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Un patrimonio dimenticato
Nell’immaginario odierno la prudenza è associata soprattutto a un procedere lento e circostanziato (come nel caso della guida automobilistica) o a una indecisione di fondo per evitare rischi o, peggio ancora, a una forma di viltà o di pavidità che impedisce di prendere posizione[1]. Valutazioni che sono in gran parte eredità del pensiero moderno.
Per gli antichi invece la prudenza era considerata la virtù più bella a disposizione dell’uomo e guida di tutte le altre (auriga virtutum), perché consente di riconoscere l’obiettivo fondamentale della vita nella situazione concreta, ma soprattutto individua i mezzi adeguati per poterlo conseguire. I greci la indicavano con phronēsis (saggezza), un termine che faceva originariamente riferimento al diaframma (frēn), sede del respiro, del sentire e dell’attività conoscitiva propria dell’anima, la dimensione più intima dell’uomo[2]. La persona saggia ha la ragione in buona salute e perciò può governare se stessa. Per Aristotele, il compito della saggezza è di educare la sensibilità, l’energia indispensabile per compiere il bene (Topica, V, 8; 138 b 2-5): è il compito essenziale della ragione pratica (Etica Nicomachea, VI, 5). Per questo la saggezza è il perno della vita morale, perché scopo di questa disciplina, aggiunge sempre Aristotele, non è di conoscere il bene, ma di essere buoni. Cicerone traduce phronēsis con prudentia, definendola «la scienza delle cose che si devono cercare o fuggire» (De officiis, I, 153).
Come si può notare anche da questa semplice ricognizione, non solo la saggezza-prudenza, ma la stessa filosofia morale si presentano con caratteristiche ben diverse dall’approccio intellettualistico proprio dell’epoca moderna, alla ricerca di regole e definizioni precise, svuotando in tal modo la ragione pratica della dimensione affettiva. Emblematica a questo riguardo è la posizione di Kant: ragione ed emozioni sono nemici dichiarati; per questo la scelta del bene deve prescindere da ogni aspetto passionale ed essere compiuta sulla base della pura ragione. E il motivo di tale contrasto è enunciato con chiarezza: «Essere soggetti a emozioni e passioni è ben sempre una malattia dell’animo, perché ambedue escludono il dominio della ragione»[3]. È una posizione antitetica a quella di san Tommaso: «Il modo della virtù, che consiste nella perfetta volontà, non può essere senza passione, non perché la volontà dipenda dalla passione, ma perché a una volontà perfetta in una natura passibile necessariamente consegue la passione» (De Veritate, q. 26, a. 7, ad 2; cfr a. 1).
Tommaso, iniziando la seconda parte della Somma Teologica, nota che «le considerazioni generiche in campo morale sono meno utili, perché le azioni (umane) sono particolari» (Sum. Theol. II-II, prol.). Per vivere bene si deve sapere come concretamente agire, e soprattutto essere sufficientemente motivati a farlo. Per questo senza la prudenza non si può parlare di morale.
Cos’è la prudenza?
Tommaso riprende l’etimologia del termine da Isidoro da Siviglia: prudenza come porro videns, capacità di guardare avanti, lontano, di prevedere e provvedere, vedere il possibile punto di arrivo di un pensiero o di una scelta, mediante confronti (collatio) con quanto accaduto nel passato (cfr Sum. Theol. II-II, q. 47, a. 1). Tale significato prospettico trova conferma dal fatto che la parola latina prudens è la forma contratta di providens (provvidenza): il prudente è provvidente, colui che vede prima, guarda oltre la situazione puntuale.
Il compito specifico della prudenza è soprattutto quello di prefigurare il percorso adeguato per raggiungere il fine. Non stabilisce il fine ultimo, il bene da compiersi, che non è oggetto di deliberazione (cfr Sum. Theol. I-II, q. 57, a. 5), ma ne predispone i mezzi.
Da qui l’importanza fondamentale della prudenza nel processo del discernimento per compiere in maniera corretta decisioni importanti per la propria vita[4]. Il suo legame con la provvidenza mostra anche la sua dimensione religiosa, di partecipazione alla sapienza divina, che fornisce luce e forza per compiere il bene. Tommaso precisa che in questo difficile compito possiamo essere aiutati da un prezioso dono della Spirito Santo, il consiglio, che fornisce luce all’intelletto e forza alla volontà: «La prudenza, che implica la rettitudine della ragione, viene potenziata ed aiutata in quanto è regolata e mossa dallo Spirito Santo. E questo compito appartiene al dono del consiglio. Quindi il dono del consiglio corrisponde alla prudenza, come suo aiuto e coronamento» (Sum. Theol. II-II, q. 52, a. 2).
Questa docilità libera dall’ansia di ritenere che tutto sia affidato alle proprie forze, disperando di migliorare. Curiosamente però Tommaso nota che questo necessario completamento per la deliberazione era stato riconosciuto con chiarezza già da Aristotele: «Il Filosofo stesso notava [Etica Eudemia, 7, 14] che coloro i quali sono mossi per istinto divino non hanno bisogno di deliberare secondo la ragione umana, ma devono seguire l’istinto interiore: perché sono mossi da un principio superiore alla ragione umana» (Sum. Theol. I-II, q. 68, a. 1).
