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Marco Bellocchio, a oltre 50 anni dal suo primo, sconvolgente film I pugni in tasca (1965), superata la soglia dell’ottantina, non smette di sperimentare e di rinnovarsi. Senza timore di confrontarsi con il mondo della serialità televisiva, realizza un’opera audace, pensata per un pubblico sia cinematografico sia televisivo. Esterno notte, presentata quest’anno al Festival di Cannes, è uscita nelle sale, in due parti, il 18 maggio e il 19 giugno e verrà trasmessa quest’autunno dalla Rai in sei puntate. Bellocchio torna sul caso Moro a 19 anni da Buongiorno, notte (2003), dove la vicenda del rapimento del presidente della Democrazia cristiana è raccontata dal punto di vista di una delle brigatiste coinvolte, le cui certezze ideologiche sono scosse da dubbi e interrogativi morali.
Anche in quest’opera la ricostruzione documentata dei fatti non è centrale nel film. La grande storia – il rapimento di Aldo Moro eseguito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978 e la sua uccisione il 9 maggio successivo – è il contesto-pretesto per esplorare le possibili ripercussioni del dramma storico sull’animo umano dei personaggi coinvolti in prima persona. I sei episodi descrivono gli avvenimenti principali del caso Moro, ognuno secondo una diversa prospettiva.
Se il primo segue il presidente della Dc (Fabrizio Gifuni) in diversi momenti fino al sequestro, e il sesto lo osserva nelle ultime fasi del tragico epilogo, i quattro episodi intermedi riportano i punti di vista rispettivamente del presidente della Dc, Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi), di papa Paolo VI (Toni Servillo), della brigatista Adriana (Daniela Marra) e della moglie di Moro, Eleonora (Margherita Buy).
I protagonisti «pubblici» della vicenda vengono osservati nella vita privata, scrutati nelle proprie relazioni intime, esaminati nei personali interrogativi, dubbi, paure e speranze. Il ruolo pubblicamente assunto da ognuno di essi entra in conflitto con la dimensione più intima della propria vita. Sentimenti personali, rapporti privati e il vissuto dei protagonisti devono fare i conti con il proprio ruolo e la propria professione: tutti sono coinvolti nella ricerca del bene comune o nel perseguimento di un’istanza ideologica. Fino a che punto è possibile la perfetta integrazione tra ruolo pubblico e vita privata nella coscienza di ogni uomo? Può il perseguimento di un bene comune entrare in conflitto con il bene privato? Ed entro quali limiti? Questi sono alcuni degli interrogativi in cui si muovono le vite dei personaggi: domande alla base del dubbio etico-politico al cuore della mancata trattativa con le Brigate Rosse nell’ambito del caso Moro. La vita di un uomo – presidente della Dc e amico, marito e padre di famiglia – può giustificare una trattativa dello Stato con un gruppo terroristico? La politica della fermezza, caldeggiata nel film innanzitutto dal primo ministro Giulio Andreotti (Fabrizio Contri), va in un’altra direzione.
La complessità del dilemma politico viene dunque affrontata dal punto di vista della sua dimensione privata. La centralità della prospettiva personale – fondamentale in questa possibile ricostruzione dei fatti della primavera del 1978 – è sottolineata stilisticamente dall’insistente ricorso ai primi piani. Nei momenti culminanti del film, il regista indugia sui volti dei propri personaggi, come nel tentativo di sondare con la macchina da presa l’interiorità dei protagonisti, rivelandone espressioni e atteggiamenti, oltre le parole. La bravura degli attori rafforza l’efficacia della tecnica di ripresa.
Possiamo leggere nella stessa direzione la felice intuizione di Bellocchio – non per la prima volta nella sua cinematografia – di ambientare alcuni dei momenti più toccanti «nel confessionale»[1]. È il caso degli ultimi due episodi della serie: a essere messe a nudo nel contesto della confessione sono le anime di Aldo ed Eleonora Moro. Questa circostanza, momento di apertura di coscienza personale, diventa un espediente cinematografico di grande efficacia per esplorare la vita interiore dei due personaggi principali. Quale migliore artificio per far parlare gli stessi protagonisti di sé stessi, del grande mistero e sacralità della propria vita?
