A sostenere i suoi piedi nudi e senza vita, nella bara, c’era la Sacra Scrittura. Il vescovo, consapevole che la sua morte si avvicinava, aveva chiesto che il suo corpo fosse disposto per terra, avvolto solo da un lenzuolo. Ma avevano preferito deporlo in una semplice bara.
Invece il luogo dove fu sepolto era quello che voleva, cioè un cimitero abbandonato sulle rive del fiume Araguaia, lo stesso che ospitava le spoglie di lavoratori poveri, di indigeni e di donne vittime della prostituzione a São Félix do Araguaia, nello Stato brasiliano del Mato Grosso.
Era un cimitero per i dimenticati, i senza terra, quelli che non avevano un posto dove essere sepolti. Un luogo dove anche molti neonati, spesso morti per carenza di risorse mediche, venivano seppelliti dentro scatole di scarpe. Questo era il desiderio di Pedro, sancito a mo’ di epitaffio in una delle sue poesie, Cimitero di campagna: Per riposare / voglio soltanto / questa croce di legno / con la pioggia e con il sole, / questi due metri/ e la risurrezione!
Due anni fa, l’8 agosto 2020, il vescovo dei dimenticati, il missionario catalano del Brasile, Pedro Casaldáliga[1], a 92 anni, ha detto addio a una vita totalmente consacrata alla pastorale profetica e alla difesa instancabile degli oppressi. Ha lasciato un’eredità di parole, gesti e impegno radicale per la vita degli ultimi. Lontano da ogni privilegio che la sua posizione ecclesiastica gli offriva, ha abbracciato con la vita e la parola ciò che lo Spirito ha suggerito alla Chiesa latinoamericana attraverso il documento di Medellín[2]: l’opzione preferenziale per i poveri.
La vocazione missionaria di Casaldáliga
All’inizio della seconda metà del XX secolo, soprattutto durante il decennio del Concilio, la realtà latinoamericana, in particolare quella brasiliana, conobbe una vera primavera di presuli profetici. Nomi come Helder Câmara, Paulo Evaristo Arns, José Maria Pires, Aloísio Lorscheider, Luciano Mendes de Almeida, Tomás Balduíno, Angélico Sândalo Bernardino (ancora in vita) e molti altri hanno segnato la storia della Chiesa in Brasile. In un’epoca in cui quel Paese sottostava a una dittatura militare, essi hanno saputo affrontare le ingiustizie, proteggere le vittime della tortura, opporre una parola ferma agli oppressori e dare speranza ai perseguitati. Pertanto, dom Casaldáliga fa parte di un memorabile collegio episcopale che affrontava un momento difficile nella realtà brasiliana.
Il suo nome in catalano suona Pere Casaldáliga i Pla, perché era nato nella città di Balsareny, in Catalogna, il 16 febbraio 1928. Trascorse l’adolescenza e la giovinezza sotto la dittatura franchista. Un suo zio prete era stato assassinato nel corso della guerra civile spagnola. In seguito, commentando questa situazione e le frequenti persecuzioni subite sotto la dittatura militare brasiliana, Pedro dichiarerà in un’intervista: «Lì, in Spagna, ci perseguitavano i comunisti. Qui, in Brasile, invece, ci perseguitano come comunisti»[3]. Religioso claretiano, fu ordinato sacerdote all’età di 24 anni. La sua prima grande esperienza missionaria si svolse in Guinea Equatoriale, un Paese africano che all’epoca era ancora una colonia spagnola. Lì, poco più che trentenne, affiancò i confratelli nella promozione dei cursillos di cristianità e nel sopperire ai bisogni sociali locali con attività fra cui una scuola agraria. Quella missione tra gli africani lo appassionò a tal punto da fargli dichiarare che voleva morire lì. Ma anni dopo, tornato in patria, Pedro si dedicò, con altri missionari, a una missione nella regione del fiume Araguaia, nello Stato brasiliano del Mato Grosso.
Sbarcò a Rio de Janeiro nel gennaio 1968, in piena dittatura militare. A quel tempo, l’eliminazione degli oppositori della dittatura era stata legalizzata attraverso l’ Ato institucional, n. 5, noto come AI-5[4]. Dopo aver seguìto corsi preparatori di lingua, culture, costumi e persino malattie tropicali brasiliane, sette giorni di viaggio in camion, partendo da São Paulo, lo condussero fino a quella che oggi è la cittadina di São Félix do Araguaia, al tempo soltanto un piccolo villaggio di 600 abitanti. Non c’erano elettricità, servizi di trasporto, servizi postali, e nemmeno quelli sanitari. Era una realtà spaventosa, con territori indigeni usurpati, latifondi e persone sottoposte a sfruttamento e a lavoro forzato. Durante la prima settimana di permanenza, davanti alla sua porta vennero depositati quattro bambini morti, composti dentro scatole di scarpe. Così Pedro e i suoi compagni di comunità cominciarono a sperimentare la difficile realtà di quella regione dimenticata e sofferente nella periferia del Brasile.
Una pastorale profetica
Nel 1970, papa Paolo VI creò la prelatura di São Félix do Araguaia, che copriva un territorio di 150.000 kmq. Pedro, che era stato uno dei primi sacerdoti a recarsi nella regione, fu scelto come primo vescovo. Non accolse subito l’incarico. Ma dopo aver ascoltato i consigli di dom Tomás Balduíno, suo grande amico, capì che accettare l’episcopato gli avrebbe consentito di proteggere meglio il popolo a lui affidato.
Nell’invito alla sua ordinazione episcopale era già impressa l’eredità profetica e poetica che da quel momento avrebbe guidato tutta la sua vita episcopale: La tua mitra sarà un cappello di paglia campagnolo; il sole e la luna; la pioggia e il sereno; lo sguardo dei poveri con cui cammini e lo sguardo glorioso di Cristo Signore. / Il tuo bastone sarà la Verità del Vangelo e la fiducia del tuo popolo in te. / Il tuo anello sarà la fedeltà alla Nuova Alleanza di Dio Liberatore e la fedeltà al popolo di questa terra. / Non avrai altro stemma che la forza della Speranza e la Libertà dei figli di Dio, né indosserai altri guanti che il servizio dell’ Amore.
Il 23 ottobre 1971 Casaldáliga fu consacrato vescovo sulle rive del fiume Araguaia. In assenza di una cattedrale, la celebrazione si svolse dove un tempo c’era stata una cappella di argilla, che si era dovuta abbattere perché rischiava di crollare. Un tavolino fungeva da altare. Il suo amico dom Tomás fu il vescovo ordinante principale. Gli altri vescovi presenti, vedendo che Pedro aveva rinunciato ai tradizionali simboli episcopali, durante la celebrazione si tolsero le mitre e le affidarono ad alcuni dei contadini presenti. Al termine della Messa, dom Pedro commentò: «Quelle mitre odoravano di popolo». Fu un indigeno di nome Tapirapé a presentare l’«anello episcopale» di Pedro: era stato ricavato dal legno di una palma Tucum, e sacerdoti, religiosi e laici cominciarono a utilizzarne a loro volta di simili, come simbolo di impegno e fedeltà alla causa dei poveri. Pur non adottando mai uno stemma episcopale, Casaldáliga si scelse un motto: «Umanizzare l’umanità». Un motto davvero emblematico del suo servizio.
