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L’espressione «follia di Dio» è impiegata, in questo libro, nel senso della Prima lettera di San Paolo ai Corinzi (cfr 1 Cor 1,22-25): la follia di Dio è più saggia degli esseri umani e la debolezza di Dio è più forte degli esseri umani. John Caputo, teologo e filosofo statunitense di formazione cattolica, è un noto esponente della cosiddetta «teologia debole o del forse o dell’incondizionale». In essa Dio non è pensato come un principio di potenza, una garanzia materiale di successo mondano, ma come la voce che chiama a operare il bene senza condizioni, accordi contrattuali, vantaggi idolatrici. Dio non «esiste» come la causa efficiente da cui tutto dipende, ma come l’emergere di un appello alla libertà.
Più che «esistere» al modo di una cosa, Dio «insiste» affinché noi, prendendoci cura di chi ha fame, sete, è ignudo, prigioniero, colmiamo ciò che manca al corpo di Dio e completiamo – facciamo «esistere» – ciò che Dio ha consegnato alle nostre deboli mani. Il Regno promesso viene attraverso la nostra risposta, senza ricompense o garanzie che il bene trionferà in forza di un Deus ex machina.
Il credente scommette sulla speranza di giustizia, ma non è mosso da calcoli retribuzionisti, da secondi fini opportunistici – fosse pure la vita eterna –;
invece è scosso e rapito dal fascino dell’azione degna, dall’obbedienza a un comando di prossimità, dalla dedizione misericordiosa verso l’altro che soffre. Tutto avviene in modo simile al richiamo di bellezza che un artista avverte nell’abbozzo dell’opera che grazie a lui sta prendendo forma. La teologia come deduzione metafisica cede il posto a una «teopoetica», a un insieme di generi discorsivi (narrazione, poesia, ermeneutica, parabole, formule apofatiche, immaginazioni visive).
L’interessante testo di Caputo, che valorizza la lezione di Eckhart, Derrida, Bultmann, Benjamin, Vattimo e Tillich, meriterebbe un’analisi critica più dettagliata. L’inoggettivabilità del sacro scaccia l’idolatria dottrinale, ma rischia di smarrire la dimensione «drammatica» e storica del Vangelo. Per l’autore, la nozione di un Regno che non avrebbe bisogno di Dio – è Dio che avrebbe bisogno del Regno – si connette con la «divinità» di Dio quale regione oscura da cui il Dio celeste sarebbe emerso (Eckhart, citato a p. 34).
Manca però una giustificazione argomentativa – e non solo allusiva – dei criteri che distinguerebbero la «pazzia» (patologica) dalla «stoltezza» che la croce rappresentava per i pagani, secondo Paolo. L’apologia della secolarizzazione, quale itinerario «ateo» verso una religione più autentica, andrebbe declinata attraverso una contestazione più esplicita dei nuovi idoli della potenza: la medicalizzazione forzata della vita, l’avidità dello sfruttamento ecologico, il conformismo indifferente. Chi crede nel Cristo risorto conferma la sua opposizione alla morte e all’ingiustizia, attendendo cieli e terra nuovi, che Dio promette rivendicando a sé la garanzia di sconfiggere le tenebre. La religione non è un’ironica canzone di lode a un futuro sognato ma irrealizzabile, né uno spettro che spaventa le nostre esistenze, ma la fiducia nella potenza del Cristo («Noi annunciamo Cristo crocifisso: […] potenza di Dio e sapienza di Dio», 1 Cor 1,24), che si è manifestato come colui che guariva i malati, mondava i lebbrosi e donava la vista ai ciechi.
JOHN D. CAPUTO
La follia di Dio. Una teologia dell’incondizionale
Brescia, Queriniana, 2021, 208, € 24,00.