Alle più intime vicende personali, verosimilmente immaginate dall’autore, fa da contrappunto l’impiego di diversi materiali di repertorio. Nelle sei puntate della serie si ripete il video dell’edizione straordinaria del Tg1, in cui Bruno Vespa informa del rapimento di Moro e dell’uccisione degli uomini della scorta. Allo stesso modo, tornano a più riprese le immagini del rastrellamento del Lago della Duchessa, nell’ossessiva ricerca del cadavere di Moro, a seguito di un falso comunicato. A partire dalla verità storica documentata, ma limitata al ruolo di semplice cornice, Bellocchio può ipotizzare l’itinerario interiore dei personaggi coinvolti, il centro del film. La veridicità dei fatti è dunque il pretesto per il regista per concentrarsi sull’autenticità dei personaggi. È il tentativo di tratteggiare i contorni di una realtà non certo oggettiva, ma universale: ogni spettatore può ritrovare qualcosa di personale, delle proprie paure, domande e aspirazioni, nelle situazioni affrontate dai diversi personaggi abbozzati nelle sei puntate della serie.
Rivediamo brevemente i personaggi tratteggiati nella serie, alla luce del loro cammino umano verso un’integrazione tra la vita privata personale e le istanze richieste dalla dimensione pubblico-politica del proprio ruolo.
Aldo Moro, presidente della Dc
Il conflitto al tempo stesso politico (Aldo Moro – Democrazia cristiana) e umano (Aldo Moro – compagni di partito) è presentato con vigore immaginifico nel prologo del film, che riecheggia l’epilogo immaginario di Buongiorno, notte. Moro è vivo, in ospedale per riprendersi dopo i 55 giorni di reclusione. Ad Andreotti, Cossiga e Zaccagnini dichiara la sua incompatibilità con il partito e la decisione di dimettersi dalla Dc.
I momenti successivi mostrano il politico in azione, l’uomo della mediazione e della concretezza. Alla ricerca di un’unità figlia della responsabilità per «vivere il tempo che ci è stato dato», Moro è il principale artefice di una storica alleanza tra il Partito comunista e la Democrazia cristiana, necessaria per l’insediamento del nuovo governo.
La dimensione privata del politico è un terreno difficile per lo statista in fragile equilibrio tra mondo degli affetti e arte del governo: «La politica è una missione, e la fede in questa missione ci aiuta a superare le pene domestiche». Seguiamo dunque Moro nel suo appartamento: cena solo; unica compagnia la radio, che racconta un’improbabile esperienza di Moravia con gli Ufo. Controlla i figli a letto[2]e i fornelli del gas. È così presente in famiglia da accorgersi degli orecchini nuovi della figlia, così come, il giorno successivo, trova il tempo per ascoltare una giovane donna nella sua supplica di un lavoro per il figlio. È il ritratto di un uomo attento alle persone nella vita privata come in quella pubblica, espressione di una politica intesa come sapiente gestione dei rapporti umani in vista del bene comune, in tutte le situazioni in cui una persona è chiamata a vivere.
Tuttavia, attorno a lui, lo scenario politico è deplorevole; in un’incisiva scena sull’assegnazione delle cariche del nuovo governo, l’atteggiamento è quello di un mercato rionale: ognuno cerca di accaparrarsi il pezzo migliore. L’isolamento di Moro, come uomo e politico, senza vie d’uscita possibili, sembra suggerito dalle sequenze dei suoi spostamenti automobilistici, spesso circolari, soprattutto nel corso di una serpentina sui cui muri appaiono scritte politiche senza speranza.
Eleonora Moro
L’umanità del presidente della Dc riaffiora nel punto di vista della moglie Eleonora, nel quinto episodio della serie. Il racconto inizia nel confessionale, dove la donna rivela la sua naturale frustrazione di moglie trascurata, non amata davvero. «L’amore non è uno scambio», l’incoraggia il confessore. Sono parole emblematiche, se lette nel contesto dell’intera vicenda del rapimento. La prospettiva di Eleonora-Buy rivela un uomo più autentico, fragile nei suoi limiti e contraddizioni: è un Moro che cerca la riconciliazione in politica e non è in grado di placare le liti delle figlie.
Un rumore improvviso, frastornante pone fine alla confessione. In una possente sequenza, seguiamo il prete e la signora Moro uscire dalla chiesa: elicotteri ruggenti come uccelli del malaugurio preannunciano il dramma. Sul luogo del rapimento e della strage degli uomini della scorta, ritroviamo la moglie. Il primo pensiero è alla valigia di medicine che il marito porta sempre con sé e di cui non può fare a meno.
Inizia l’odissea della moglie, i suoi vani tentativi per ottenere la liberazione del marito o, per lo meno, l’avvio di una trattativa da parte della Dc. La macchina da presa allude all’infruttuosità dei suoi tentativi: la segue mentre si muove come in gabbia da una camera all’altra dell’appartamento, tra visite, telefonate e toccanti momenti in famiglia. Frustranti sono gli incontri con i politici di turno: tante parole, alcune lacrime e un’implacabile fermezza politica.