Il primo atto episcopale di Pedro fu pubblicare la lettera Una Chiesa in Amazzonia in conflitto con il latifondo e l’emarginazione sociale. In essa presentava la realtà ecclesiale e pastorale della prelatura e denunciava le grandi ingiustizie e lo sfruttamento subiti dal suo popolo. La lettera ebbe una tale diffusione che ben presto uno dei principali quotidiani brasiliani pubblicò un editoriale intitolato «La malafede e la demagogia di quel vescovo», nel quale si accusava dom Pedro di essere «demagogo, fariseo, delirante, in malafede e provocatore». Questo era solo l’esordio di un episcopato radicalmente impegnato nella causa dei sofferenti, che sarebbe costato a Casaldáliga molte persecuzioni e minacce di morte. Con incrollabile coraggio, egli denunciava il male, condannando tutte le segregazioni e ogni tipo di prevaricazione. Dopo aver constatato l’oppressione che subivano i lavoratori da parte dei padroni di due fattorie della regione, andò diritto al punto: «Noi, il popolo e io, malediciamo solennemente queste due fattorie e i loro comportamenti; tredici anni di aggressioni, calunnie, oppressione sistematica. Poi ho pubblicato questa “scomunica collettiva” in una lettera pastorale a Natale»[5].
Dom Pedro aveva abbracciato evangelicamente le linee fondamentali della teologia della liberazione, e questo lo portava ad affermare: «Tutto ciò che organizziamo nell’ambito cristiano deve essere verificato con la preghiera e con la giustizia». Uomo di notevole conoscenza teologica, studiava, pregava e approfondiva misticamente la teologia: «Leggere la cristologia – affermava – mi risulta ormai un’abitudine connaturale alla mia fede, per il resto della mia vita, finché non potrò leggere Lui faccia a faccia, glorioso accanto al Padre». La sua pratica pastorale non era frutto di analisi o di ricerche sociologiche, ma della profonda intimità con Dio: «Secondo me – egli diceva –, non c’è nessuna impresa più personale che vivere personalmente una vita nuova in Gesù Cristo: la mia con Lui, la sua in me, oggi, in questo angolo del Mato Grosso».
Pur avendo una posizione teologica e una visione ecclesiale molto chiare, dom Pedro sapeva valorizzare la diversità delle teologie e delle idee nella Chiesa: «L’unità del credo e la varietà delle teologie salvano la cattolicità storica della Chiesa di Gesù». Replicava sempre con pazienza e rispetto alle critiche, e persino agli insulti, di alcuni membri della Chiesa. Viveva con serenità e obbedienza anche di fronte a tensioni e incomprensioni all’interno della gerarchia ecclesiastica. Con i papi ebbe un rapporto più che amichevole, e ne ricevette sostegno e conferma per la sua missione profetica. Paolo VI, informato della situazione di dom Pedro e della persecuzione che stava subendo, disse all’allora arcivescovo di São Paulo, il cardinale Arns: «Chi tocca Pedro tocca Paolo!»[6]. Nel suo diario, Casaldáliga ricorda con consolazione uno dei suoi incontri con Giovanni Paolo II: «Ha sostenuto l’impegno sociale della Chiesa, ha più volte riconosciuto la situazione di ingiustizia che attraversa il Brasile. Abbiamo parlato di pastorale nella prelatura. Nella sua benedizione, al termine dell’incontro, ha sottolineato: soprattutto per i perseguitati!».
Lo stile di vita personale di Pedro era coerente con la causa dei poveri. Egli possedeva pochi vestiti logori, che si lavava da solo. Nella tasca della camicia teneva un foglio piegato e una penna. Andava sempre a piedi nudi, con ciabatte infradito. Non ebbe un frigorifero in casa fino al 1990, quando si convinse della necessità di offrire una migliore accoglienza ai suoi ospiti. Non voleva nulla per sé che i poveri non potessero avere. Viveva in una casa semplice, che aveva sempre le porte aperte; la sua stanza era protetta solo da una tenda. Molti facevano fatica a rintracciare il «palazzo episcopale» di Pedro, privo di muri e serrature, e andavano a bussare alla porta accanto, perché era più decorosa di quella del vescovo. Inoltre, egli chiedeva sempre di essere chiamato solo «Pedro» e non con il titolo di «dom», come vengono chiamati i vescovi in Brasile. Non aveva un’auto o un altro mezzo di trasporto. Per andare a visitare le comunità, quando non si serviva delle barche, si faceva portare da qualcuno sulla canna di una bicicletta, perché non sapeva portarla, oppure viaggiava a cavallo.
Pedro era un pastore vicino al suo popolo, emanava «l’odore delle sue pecore». Visitava costantemente le famiglie, bussando alle porte delle baracche, chiamando ciascuno per nome, e conosceva i dolori e le gioie del suo popolo: «Sento che, come Gesù, è necessario avere in mano un miracolo. Un aiuto, una parola di conforto, un gesto evangelico. Nessuno dovrebbe andarsene deluso dopo aver avuto contatti con un seguace di Gesù».
Neppure persecuzioni e minacce lo inducevano a preoccuparsi della sua sicurezza personale. Affermava che «il male non è avere paura, ma che la paura abbia noi», e consigliava anche: «Non difenderti. Deponi tutte le tue armi. Accetta con calma di essere frainteso, o non ringraziato, o ignorato. Questo consiglio, così gratificante e così difficile, sa viverlo solo chi è libero nell’umiltà e nella pace».
Casaldáliga subì almeno cinque procedimenti formali di espulsione dal Brasile. Accusato di essere un vescovo sovversivo e comunista, venne sempre difeso dal cardinale arcivescovo di São Paulo, Paulo Evaristo Arns. Il suo nome, insieme a quello di dom Helder Câmara, fu censurato dalla dittatura almeno 11 volte. La stessa prelatura di São Félix subì diverse irruzioni militari, in una delle quali Pedro venne messo agli arresti domiciliari per diversi giorni. E, di fronte a tutto questo, egli affermava in una lettera scritta ad amici vescovi: «Quanto è bello essere perseguitati per la causa del Vangelo, della giustizia e della liberazione totale!». E ancora: «Essere gentili con tutti è più facile, più comodo che essere sinceramente profetici con tutti. Amare è anche scomodare». Molti dei suoi collaboratori pastorali vennero arrestati e torturati. In situazioni come queste, Pedro si inginocchiava davanti al Santissimo Sacramento, per pregare, soprattutto nel silenzio della notte.
