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Il tema della felicità non è facile da trattare e suscita nel lettore una certa ritrosia: nel sentire comune, la felicità è associata a qualcosa di melenso e irreale, come il «lieto fine» delle favole. Ma questo scadimento, spiega p. Cucci, è il frutto di una degenerazione storica, che ha cercato di ricondurla a qualcosa di imprevedibile e casuale. Non è un caso che gran parte delle lingue europee associno «felicità» a «fortuna»: l’inglese happiness viene da happen («accadere»); il francese bonheur dall’unione di bon («buono») ed heur («caso»); così il tedesco Glück («fortuna»). L’italiano felicità, lo spagnolo felicidad e il portoghese felicidade trovano la medesima radice nel latino felix («fortuna»).
Per gli antichi la prospettiva era ben diversa. I greci chiamavano la felicità eudaimonia, l’opera di un «buon demone», riconoscendo il legame con la vita divina, presente in qualche modo anche nell’uomo. Degne di nota sono le pagine dedicate ai filosofi antichi – in particolare Aristotele –, che associano l’eudaimonia alla condizione propria di Dio: l’uomo può farne esperienza solo per qualche breve istante, eppure quei momenti danno gusto al vivere e costituiscono un anticipo di eternità (cfr pp. 17-33).
Questo legame si è smarrito nel corso dell’epoca moderna: in linea con le attese suscitate dalla rivoluzione scientifica, anche la felicità si è ridotta a una tecnica, un esercizio «fai da te», da ottenersi anche artificialmente con l’aiuto di droghe e farmaci; e così essa ha finito per dileguarsi, lasciando il posto al male di vivere, tanto diffuso nelle nostre società (cfr pp. 79-120).
L’ultima parte del libro mostra la ripresa di interesse per il tema, con la nascita della «psicologia positiva». Recuperando gli insegnamenti della riflessione filosofica classica, questa mette ai primi posti la saggezza, il coraggio, l’amore, la giustizia, la temperanza, la trascendenza. Tra tutte queste virtù spicca in particolare la ricchezza delle relazioni affettive, coltivate con dedizione e gratuità. Altre ricerche, come quella condotta da una équipe dell’università di Harvard in un arco di tempo considerevole (dal 1938 al 2013), giungono alle medesime conclusioni: «Ciò che contribuisce più di ogni altra cosa alla felicità sono le relazioni affettivamente belle e gratificanti (legate a famiglia, amici, comunità di riferimento), mentre la solitudine è nociva al punto da costituire una delle più frequenti cause di autodistruzione, fino alla morte» (pp. 124 s).
Lo studio del tema porta anche a smentire inveterati luoghi comuni: innanzitutto, l’associazione «ricchezza/felicità». Viene piuttosto confermato il detto attribuito a Gesù: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere». Il libro riporta diversi studi in proposito, concordi nel rilevare come non esista alcuna relazione tra i soldi spesi per se stessi e la gioia di vivere. Quando invece si impiegano i soldi per aiutare gli altri, ci si sente più felici (cfr pp. 161-164).
Può costituire una sorpresa sapere che la felicità è diventata di pertinenza anche della progettazione urbanistica. I piani regolatori di alcune grandi città (Bogotá, Vienna, Londra, Città del Messico, Seul) hanno dato priorità ad aspetti rilevanti per la qualità del vivere, come le aree verdi, gli spazi pedonali, l’efficienza del trasporto pubblico, gli elementi che favoriscono le interazioni e la bellezza dell’abitare. I risultati non si sono fatti attendere: diminuzione di incidenti stradali, traffico scorrevole, efficienza dei trasporti, maggiore flusso di biciclette e pedoni. Con risvolti anche sulla qualità della vita: le persone dichiarano di essere più contente di abitarvi, e i furti e gli omicidi sono sensibilmente diminuiti.
Eppure, quando si chiede a cosa associare la felicità, non emerge quasi nessuno dei parametri rilevati. L’autore nota la presenza di una «distorsione cognitiva», che è l’ostacolo principale all’essere felici. Anche a motivo del costo che tutto ciò richiede in termini di fatica, applicazione, rinuncia, tempi lunghi, ma soprattutto di disponibilità di cercarla là dove non ci si aspetterebbe, come nella dimensione spirituale, che rimane forse il suo più efficace indicatore (cfr pp. 181-203).
Per questo la carta della felicità per eccellenza è data dalle beatitudini evangeliche: «È la più completa, perché ripercorre tutte le possibili situazioni della vita. È paradossale, perché individua la felicità proprio in ciò che il senso comune e la logica ritengono antitetiche a essa; non si fa scrupolo di entrare in merito alle situazioni più scomode e tragiche della vita […]. Nello stesso tempo nessuna categoria viene esclusa da questa possibilità: non si rivolge a una élite, ma offre la possibilità di una vita piena agli uomini e donne di ogni ceto e condizione» (pp. 41 s). Ma se questo è vero, non c’è da stupirsi che così poche persone siano felici.
GIOVANNI CUCCI
L’arte di vivere. Educare alla felicità
Milano, Àncora – La Civiltà Cattolica, 2019, 222, € 18,00.