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ABSTRACT – Il primo incontro che ho avuto con Bernardo Bertolucci non si è svolto sotto il segno della serenità, ma sotto quello dell’inquietudine. Nell’estate del 1967 ho avuto l’occasione di seguire uno stage come «assistente volontario» alla regia durante la postproduzione del film Edipo re (da Sofocle) di Pier Paolo Pasolini. Giunse Bernardo, allora venticinquenne, con una gran massa di capelli in testa. Aveva sotto braccio due scatole di latta con dentro, arrotolata, la pellicola di un episodio che aveva appena finito di montare. S’intitolava Il fico infruttuoso e avrebbe dovuto far parte di un film a episodi, realizzati da diversi registi, ispirati liberamente ai Vangeli, titolo provvisorio: Vangelo ’70. Sia il film sia l’episodio di Bernardo uscirono nelle sale con titoli diversi. Bernardo voleva che Pier Paolo fosse il primo a vedere il lavoro che aveva appena fatto con l’apporto dell’intero gruppo di attori del Living Theatre, guidati da Julian Beck. Pasolini mette da parte il suo film e fa proiettare le bobine portate da Bernardo. Mi rendo conto che sto per assistere a un evento fuori dal comune.
Figlio del poeta Attilio, che era anche critico d’arte, di letteratura e di cinema, Bernardo ha trascorso l’infanzia a Baccanelli, presso Parma, come se vivesse dentro una poesia. Il suo vero esordio come regista cinematografico è a vent’anni con il film La commare secca. Si dedica poi a un cinema «di nicchia» prima di giungere alla notorietà internazionale con Ultimo tango a Parigi, interpretato da Marlon Brando, e L’ultimo imperatore, premio Oscar come miglior film nel 1987.
Anche nelle opere di grande respiro egli non cessa di essere un uomo alla ricerca di se stesso, incerto sulla propria identità, perennemente sospeso tra il bene e il male, il passato e il futuro, il mito e l’utopia, come Alfredo, il protagonista di Novecento.
Con Io e te (2013) siamo agli sgoccioli dell’attività cinematografica di Bertolucci. La figura della prigione e quella di un inestricabile labirinto, intese come tracce di una costante ricerca di sé, stanno forse per trovare, se non una via di uscita, almeno un segnale che la indichi. La droga, nelle forme di assuefazione più degradanti, può essere considerata ai nostri giorni come l’equivalente della lebbra al tempo di san Francesco. Nel vedere questo film (l’ultimo di Bernardo Bertolucci), non riesco a togliermi dalla mente il ricordo dell’episodio del bacio al lebbroso nel film Francesco giullare di Dio, girato da Roberto Rossellini nel 1950, che Bernardo considerava come il più bello tra quelli realizzati dalla scuola italiana del dopoguerra.
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IN MEMORY OF BERNARDO BERTOLUCCI
The film director Bernardo Bertolucci, son of the poet Attilio, made his debut at the age of twenty with the film La commare secca. He devoted himself to niche cinema before reaching international fame with Last Tango in Paris, starring Marlon Brando, and The Last Emperor, Oscar winner for best film in 1987. Even in his great films he never ceased to be a man in search of himself, uncertain about his own identity, perennially suspended between good and evil, the past and the future, myth and utopia, like Alfredo, the protagonist of 1900. The surrounding reality, which sometimes looks like a prison, often assumes the forms of an inextricable labyrinth, where the lost man is wandering in a spasmodic search for a way out.