Come vescovo di São Felix, Pedro contribuì anche alla costruzione di scuole e centri educativi basati sulla pedagogia di Paulo Freire, il quale sosteneva un’educazione integrale ed emancipatrice. Sotto la dittatura militare, gli insegnanti, sospettati di essere comunisti e sovversivi, venivano spesso sottoposti a sorveglianza da parte di poliziotti che, muniti di mitragliatori, sostavano sulla soglia delle aule, per controllare ciò che essi insegnavano. Non di rado, i soldati minacciavano gli insegnanti e li portavano persino in prigione per torturarli. All’epoca, non erano rari i casi di scomparsa di persone considerate sovversive.
Di fronte a tale persecuzione, Pedro viveva con pazienza e semplicità, servendo il popolo della prelatura, lottando per i suoi diritti e annunciando con fermezza il Vangelo della speranza. Diceva: «È nel silenzio che risiedono la mia speranza e la mia resistenza». Deplorava l’assenza di buoni cristiani in politica: «Quello che manca al mondo sono “i santi politici”». E arrivava ad affermare: «Una buona politica è un sacramento pubblico della bontà di Dio».
Anche quando doveva viaggiare per molti giorni per poter raggiungere i grandi centri urbani, prendeva sempre l’autobus. In quei lunghi tragitti conversava con tutti i passeggeri, si informava, stringeva nuove amicizie, e il viaggio diventava per lui un’attività pastorale. Nel suo diario spirituale ha lasciato queste belle parole sull’importanza evangelica del saluto: «Salutare, in base allo spirito di accoglienza che ci ha portato Gesù, è già evangelizzare. All’inizio è necessario salutare tutti. Se proviene da un vescovo, da un sacerdote, da un operatore pastorale, quel saluto ha una connotazione ancora più evangelizzatrice. Sento che, quando saluto, annuncio il Vangelo, annuncio la pace, faccio riferimento al Dio vivo e accogliente».
Sono notevoli anche le sue parole sull’atto di evangelizzare: «Evangelizzatore non è chi spende la vita “evangelizzando” sempre, con parole, gesti, azioni, ma non si sente evangelizzato “all’improvviso” da parole casuali, da gesti semplici, dalla quotidianità della storia umana. Evangelizziamo solo nella misura in cui ci lasciamo penetrare dal Vangelo, scritto o orale, canonico o anonimo, che lo Spirito di Gesù detta instancabilmente nella rivelazione della vita quotidiana “all’improvviso”».
Consapevole del difficile e delicato compito di evangelizzare le popolazioni indigene, egli affermava: «Dobbiamo evangelizzare le popolazioni indigene. Il “come” deve avvenire con grande attenzione sia allo Spirito sia all’anima di questi popoli. Mai obbligando, perché il Vangelo è un dono che si riceve con la massima libertà. Il Vangelo, per di più, quando è solo Vangelo, entra dappertutto».
Per Pedro il ministero sacerdotale non era semplicemente un pio servizio di «cura delle anime», ma un atto di profonda immersione nella vita delle persone. Era, soprattutto, un incontro diretto e immediato con le situazioni concrete dei fedeli e con le loro reali necessità; egli diceva: «Il sacerdote che incontra i suoi fedeli solo la domenica a Messa o in occasione di un battesimo o di un matrimonio cadrà facilmente nell’errore di pensare che non c’è poi tanta differenza tra quelli che forse sono fedeli ricchi e quelli che forse sono fedeli poveri. In queste occasioni, con gli abiti da festa, siamo tutti quasi uguali. È necessario invece incontrare i propri fedeli a casa loro, alle loro scrivanie, al lavoro, nelle file, agli angoli delle strade o nelle fermate degli autobus».
Per essere aiutato nel governo pastorale della prelatura, dom Pedro formò un’équipe di coadiutori, composta da sacerdoti, religiosi e religiose, laici e laiche. Era, infatti, un servizio episcopale svolto in sinodalità. Le decisioni del vescovo passavano sempre attraverso assemblee, e tutto veniva discusso apertamente. Poiché l’estensione della prelatura era immensa, ogni città aveva consigli pastorali, a cui prendevano parte rappresentanti del popolo. Agli operatori pastorali che componevano l’équipe veniva dato un sussidio minimo per pagare i viaggi, il vitto ecc. Tutti ricevevano lo stesso salario, compreso il vescovo.
Nei suoi appunti, commentando la sua missione di vescovo nell’entroterra del Paese, dom Pedro scriveva: «Il mio presbiterio, disperso: ogni sacerdote in mezzo alle sue comunità, tutti lontani. Io, vescovo nonostante tutto, con loro, con tutto questo popolo di Dio contadino. Cristiano come tutti gli altri, volendolo essere. Vescovo di tutti. Questa è la mia eredità in questa patria con la quale lo Spirito mi ha sigillato».
Dom Pedro custodiva nella memoria le parole che gli aveva scritto un amico spagnolo e che lo avevano commosso profondamente: «Non dimenticare che molti si aggrappano alle tue mani per trovare Gesù, il Cristo!».
Un martire gesuita accanto al vescovo
João Bosco Penido Burnier era un sacerdote gesuita che sognava di essere missionario nel Mato Grosso, soprattutto tra le popolazioni indigene. Indossava sempre gli abiti religiosi e in quell’11 ottobre 1976 decise di accompagnare il vescovo di São Félix nella città di Ribeirão Bonito, per celebrare con il popolo la festa di Nossa Senhora Aparecida, patrona del Brasile.
Durante la festa, Pedro venne informato che due donne venivano torturate da due poliziotti nella caserma locale. Immediatamente, assieme a João Bosco, si recò sul posto. Vedendo la situazione penosa delle donne, cercò di convincere gli agenti a smettere quella tortura, ma essi replicarono a forza di minacce e obiettarono persino che il posto dei sacerdoti era la sacrestia. Padre João Bosco, vista l’impossibilità di fare qualcosa per le vittime, rispose che li avrebbe denunciati. A quel punto un poliziotto, di nome Ezi Ramalho Feitosa, schiaffeggiò il prete in faccia e poi con la pistola d’ordinanza gli sparò alla nuca. Dom Pedro fece in tempo a dare a João l’unzione degli infermi e ad ascoltare le sue ultime parole: «Gesù, Gesù… Offro la mia vita per gli indios e per questi contadini». Poi pensò alla Madonna di Aparecida, e disse: «Dom Pedro, abbiamo portato a termine la nostra missione!».