Inutilmente Eleonora si appella privatamente ai colleghi di Moro; invano tenta di smuoverli verso una possibile trattativa per salvare l’uomo, il loro compagno di partito e suo marito.
Non dimentica la sofferenza privata della signora Leonardi, vedova di Oreste, capo della scorta, cui manifesta la sua vicinanza con una telefonata.
E, soprattutto, nelle tanto discusse lettere inviate dalla prigionia disconosce l’indebolimento della sua personalità, ventilato da più parti. Piuttosto, nelle missive del Presidente della Dc riconosce l’uomo in tutta la sua tragica umanità: «Aldo è perfettamente in sé», sbotta desolata dinanzi all’impassibilità dei politici e ai titoli dei giornali.
Paolo VI, amico della famiglia Moro
Altrettanto complessa è la posizione di papa Paolo VI, amico personale di Moro e attivamente coinvolto nel tentativo di fare tutto il possibile per ottenerne la liberazione. Alcune sequenze di grande forza evocativa suggeriscono la sofferente impotenza della sua situazione. In una giornata dal cielo plumbeo, la sagoma del Papa che parla ai fedeli risalta minuta, isolata, al centro del monumentale complesso del Vaticano. Paolo VI è un uomo solo, al centro di una situazione gravosa, da gestire sia come uomo sia come papa.
La frase «la prudenza è la prima delle virtù cardinali» fa da sfondo all’intera vicenda, assieme all’immagine del mucchio di bigliettoni raccolti per pagare il riscatto e ammucchiati su un tavolo, espressione di una possibilità divenuta quasi realtà, ma mai attuata.
Una delle scene più intense dell’episodio – il terzo della serie – è il momento della Via crucis del Venerdì santo. Il montaggio alterna istanti della celebrazione del Vaticano con momenti di una Via crucis onirica: a portare la croce è Moro e, distanti, lo osservano freddi i responsabili della Dc. Le immagini disperate della «Via crucis laica» di Moro evocano interrogativi inequivocabili: si è trattato di un sacrificio a favore di una classe politica tiepida e impassibile?
Una scena centrale è la telefonata tra papa Paolo VI e don Cesare Curioni, cappellano delle carceri e scaltro intermediario della trattativa. Il Pontefice sente la necessità di confrontarsi con lui prima di redigere la lettera ai brigatisti per supplicare la resa incondizionata di Moro. Qual è il linguaggio più efficace? Come essere al tempo stesso Giovanni Battista Montini e papa Paolo VI, parlando al cuore dei brigatisti? L’immaginazione di Bellocchio si sofferma su uno dei momenti più difficili del pontificato di Paolo VI, in cui ruolo, missione e sentimenti personali si integrano alla ricerca di una complessa unità.
Adriana, moglie, madre e brigatista
La rivoluzione, la fiducia nella lotta armata – costi quel che costi – come unica soluzione possibile per apportare un cambiamento nella società, è l’istanza ideologica di Adriana, la brigatista protagonista del quarto episodio della serie.
Il credo cieco in quest’ideologia di morte è rivelato in tutta la sua assurdità nella prima violenta scena. La piccola figlia, aggirandosi ingenuamente nella camera da letto, impugna con stupore una pistola trovata nel cassetto della madre. Il contrasto insanabile e tragico tra essere madre, generatrice di vita, e brigatista, dispensatrice di morte – inesprimibile forse a parole – è «gridato» con la potenza di quest’immagine.
L’irrazionalità della contrapposizione tra la naturale maternità e l’innaturale missione terrorista è poi suggerita da un incalzante montaggio alternato: alle immagini di Adriana in lacrime per una sconclusionata gioia di fronte all’annuncio del Tg1 sul riuscito rapimento di Moro si alternano immagini della figlia che piange, rimasta sola, fuori della scuola.
L’impossibilità di un’integrazione tra il ruolo di madre e quello di brigatista è aggravata dalla disarmante pochezza di tutto l’entourage di Adriana. Il momento della distribuzione delle armi ai brigatisti – come fosse un gioco – riecheggia l’assegnazione delle cariche politiche vista nel primo episodio; mutano gli ambienti, ma l’inadeguatezza delle persone coinvolte non cambia. Anche l’ideologia dei terroristi sembra esaurirsi nella lotta a senso unico contro l’autorità, perché la «vera passione è disobbedire», come afferma uno dei brigatisti. Lo stato di confusione diffuso nella società è richiamato anche dall’attitudine di alcuni giovani, sorpresi a drogarsi in un autobus pubblico.
