportatori di armi nel mondo. I primi 10 Paesi esportatori tra il 2016 e il 2020 vanno dal 37% di quota di mercato detenuta dagli Usa al 2,2% occupata dall’Italia, passando per Russia, Francia, Germania, Cina, Regno Unito, Spagna, Israele e Corea del Sud.
La lettura di questi dati potrebbe perlomeno lasciare degli interrogativi sulla decisione assunta dall’Unione europea di avviare percorsi di investimento comune sugli armamenti. La scelta contribuirà ad alimentare la percezione di «assedio» dichiarata da Putin, o servirà a mitigare le sue azioni belliche?
Non si possono nascondere gli interessi economici, politici, strategici e culturali che stanno dietro a questa guerra: l’Ucraina è uno dei granai del mondo, un produttore e luogo di transito di parecchie materie prime. Inoltre, è in una posizione strategica tra Oriente e Occidente: potrebbe essere un ponte tra le due culture, e invece sembra essere considerata la frontiera da non superare o l’avamposto da non perdere dalle parti direttamente e indirettamente coinvolte.
Pace: un carattere identitario
La guerra in Ucraina costringe l’Europa e l’Italia ad aprire gli occhi su una dura realtà. Chiede loro di intraprendere una via stretta nella quale disegnare nuove strategie politiche ed economiche. L’Europa e l’Italia sono chiamate a interrogarsi sulla propria identità, che ha avuto origine dopo gli orrori delle guerre. Proprio per questo le scelte compiute al tempo della loro fondazione hanno voluto marcare un carattere identitario fortemente indirizzato verso la custodia e la costruzione della pace.
Per l’Italia, inserire l’articolo 11 nel dettato costituzionale entrato in vigore nel 1948 è stata una scelta determinante, che ha condizionato e condiziona tuttora la visione culturale del Paese: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
L’articolo mostra la volontà dei padri costituenti di impostare una politica di relazioni internazionali non aggressiva, ma fondata sulla cooperazione e sul rispetto delle diverse realtà nazionali. È il risultato di una lezione imparata duramente, pagata con il sangue e con la sconfitta durante la Seconda guerra mondiale. L’articolo 11 segna una svolta, dopo decenni in cui erano state coltivate ideologie imperialistiche e colonialistiche: l’Italia si impegna a custodire la pace.
La costruzione della pace è anche il fattore generante dell’Unione europea, come illustrò Robert Schuman quando pronunciò la dichiarazione in cui proponeva di creare una Comunità europea del carbone e dell’acciaio: «La fusione delle produzioni di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea, e cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime. […] Questa produzione sarà offerta al mondo intero senza distinzione né esclusione per contribuire al rialzo del livello di vita e al progresso delle opere di pace» (R. Schuman, Dichiarazione del 9 maggio 1950).
Rimarginare le ferite di un conflitto
Le azioni intraprese non hanno tutte lo stesso valore: rifornire di merci il Paese aggredito o rifornirlo di armi, colpire i patrimoni dell’élite (gli oligarchi) del Paese aggressore o organizzare un embargo che colpisce tutta la popolazione hanno effetti ed efficacia differenti. Bisognerebbe chiedersi quali di essi lascino aperta la porta al dialogo. Le critiche rivolte a papa Francesco per la presenza silenziosa delle due amiche ucraina e russa durante la Via crucis del Venerdì santo dimostrano che c’è un forte sentimento di rabbia da dominare, se si vorrà intraprendere la via della pace.