Subito dopo la tragedia, scoppiò una rivolta per la morte del sacerdote. Il popolo distrusse la stazione di polizia, abbattendo le porte e le sbarre della prigione, affinché nessun altro venisse ingiustamente arrestato, torturato o ucciso. Sul posto fu piantata una croce, che la polizia divelse immediatamente. Ma qualche tempo dopo, nello stesso luogo, fu edificata una chiesa, comunemente conosciuta come «santuario dei martiri», dove ogni anno ha luogo una grande manifestazione di fede, il «pellegrinaggio dei martiri».
Solo 33 anni dopo l’accaduto, nel 2009, il governo federale riconobbe che l’omicidio di padre Burnier era stato commesso dal regime militare. Il poliziotto che aveva sparato al sacerdote gesuita non era mai stato indagato, perché la dittatura aveva liquidato l’episodio come un incidente.
Padre João non fu l’unico martire che Pedro pianse. Egli dovette piangere per l’omicidio di molti suoi amici indigeni, come ad esempio per la morte violenta dell’indio Marçal Tupã’í, del Mato Grosso do Sul. Su questa tragedia egli scrisse: «Martire dell’instancabile ricerca della Terra senza mali[7]. Riposa in pace, ormai dentro di essa. E non lasciarci soli finché non la raggiungeremo». Dom Pedro ha sempre affermato che «essere martire, conoscere i martiri, vivere con loro, è una cosa normale in Brasile, in America Latina».
La poesia del pastore profeta
Pedro Casaldáliga aveva una profonda vocazione poetica. Le sue poesie erano come salmi, che l’autore componeva per gridare la sua angoscia umana, per lodare il Creatore e per dirgli ciò che non capiva e ciò che sperava. In questo senso, i suoi versi contengono una densità spirituale che contempla la realtà del dolore umano, ma al tempo stesso fa ancorare il cuore alla speranza del Regno promesso da Cristo. Ricordiamo qui solo alcune delle sue numerose poesie. Egli non sempre le intitolava. Molte erano composte senza titolo, senza pretese, nel suo diario spirituale.
Ti chiedo solo il miracolo / di continuare a credere in te, / quando alcuni / che hai chiamato / ti abbandonano, / quando molti che ti amano / non osano / mettersi a rischio per il Regno, / quando io stesso, che ti ho giurato / così tante volte / fedeltà totale, / mi riduco a un’osservanza superficiale. / Il miracolo di continuare a credere in te, / mentre sprofondo nel lago! / Dio è ben oltre la nostra fede, / ben oltre la nostra teologia, / ben oltre le nostre Chiese. / Dio è ben oltre tutti i poteri, / ben oltre tutti i fallimenti, / ben oltre tutte le possibilità. / Dio è ben oltre ogni speranza. / Dio è ben oltre, / ma Dio è qui.
Nella poesia Kenosi Pedro ha scritto: Non optare per i poveri, / renditi povero! / Abbassati / con quella kenosi / che il Verbo ha osato, / nudo, / di abisso in abisso, / fino alla fertile fossa della morte. / Finalmente, raggiungere il tuo volto desiderato / e gettarmi nelle tue braccia / con tutti quelli che sono arrivati. / Lasciare tutta la vita sul tuo cuore, / come un bambino che dorme, / sveglia per sempre. / E riempirmi la bocca con il tuo nome: Padre nostro! / Quando moriremo, / riceveremo, / come ultimo sacramento, / l’oblio del male.
Uno degli scritti più noti di Casaldáliga è la poesia Paz armada, che può essere considerata un lucido testamento sulla lotta per la coerenza di coloro che si sono consacrati a Dio con il voto di castità: Sarà una pace armata, compagni, / questa lotta durerà tutta la vita, / perché il cratere della carne si chiude / quando la morte spegne i suoi bracieri. / Senza un focolare e con un sogno silenzioso, / nessun bambino sulle ginocchia da baciare, / sentirai il gelo che ti circonda / e molte volte sarai baciato dalla solitudine. / Non devi avere un cuore celibe, / devi amare tutto, tutti, tutte / come discepoli di Colui che ha amato per primo. / Perduta per il Regno e conquistata, / sarà una pace non meno libera che armata, / sarà un Amore amato pienamente.
Così, la vita, la missione e la poesia di Casaldáliga sono per noi un vero invito a mantenere viva la speranza, soprattutto in tempi bui, sia personali sia sociali. Sono un’esortazione a tenere davanti agli occhi il Vangelo e la sua forza dinamica nella Chiesa e nel mondo. Il vescovo di São Felix do Araguaia certamente ha cercato di vivere a suo modo quella semplicità evangelica e profetica che papa Francesco esorta i vescovi e i sacerdoti ad abbracciare senza paura e con gioia. La sua vita è soprattutto un invito a prepararci a quel bellissimo e definitivo incontro, perché, come egli stesso ha scritto: Alla fine del cammino mi chiederanno: / «Ma hai vissuto? / Hai amato?». / E io, senza dir niente, / aprirò il mio cuore pieno di nomi. A sostenere i suoi piedi nudi e senza vita, nella bara, c’era la Sacra Scrittura. Il vescovo, consapevole che la sua morte si avvicinava, aveva chiesto che il suo corpo fosse disposto per terra, avvolto solo da un lenzuolo. Ma avevano preferito deporlo in una semplice bara. Invece il luogo dove fu sepolto era quello che voleva, cioè un cimitero abbandonato sulle rive del fiume Araguaia, lo stesso che ospitava le spoglie di lavoratori poveri, di indigeni e di donne vittime della prostituzione a São Félix do Araguaia, nello Stato brasiliano del Mato Grosso. Era un cimitero per i dimenticati, i senza terra, quelli che non avevano un posto dove essere sepolti. Un luogo dove anche molti neonati, spesso morti per carenza di risorse mediche, venivano seppelliti dentro scatole di scarpe. Questo era il desiderio di Pedro, sancito a mo’ di epitaffio in una delle sue poesie, Cimitero di campagna: Per riposare / voglio soltanto / questa croce di legno / con la pioggia e con il sole, / questi due metri/ e la risurrezione!
Due anni fa, l’8 agosto 2020, il vescovo dei dimenticati, il missionario catalano del Brasile, Pedro Casaldáliga[8], a 92 anni, ha detto addio a una vita totalmente consacrata alla pastorale profetica e alla difesa instancabile degli oppressi. Ha lasciato un’eredità di parole, gesti e impegno radicale per la vita degli ultimi. Lontano da ogni privilegio che la sua posizione ecclesiastica gli offriva, ha abbracciato con la vita e la parola ciò che lo Spirito ha suggerito alla Chiesa latinoamericana attraverso il documento di Medellín[9]: l’opzione preferenziale per i poveri.