Tuttavia, alcuni dubbi iniziano a insinuarsi nella coscienza di Adriana, mossi dalla visione del funerale degli uomini della scorta e dallo sconfinato dolore delle loro vedove. Solo la visione delle vittime, dei volti marcati dalla sofferenza più ingiusta può far aprire gli occhi sulla realtà. E la realtà dei brigatisti è sfalsata: chiusi in sé stessi, asserragliati nei loro appartamenti-rifugi, la mediazione con l’esterno è simbolicamente rinviata alla prospettiva distorta dello spioncino della porta del loro appartamento, da cui scrutano timorosi a ogni scampanellata. E l’allontanamento dalla realtà e dalla vita può solo portare alla morte.
Francesco Cossiga, ministro dell’Interno
Francesco Cossiga, all’epoca ministro dell’Interno, è il protagonista del secondo episodio della serie. Definito «bipolare» da Moro-Gifuni nella memorabile sequenza dell’ultima confessione, è un uomo fragile, disorientato in una situazione più grande di lui. Debitore nei confronti del presidente della Dc, a cui deve la sua carriera politica, appare isolato, a volte delirante, chiuso in sé stesso: la visionarietà di Bellocchio lo ritrae spesso asserragliato in un rifugio insonorizzato. È un disagio relazionale, che coinvolge vita politica e privata (la moglie non dorme con lui). Cossiga combatte la sua finta battaglia come i soldatini sul tavolo all’ingresso del suo appartamento. Più che condurre il gioco, si fa condurre, sovrastare da esso. Esitante, ascolta un poco lungimirante consulente americano dispensatore di ovvietà, allestisce un centro di intercettazioni e di ascolto, dove arriva ogni sorta di chiamate, e si lascia depistare, spaesato, fino a un’improbabile incursione in una clinica psichiatrica.
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I sei episodi di Esterno Notte, presentati in breve, come diverse finestre aperte su una medesima realtà, restituiscono prospettive differenti sul dramma che ha sconvolto il nostro Paese per i 55 giorni del sequestro Moro. Se la cronaca di quelle vicende è nota e l’investigazione approfondita di un’eventuale implicazione della Cia o del Kgb non rientra nei piani del film, l’invito a calarci con la forza dell’immaginazione nei panni di chi quei giorni li ha vissuti in prima persona è uno dei grandi meriti dell’opera. La potenza evocativa del cinema di Bellocchio – le cui forti immagini, enfatizzate da un solido montaggio e una musica sopra le righe, non sono esenti da una ricercata spettacolarità – apre orizzonti sulla realtà più intima dei personaggi, senza eludere situazioni incomprensibili e grottesche.
A volte, tuttavia, l’estetica immaginifico-onirica del film – come nell’episodio dedicato a Cossiga – può risultare ridondante. Inoltre, la decisione di soffermarsi sul punto di vista di alcuni personaggi ha l’inevitabile conseguenza dell’esclusione di altre prospettive. Lo stesso Andreotti appare in alcuni casi semplificato, ritratto secondo il luogo comune di una sua indifferente ambiguità, com’è stato rilevato in una recente polemica sollevata dal figlio Stefano. Una possibilità rimasta aperta per il soggetto di un ipotetico futuro film?
La complessità della dimensione pubblica e privata del caso Moro, affrontata con coraggio in Esterno Notte, ha avuto riflessi anche nell’accoglienza del film. Se per la famiglia, come sottolineato dalla figlia dello statista Maria Fida, il film costituisce un doloroso ritorno a ferite private – più vicino alla tortura che all’arte –, per Bellocchio si tratta della ripresa di una vicenda che travalica i confini privati e di cui è importante continuare a parlare a livello pubblico.
In quest’ottica, per amanti di cinema e Tv, Esterno notte può essere l’occasione per riflettere – a partire dalle vite dei personaggi del film e stimolati dalla magia del cinematografo – sulla personale necessità di ricercare una complessa unità nelle diverse situazioni, pubbliche e private, che costituiscono la nostra vita quotidiana.
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[1] Il cinema stesso può essere percepito come «una grande confessione laica» del sentire dell’autore. Padre Virgilio Fantuzzi parla della metafora cinema-confessione in un bel colloquio con lo stesso Bellocchio, inserito nel suo precedente film Marx può aspettare (2021). Secondo Fantuzzi, «attraverso lo schermo, come se fosse la grata di un confessionale», è possibile leggere tra le righe di un film la confessione personale del regista-penitente.
[2] Quella di passeggiare la notte nell’appartamento osservando i figli era un’abitudine propria dello stesso padre del regista, già ripresa nel precedente film su Moro Buongiorno, notte. Cfr V. Fantuzzi, «La “Via Crucis” laica di Marco Bellocchio», in Civ. Catt. 2004 I 574 s..