Il sentiero da imboccare per uscire da un conflitto non è unico. Le vie della diplomazia hanno di fronte alternative possibili, che non dovrebbero essere escluse a priori. Johan Galtung, fondatore dell’International Peace Research Institute, con i suoi studi ha elaborato un modello per risolvere i conflitti. Le possibili soluzioni si muovono lungo un asse che va dal polo costituito dal binomio vittoria-sconfitta al polo dialogo-apertura. Le soluzioni che si pongono vicino al primo polo utilizzano la «strategia della lotta», che si basa sulla logica della supremazia di un contendente sull’altro e sfocerà in nuove violenze e continue incomprensioni; nel mezzo si colloca la «strategia del rinvio», che tende a posticipare la soluzione del conflitto, ma rischia di lasciare i contendenti in uno stato di insoddisfazione che non disinnesca la rabbia, mantiene condizioni di disparità e la percezione di ingiustizie non risanate: così le violenze sospese potrebbero occasionalmente riemergere. Vicino al secondo polo si colloca la «strategia del compromesso», che richiede una negoziazione tra le parti. Questa soluzione di mediazione può fermare la violenza finché uno dei contendenti non trovi insoddisfacente il punto di incontro raggiunto. La «strategia del dialogo» caratterizza il secondo polo, che offre l’opportunità di superare completamente il conflitto. Il dialogo si realizza nella ricerca creativa di nuovi orizzonti, capaci di trovare strade alternative, e nel riconoscimento dell’altro come portatore di un punto di vista diverso e degno di rispetto, che racchiude in sé bisogni fondamentali. Secondo Galtung, i tentativi di superamento del conflitto dovrebbero abbandonare il primo polo per intraprendere il percorso che egli chiama «la diagonale della pace», che parte dalla strategia del rinvio e arriva a quella del dialogo (cfr J. Galtung, Affrontare il conflitto. Trascendere e trasformare, Pisa, University Press, 2014).
Il quadrilatero della pace
San Giovanni XXIII, nel clima della crisi cubana durante la «guerra fredda», ha offerto al mondo la Pacem in terris, con la quale ha progettato un «quadrilatero della pace», indicando ai costruttori di pace le quattro pietre angolari da posare. La prima è la verità (nn. 49-50), che richiede il rispetto della dignità di ogni persona e l’eliminazione di ogni razzismo. Le differenze, afferma il Papa buono, non possono alimentare un senso di superiorità: «Così le comunità politiche possono differire tra loro nel grado di cultura e di civiltà o di sviluppo economico; però ciò non può mai giustificare il fatto che le une facciano valere ingiustamente la loro superiorità sulle altre; piuttosto può costituire un motivo perché si sentano più impegnate nell’opera per la comune ascesa» (n. 49).
La seconda è la giustizia, che unisce il riconoscimento dei diritti all’adempimento dei doveri. «Le comunità politiche hanno il diritto all’esistenza, al proprio sviluppo, ai mezzi idonei per attuarlo: ad essere le prime artefici nell’attuazione del medesimo; ed hanno pure il diritto alla buona riputazione e ai debiti onori: di conseguenza e simultaneamente, le stesse comunità politiche hanno pure il dovere di rispettare ognuno di quei diritti; e di evitare quindi le azioni che ne costituiscono una violazione» (n. 51). Il principio della giustizia richiede che i contrasti siano affrontati attraverso la «reciproca comprensione».
La solidarietà operante (nn. 54-63), poi, sostiene gli altri due princìpi con la cooperazione per attuare il bene comune. «Ciò importa non solo che le singole comunità politiche perseguano i propri interessi senza danneggiarsi le une le altre, ma che mettano pure in comune l’opera loro quando ciò sia indispensabile per il raggiungimento di obiettivi altrimenti non raggiungibili: nel qual caso però occorre usare ogni riguardo perché ciò che torna di utilità ad un gruppo di comunità politiche non sia di nocumento ad altre, ma abbia anche su esse riflessi positivi» (n. 54). Nella solidarietà, secondo san Giovanni XXIII, sarebbe possibile mantenere l’equilibrio tra popolazione, terra ed economia, potrebbe essere affrontato il fenomeno dei profughi, sarebbe immaginabile intraprendere la via del disarmo sia dell’apparato bellico sia dei cuori.
La quarta pietra angolare è la libertà (nn. 64-66), che richiama ogni comunità politica alla responsabilità di lasciare autonomia alle altre e di essere il primo artefice della propria crescita: «I rapporti tra le comunità politiche vanno regolati nella libertà. Il che significa che nessuna di esse ha il diritto di esercitare un’azione oppressiva sulle altre o di indebita ingerenza. Tutte invece devono proporsi di contribuire perché in ognuna sia sviluppato il senso di responsabilità, lo spirito di iniziativa e l’impegno ad essere la prima protagonista nel realizzare la propria ascesa in tutti i campi» (n. 64).
Le soluzioni di ogni conflitto richiedono la disponibilità ad aprirsi, a scegliere il percorso della «diagonale della pace», come la chiama Galtung. Ma questo non è sufficiente, se esse rimangono strategie imperniate sulla contrapposizione. Soltanto intraprendendo il sentiero stretto, che si regge sui quattro pilastri indicati da san Giovanni XXIII, saremo in grado di costruire culture e politiche per la pace.
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