La vocazione missionaria di Casaldáliga
All’inizio della seconda metà del XX secolo, soprattutto durante il decennio del Concilio, la realtà latinoamericana, in particolare quella brasiliana, conobbe una vera primavera di presuli profetici. Nomi come Helder Câmara, Paulo Evaristo Arns, José Maria Pires, Aloísio Lorscheider, Luciano Mendes de Almeida, Tomás Balduíno, Angélico Sândalo Bernardino (ancora in vita) e molti altri hanno segnato la storia della Chiesa in Brasile. In un’epoca in cui quel Paese sottostava a una dittatura militare, essi hanno saputo affrontare le ingiustizie, proteggere le vittime della tortura, opporre una parola ferma agli oppressori e dare speranza ai perseguitati. Pertanto, dom Casaldáliga fa parte di un memorabile collegio episcopale che affrontava un momento difficile nella realtà brasiliana.
Il suo nome in catalano suona Pere Casaldáliga i Pla, perché era nato nella città di Balsareny, in Catalogna, il 16 febbraio 1928. Trascorse l’adolescenza e la giovinezza sotto la dittatura franchista. Un suo zio prete era stato assassinato nel corso della guerra civile spagnola. In seguito, commentando questa situazione e le frequenti persecuzioni subite sotto la dittatura militare brasiliana, Pedro dichiarerà in un’intervista: «Lì, in Spagna, ci perseguitavano i comunisti. Qui, in Brasile, invece, ci perseguitano come comunisti»[10]. Religioso claretiano, fu ordinato sacerdote all’età di 24 anni. La sua prima grande esperienza missionaria si svolse in Guinea Equatoriale, un Paese africano che all’epoca era ancora una colonia spagnola. Lì, poco più che trentenne, affiancò i confratelli nella promozione dei cursillos di cristianità e nel sopperire ai bisogni sociali locali con attività fra cui una scuola agraria. Quella missione tra gli africani lo appassionò a tal punto da fargli dichiarare che voleva morire lì. Ma anni dopo, tornato in patria, Pedro si dedicò, con altri missionari, a una missione nella regione del fiume Araguaia, nello Stato brasiliano del Mato Grosso.
Sbarcò a Rio de Janeiro nel gennaio 1968, in piena dittatura militare. A quel tempo, l’eliminazione degli oppositori della dittatura era stata legalizzata attraverso l’ Ato institucional, n. 5, noto come AI-5[11]. Dopo aver seguìto corsi preparatori di lingua, culture, costumi e persino malattie tropicali brasiliane, sette giorni di viaggio in camion, partendo da São Paulo, lo condussero fino a quella che oggi è la cittadina di São Félix do Araguaia, al tempo soltanto un piccolo villaggio di 600 abitanti. Non c’erano elettricità, servizi di trasporto, servizi postali, e nemmeno quelli sanitari. Era una realtà spaventosa, con territori indigeni usurpati, latifondi e persone sottoposte a sfruttamento e a lavoro forzato. Durante la prima settimana di permanenza, davanti alla sua porta vennero depositati quattro bambini morti, composti dentro scatole di scarpe. Così Pedro e i suoi compagni di comunità cominciarono a sperimentare la difficile realtà di quella regione dimenticata e sofferente nella periferia del Brasile.
Una pastorale profetica
Nel 1970, papa Paolo VI creò la prelatura di São Félix do Araguaia, che copriva un territorio di 150.000 kmq. Pedro, che era stato uno dei primi sacerdoti a recarsi nella regione, fu scelto come primo vescovo. Non accolse subito l’incarico. Ma dopo aver ascoltato i consigli di dom Tomás Balduíno, suo grande amico, capì che accettare l’episcopato gli avrebbe consentito di proteggere meglio il popolo a lui affidato.
Nell’invito alla sua ordinazione episcopale era già impressa l’eredità profetica e poetica che da quel momento avrebbe guidato tutta la sua vita episcopale: La tua mitra sarà un cappello di paglia campagnolo; il sole e la luna; la pioggia e il sereno; lo sguardo dei poveri con cui cammini e lo sguardo glorioso di Cristo Signore. / Il tuo bastone sarà la Verità del Vangelo e la fiducia del tuo popolo in te. / Il tuo anello sarà la fedeltà alla Nuova Alleanza di Dio Liberatore e la fedeltà al popolo di questa terra. / Non avrai altro stemma che la forza della Speranza e la Libertà dei figli di Dio, né indosserai altri guanti che il servizio dell’ Amore.
Il 23 ottobre 1971 Casaldáliga fu consacrato vescovo sulle rive del fiume Araguaia. In assenza di una cattedrale, la celebrazione si svolse dove un tempo c’era stata una cappella di argilla, che si era dovuta abbattere perché rischiava di crollare. Un tavolino fungeva da altare. Il suo amico dom Tomás fu il vescovo ordinante principale. Gli altri vescovi presenti, vedendo che Pedro aveva rinunciato ai tradizionali simboli episcopali, durante la celebrazione si tolsero le mitre e le affidarono ad alcuni dei contadini presenti. Al termine della Messa, dom Pedro commentò: «Quelle mitre odoravano di popolo». Fu un indigeno di nome Tapirapé a presentare l’«anello episcopale» di Pedro: era stato ricavato dal legno di una palma Tucum, e sacerdoti, religiosi e laici cominciarono a utilizzarne a loro volta di simili, come simbolo di impegno e fedeltà alla causa dei poveri. Pur non adottando mai uno stemma episcopale, Casaldáliga si scelse un motto: «Umanizzare l’umanità». Un motto davvero emblematico del suo servizio.
Il primo atto episcopale di Pedro fu pubblicare la lettera Una Chiesa in Amazzonia in conflitto con il latifondo e l’emarginazione sociale. In essa presentava la realtà ecclesiale e pastorale della prelatura e denunciava le grandi ingiustizie e lo sfruttamento subiti dal suo popolo. La lettera ebbe una tale diffusione che ben presto uno dei principali quotidiani brasiliani pubblicò un editoriale intitolato «La malafede e la demagogia di quel vescovo», nel quale si accusava dom Pedro di essere «demagogo, fariseo, delirante, in malafede e provocatore». Questo era solo l’esordio di un episcopato radicalmente impegnato nella causa dei sofferenti, che sarebbe costato a Casaldáliga molte persecuzioni e minacce di morte. Con incrollabile coraggio, egli denunciava il male, condannando tutte le segregazioni e ogni tipo di prevaricazione. Dopo aver constatato l’oppressione che subivano i lavoratori da parte dei padroni di due fattorie della regione, andò diritto al punto: «Noi, il popolo e io, malediciamo solennemente queste due fattorie e i loro comportamenti; tredici anni di aggressioni, calunnie, oppressione sistematica. Poi ho pubblicato questa “scomunica collettiva” in una lettera pastorale a Natale»[12].
Dom Pedro aveva abbracciato evangelicamente le linee fondamentali della teologia della liberazione, e questo lo portava ad affermare: «Tutto ciò che organizziamo nell’ambito cristiano deve essere verificato con la preghiera e con la giustizia». Uomo di notevole conoscenza teologica, studiava, pregava e approfondiva misticamente la teologia: «Leggere la cristologia – affermava – mi risulta ormai un’abitudine connaturale alla mia fede, per il resto della mia vita, finché non potrò leggere Lui faccia a faccia, glorioso accanto al Padre». La sua pratica pastorale non era frutto di analisi o di ricerche sociologiche, ma della profonda intimità con Dio: «Secondo me – egli diceva –, non c’è nessuna impresa più personale che vivere personalmente una vita nuova in Gesù Cristo: la mia con Lui, la sua in me, oggi, in questo angolo del Mato Grosso».
Pur avendo una posizione teologica e una visione ecclesiale molto chiare, dom Pedro sapeva valorizzare la diversità delle teologie e delle idee nella Chiesa: «L’unità del credo e la varietà delle teologie salvano la cattolicità storica della Chiesa di Gesù». Replicava sempre con pazienza e rispetto alle critiche, e persino agli insulti, di alcuni membri della Chiesa. Viveva con serenità e obbedienza anche di fronte a tensioni e incomprensioni all’interno della gerarchia ecclesiastica. Con i papi ebbe un rapporto più che amichevole, e ne ricevette sostegno e conferma per la sua missione profetica. Paolo VI, informato della situazione di dom Pedro e della persecuzione che stava subendo, disse all’allora arcivescovo di São Paulo, il cardinale Arns: «Chi tocca Pedro tocca Paolo!»[13]. Nel suo diario, Casaldáliga ricorda con consolazione uno dei suoi incontri con Giovanni Paolo II: «Ha sostenuto l’impegno sociale della Chiesa, ha più volte riconosciuto la situazione di ingiustizia che attraversa il Brasile. Abbiamo parlato di pastorale nella prelatura. Nella sua benedizione, al termine dell’incontro, ha sottolineato: soprattutto per i perseguitati!».
Lo stile di vita personale di Pedro era coerente con la causa dei poveri. Egli possedeva pochi vestiti logori, che si lavava da solo. Nella tasca della camicia teneva un foglio piegato e una penna. Andava sempre a piedi nudi, con ciabatte infradito. Non ebbe un frigorifero in casa fino al 1990, quando si convinse della necessità di offrire una migliore accoglienza ai suoi ospiti. Non voleva nulla per sé che i poveri non potessero avere. Viveva in una casa semplice, che aveva sempre le porte aperte; la sua stanza era protetta solo da una tenda. Molti facevano fatica a rintracciare il «palazzo episcopale» di Pedro, privo di muri e serrature, e andavano a bussare alla porta accanto, perché era più decorosa di quella del vescovo. Inoltre, egli chiedeva sempre di essere chiamato solo «Pedro» e non con il titolo di «dom», come vengono chiamati i vescovi in Brasile. Non aveva un’auto o un altro mezzo di trasporto. Per andare a visitare le comunità, quando non si serviva delle barche, si faceva portare da qualcuno sulla canna di una bicicletta, perché non sapeva portarla, oppure viaggiava a cavallo.
Pedro era un pastore vicino al suo popolo, emanava «l’odore delle sue pecore». Visitava costantemente le famiglie, bussando alle porte delle baracche, chiamando ciascuno per nome, e conosceva i dolori e le gioie del suo popolo: «Sento che, come Gesù, è necessario avere in mano un miracolo. Un aiuto, una parola di conforto, un gesto evangelico. Nessuno dovrebbe andarsene deluso dopo aver avuto contatti con un seguace di Gesù».
Neppure persecuzioni e minacce lo inducevano a preoccuparsi della sua sicurezza personale. Affermava che «il male non è avere paura, ma che la paura abbia noi», e consigliava anche: «Non difenderti. Deponi tutte le tue armi. Accetta con calma di essere frainteso, o non ringraziato, o ignorato. Questo consiglio, così gratificante e così difficile, sa viverlo solo chi è libero nell’umiltà e nella pace».
Casaldáliga subì almeno cinque procedimenti formali di espulsione dal Brasile. Accusato di essere un vescovo sovversivo e comunista, venne sempre difeso dal cardinale arcivescovo di São Paulo, Paulo Evaristo Arns. Il suo nome, insieme a quello di dom Helder Câmara, fu censurato dalla dittatura almeno 11 volte. La stessa prelatura di São Félix subì diverse irruzioni militari, in una delle quali Pedro venne messo agli arresti domiciliari per diversi giorni. E, di fronte a tutto questo, egli affermava in una lettera scritta ad amici vescovi: «Quanto è bello essere perseguitati per la causa del Vangelo, della giustizia e della liberazione totale!». E ancora: «Essere gentili con tutti è più facile, più comodo che essere sinceramente profetici con tutti. Amare è anche scomodare». Molti dei suoi collaboratori pastorali vennero arrestati e torturati. In situazioni come queste, Pedro si inginocchiava davanti al Santissimo Sacramento, per pregare, soprattutto nel silenzio della notte.
Come vescovo di São Felix, Pedro contribuì anche alla costruzione di scuole e centri educativi basati sulla pedagogia di Paulo Freire, il quale sosteneva un’educazione integrale ed emancipatrice. Sotto la dittatura militare, gli insegnanti, sospettati di essere comunisti e sovversivi, venivano spesso sottoposti a sorveglianza da parte di poliziotti che, muniti di mitragliatori, sostavano sulla soglia delle aule, per controllare ciò che essi insegnavano. Non di rado, i soldati minacciavano gli insegnanti e li portavano persino in prigione per torturarli. All’epoca, non erano rari i casi di scomparsa di persone considerate sovversive.
Di fronte a tale persecuzione, Pedro viveva con pazienza e semplicità, servendo il popolo della prelatura, lottando per i suoi diritti e annunciando con fermezza il Vangelo della speranza. Diceva: «È nel silenzio che risiedono la mia speranza e la mia resistenza». Deplorava l’assenza di buoni cristiani in politica: «Quello che manca al mondo sono “i santi politici”». E arrivava ad affermare: «Una buona politica è un sacramento pubblico della bontà di Dio».
Anche quando doveva viaggiare per molti giorni per poter raggiungere i grandi centri urbani, prendeva sempre l’autobus. In quei lunghi tragitti conversava con tutti i passeggeri, si informava, stringeva nuove amicizie, e il viaggio diventava per lui un’attività pastorale. Nel suo diario spirituale ha lasciato queste belle parole sull’importanza evangelica del saluto: «Salutare, in base allo spirito di accoglienza che ci ha portato Gesù, è già evangelizzare. All’inizio è necessario salutare tutti. Se proviene da un vescovo, da un sacerdote, da un operatore pastorale, quel saluto ha una connotazione ancora più evangelizzatrice. Sento che, quando saluto, annuncio il Vangelo, annuncio la pace, faccio riferimento al Dio vivo e accogliente».
Sono notevoli anche le sue parole sull’atto di evangelizzare: «Evangelizzatore non è chi spende la vita “evangelizzando” sempre, con parole, gesti, azioni, ma non si sente evangelizzato “all’improvviso” da parole casuali, da gesti semplici, dalla quotidianità della storia umana. Evangelizziamo solo nella misura in cui ci lasciamo penetrare dal Vangelo, scritto o orale, canonico o anonimo, che lo Spirito di Gesù detta instancabilmente nella rivelazione della vita quotidiana “all’improvviso”».
Consapevole del difficile e delicato compito di evangelizzare le popolazioni indigene, egli affermava: «Dobbiamo evangelizzare le popolazioni indigene. Il “come” deve avvenire con grande attenzione sia allo Spirito sia all’anima di questi popoli. Mai obbligando, perché il Vangelo è un dono che si riceve con la massima libertà. Il Vangelo, per di più, quando è solo Vangelo, entra dappertutto».
Per Pedro il ministero sacerdotale non era semplicemente un pio servizio di «cura delle anime», ma un atto di profonda immersione nella vita delle persone. Era, soprattutto, un incontro diretto e immediato con le situazioni concrete dei fedeli e con le loro reali necessità; egli diceva: «Il sacerdote che incontra i suoi fedeli solo la domenica a Messa o in occasione di un battesimo o di un matrimonio cadrà facilmente nell’errore di pensare che non c’è poi tanta differenza tra quelli che forse sono fedeli ricchi e quelli che forse sono fedeli poveri. In queste occasioni, con gli abiti da festa, siamo tutti quasi uguali. È necessario invece incontrare i propri fedeli a casa loro, alle loro scrivanie, al lavoro, nelle file, agli angoli delle strade o nelle fermate degli autobus».
Per essere aiutato nel governo pastorale della prelatura, dom Pedro formò un’équipe di coadiutori, composta da sacerdoti, religiosi e religiose, laici e laiche. Era, infatti, un servizio episcopale svolto in sinodalità. Le decisioni del vescovo passavano sempre attraverso assemblee, e tutto veniva discusso apertamente. Poiché l’estensione della prelatura era immensa, ogni città aveva consigli pastorali, a cui prendevano parte rappresentanti del popolo. Agli operatori pastorali che componevano l’équipe veniva dato un sussidio minimo per pagare i viaggi, il vitto ecc. Tutti ricevevano lo stesso salario, compreso il vescovo.
Nei suoi appunti, commentando la sua missione di vescovo nell’entroterra del Paese, dom Pedro scriveva: «Il mio presbiterio, disperso: ogni sacerdote in mezzo alle sue comunità, tutti lontani. Io, vescovo nonostante tutto, con loro, con tutto questo popolo di Dio contadino. Cristiano come tutti gli altri, volendolo essere. Vescovo di tutti. Questa è la mia eredità in questa patria con la quale lo Spirito mi ha sigillato».
Dom Pedro custodiva nella memoria le parole che gli aveva scritto un amico spagnolo e che lo avevano commosso profondamente: «Non dimenticare che molti si aggrappano alle tue mani per trovare Gesù, il Cristo!».
Un martire gesuita accanto al vescovo
João Bosco Penido Burnier era un sacerdote gesuita che sognava di essere missionario nel Mato Grosso, soprattutto tra le popolazioni indigene. Indossava sempre gli abiti religiosi e in quell’11 ottobre 1976 decise di accompagnare il vescovo di São Félix nella città di Ribeirão Bonito, per celebrare con il popolo la festa di Nossa Senhora Aparecida, patrona del Brasile.
Durante la festa, Pedro venne informato che due donne venivano torturate da due poliziotti nella caserma locale. Immediatamente, assieme a João Bosco, si recò sul posto. Vedendo la situazione penosa delle donne, cercò di convincere gli agenti a smettere quella tortura, ma essi replicarono a forza di minacce e obiettarono persino che il posto dei sacerdoti era la sacrestia. Padre João Bosco, vista l’impossibilità di fare qualcosa per le vittime, rispose che li avrebbe denunciati. A quel punto un poliziotto, di nome Ezi Ramalho Feitosa, schiaffeggiò il prete in faccia e poi con la pistola d’ordinanza gli sparò alla nuca. Dom Pedro fece in tempo a dare a João l’unzione degli infermi e ad ascoltare le sue ultime parole: «Gesù, Gesù… Offro la mia vita per gli indios e per questi contadini». Poi pensò alla Madonna di Aparecida, e disse: «Dom Pedro, abbiamo portato a termine la nostra missione!».
Subito dopo la tragedia, scoppiò una rivolta per la morte del sacerdote. Il popolo distrusse la stazione di polizia, abbattendo le porte e le sbarre della prigione, affinché nessun altro venisse ingiustamente arrestato, torturato o ucciso. Sul posto fu piantata una croce, che la polizia divelse immediatamente. Ma qualche tempo dopo, nello stesso luogo, fu edificata una chiesa, comunemente conosciuta come «santuario dei martiri», dove ogni anno ha luogo una grande manifestazione di fede, il «pellegrinaggio dei martiri».
Solo 33 anni dopo l’accaduto, nel 2009, il governo federale riconobbe che l’omicidio di padre Burnier era stato commesso dal regime militare. Il poliziotto che aveva sparato al sacerdote gesuita non era mai stato indagato, perché la dittatura aveva liquidato l’episodio come un incidente.
Padre João non fu l’unico martire che Pedro pianse. Egli dovette piangere per l’omicidio di molti suoi amici indigeni, come ad esempio per la morte violenta dell’indio Marçal Tupã’í, del Mato Grosso do Sul. Su questa tragedia egli scrisse: «Martire dell’instancabile ricerca della Terra senza mali[14]. Riposa in pace, ormai dentro di essa. E non lasciarci soli finché non la raggiungeremo». Dom Pedro ha sempre affermato che «essere martire, conoscere i martiri, vivere con loro, è una cosa normale in Brasile, in America Latina».
La poesia del pastore profeta
Pedro Casaldáliga aveva una profonda vocazione poetica. Le sue poesie erano come salmi, che l’autore componeva per gridare la sua angoscia umana, per lodare il Creatore e per dirgli ciò che non capiva e ciò che sperava. In questo senso, i suoi versi contengono una densità spirituale che contempla la realtà del dolore umano, ma al tempo stesso fa ancorare il cuore alla speranza del Regno promesso da Cristo. Ricordiamo qui solo alcune delle sue numerose poesie. Egli non sempre le intitolava. Molte erano composte senza titolo, senza pretese, nel suo diario spirituale.
Ti chiedo solo il miracolo / di continuare a credere in te, / quando alcuni / che hai chiamato / ti abbandonano, / quando molti che ti amano / non osano / mettersi a rischio per il Regno, / quando io stesso, che ti ho giurato / così tante volte / fedeltà totale, / mi riduco a un’osservanza superficiale. / Il miracolo di continuare a credere in te, / mentre sprofondo nel lago! / Dio è ben oltre la nostra fede, / ben oltre la nostra teologia, / ben oltre le nostre Chiese. / Dio è ben oltre tutti i poteri, / ben oltre tutti i fallimenti, / ben oltre tutte le possibilità. / Dio è ben oltre ogni speranza. / Dio è ben oltre, / ma Dio è qui.
Nella poesia Kenosi Pedro ha scritto: Non optare per i poveri, / renditi povero! / Abbassati / con quella kenosi / che il Verbo ha osato, / nudo, / di abisso in abisso, / fino alla fertile fossa della morte. / Finalmente, raggiungere il tuo volto desiderato / e gettarmi nelle tue braccia / con tutti quelli che sono arrivati. / Lasciare tutta la vita sul tuo cuore, / come un bambino che dorme, / sveglia per sempre. / E riempirmi la bocca con il tuo nome: Padre nostro! / Quando moriremo, / riceveremo, / come ultimo sacramento, / l’oblio del male.
Uno degli scritti più noti di Casaldáliga è la poesia Paz armada, che può essere considerata un lucido testamento sulla lotta per la coerenza di coloro che si sono consacrati a Dio con il voto di castità: Sarà una pace armata, compagni, / questa lotta durerà tutta la vita, / perché il cratere della carne si chiude / quando la morte spegne i suoi bracieri. / Senza un focolare e con un sogno silenzioso, / nessun bambino sulle ginocchia da baciare, / sentirai il gelo che ti circonda / e molte volte sarai baciato dalla solitudine. / Non devi avere un cuore celibe, / devi amare tutto, tutti, tutte / come discepoli di Colui che ha amato per primo. / Perduta per il Regno e conquistata, / sarà una pace non meno libera che armata, / sarà un Amore amato pienamente.
Così, la vita, la missione e la poesia di Casaldáliga sono per noi un vero invito a mantenere viva la speranza, soprattutto in tempi bui, sia personali sia sociali. Sono un’esortazione a tenere davanti agli occhi il Vangelo e la sua forza dinamica nella Chiesa e nel mondo. Il vescovo di São Felix do Araguaia certamente ha cercato di vivere a suo modo quella semplicità evangelica e profetica che papa Francesco esorta i vescovi e i sacerdoti ad abbracciare senza paura e con gioia. La sua vita è soprattutto un invito a prepararci a quel bellissimo e definitivo incontro, perché, come egli stesso ha scritto: Alla fine del cammino mi chiederanno: / «Ma hai vissuto? / Hai amato?». / E io, senza dir niente, / aprirò il mio cuore pieno di nomi.
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[1]. Sulla vita di dom Pedro Casaldáliga sono stati pubblicati diversi libri e realizzate produzioni audiovisive. In particolare, nel 2014, la vita e la missione del vescovo di São Felix do Araguaia hanno ispirato il film Descalço sobre a terra vermelha («A piedi nudi sulla terra rossa»), diretto dal regista catalano Oriol Ferrer e tratto dall’omonimo libro scritto da Francesc Escribano (Campinas, Editora de Unicamp, 2014).
[2]. È il documento elaborato dalla II Conferenza episcopale latinoamericana, convocata da Paolo VI nel 1968 nella città di Medellín, in Colombia, con lo scopo di applicare gli insegnamenti del Concilio Vaticano II.
[3]. «Intervista di Camilo Vannuchi a Pedro Casaldáliga», 25 dicembre 1998.
[4]. L’AI-5 era un decreto della dittatura militare che, dando poteri assoluti al generale insediato alla presidenza del Brasile, sospendeva molte garanzie costituzionali e gli conferiva la potestà di revocare i diritti politici dei cittadini a sua discrezione.
[5]. Le riflessioni personali di Casaldáliga e le poesie qui citate sono tratte dal suo diario spirituale, pubblicato in spagnolo con il titolo Cuando los días dan que pensar: memoria, ideario, compromiso, Madrid, PPC, 2005.
[6]. Cfr A. E. Tavares, Um bispo contra todas as cercas: a vida e as causas de Pedro Casaldáliga, Petrópolis-RJ, Vozes, 2020, cap. IV, ebook.
[7]. Nella mitologia indigena guaraní viene chiamato Terra sem males un luogo senza carestie, guerre e malattie. Casaldáliga, ispirato da questa credenza, compose una Missa da Terra sem males, che commemora la Pasqua di Gesù insieme alla sofferenza degli indigeni e propone il pentimento e l’impegno per trasformare la situazione dei sofferenti.
[8]. Sulla vita di dom Pedro Casaldáliga sono stati pubblicati diversi libri e realizzate produzioni audiovisive. In particolare, nel 2014, la vita e la missione del vescovo di São Felix do Araguaia hanno ispirato il film Descalço sobre a terra vermelha («A piedi nudi sulla terra rossa»), diretto dal regista catalano Oriol Ferrer e tratto dall’omonimo libro scritto da Francesc Escribano (Campinas, Editora de Unicamp, 2014).
[9]. È il documento elaborato dalla II Conferenza episcopale latinoamericana, convocata da Paolo VI nel 1968 nella città di Medellín, in Colombia, con lo scopo di applicare gli insegnamenti del Concilio Vaticano II.
[10]. «Intervista di Camilo Vannuchi a Pedro Casaldáliga», 25 dicembre 1998.
[11]. L’AI-5 era un decreto della dittatura militare che, dando poteri assoluti al generale insediato alla presidenza del Brasile, sospendeva molte garanzie costituzionali e gli conferiva la potestà di revocare i diritti politici dei cittadini a sua discrezione.
[12]. Le riflessioni personali di Casaldáliga e le poesie qui citate sono tratte dal suo diario spirituale, pubblicato in spagnolo con il titolo Cuando los días dan que pensar: memoria, ideario, compromiso, Madrid, PPC, 2005.
[13]. Cfr A. E. Tavares, Um bispo contra todas as cercas: a vida e as causas de Pedro Casaldáliga, Petrópolis-RJ, Vozes, 2020, cap. IV, ebook.
[14]. Nella mitologia indigena guaraní viene chiamato Terra sem males un luogo senza carestie, guerre e malattie. Casaldáliga, ispirato da questa credenza, compose una Missa da Terra sem males, che commemora la Pasqua di Gesù insieme alla sofferenza degli indigeni e propone il pentimento e l’impegno per trasformare la situazione dei sofferenti.