La razionalità della prudenza: la «vis cogitativa»
L’importanza della prudenza per l’etica è data dal fatto che essa esprime una razionalità del tutto speciale, sintesi tra dimensione sensibile e intellettuale, quella che Tommaso chiama vis cogitativa. Nel presentarla, egli mette a confronto la conoscenza umana con l’apprendimento animale. Ogni cucciolo, ad esempio, già dalla nascita possiede una serie di informazioni indispensabili per vivere, come tendere la bocca alla ricerca della mammella della madre; oppure, come per la pecora, allontanarsi alla vista del lupo, anche se è la prima volta che lo incontra. Questa capacità, che è alla base di quello che oggi chiamiamo «istinto», viene denominata da Tommaso vis aestimativa. Essa ha la funzione di dare una valutazione immediata della situazione particolare, cui segue una risposta in termini di attrazione (come la ricerca del nutrimento) o di fuga (come per la pecora di fronte al lupo; cfr Sum. Theol. I, q. 78, a. 4).
Tommaso, riprendendo le analisi di Aristotele, nota che l’uomo non ha solo la capacità di conoscere le situazioni particolari, ma anche di modificarle, di rielaborare a un livello differente quanto ha appreso dai sensi, grazie a quella facoltà chiamata «fantasia»[5]. Nell’uomo, a differenza dell’animale, la sensibilità rimane sotto il dominio della ragione e della volontà, grazie alla vis cogitativa: «Quella potenza che negli altri animali è chiamata estimativa naturale, nell’uomo viene detta cogitativa, poiché raggiunge queste immagini intenzionali mediante una specie di ragionamento. E così questa facoltà, alla quale i medici assegnano come organo determinato la parte centrale del cervello, è chiamata anche ragione particolare: essa infatti raccoglie i dati conoscitivi concreti come la ragione intellettiva raccoglie quelli universali» (Sum. Theol. I, q. 78, a. 4).
Di fronte a una data situazione l’uomo può reagire in molti modi diversi: può, ad esempio, decidere di non mangiare a motivo di un ideale più grande, o affrontare un pericolo mortale per rimanere fedele a un valore. Tale plasticità è alla base del progresso nella conoscenza e consente di modificare il comportamento raccogliendo gli insegnamenti dell’esperienza. Gli istinti, al contrario, sono estremamente precisi e regolati: quando un uccello costruisce un nido, compie una serie di operazioni molto eleganti, e non sembra valutare varie possibilità per poi scegliere; si nota come una predisposizione che orienta la valutazione. Per questo gli istinti non si apprendono: un cane non potrà mai imparare a costruire un nido per gli uccelli.
Un’antropologia integrata
A differenza degli animali, l’uomo riprende e rielabora le impressioni sensibili, fino a costruire con la fantasia oggetti che non esistono (come il centauro, l’ippogrifo o un monte d’oro). La vis cogitativa ha la funzione fondamentale di cerniera tra sensibilità e intelletto, muovendo la volontà ad agire. È la prova della profonda unità del conoscere umano, una conoscenza che nasce dal particolare e termina nell’universale, nel valore capace di incarnarlo. Come un edificio che ha fondamenta e piani differenti ma tra loro uniti, così è la conoscenza umana. I sensi costituiscono il punto di partenza, il materiale che l’intelligenza smaterializza (quello che i medievali chiamano fantasma) ed elabora il concetto universale. A sua volta la vis cogitativa influenza la sensibilità, dando luogo a quelle che Tommaso chiama «passioni dell’anima»[6].
Le passioni nascono dalla sensibilità, ma sono anche un moto dell’anima: sono il frutto di una valutazione che coinvolge il corpo (cfr Sum. Theol. I-II, q. 23, a. 2). L’ira è un esempio: si può decidere di arrabbiarsi, prendendo posizione su ingiustizie evidenti. Tale è, ad esempio, l’ira di Gesù: quando vede i mercanti nel Tempio (cfr Gv 2,14-18) esce, prepara con cura una cordicella e poi dà corso alla sua ira. È come se dicesse: «Ho visto questo scempio e mi arrabbierò tra due ore quando sarò pronto». È un’ira suscitata deliberatamente dalla volontà sulla base di quanto è stato conosciuto.
D’altra parte, la ragione è chiamata ad ascoltare la sensibilità, in modo da ordinarla, rendendola un prezioso alleato a servizio del bene. A questo proposito san Tommaso riprende un’osservazione di Aristotele: «Il Filosofo [Politica, I, 2] dice che la ragione si impone alle tendenze di desiderio e di aggressività non mediante un potere dispotico, come quello del padrone sullo schiavo, bensì mediante un potere politico o regale, che si rivolge a uomini liberi, i quali non sono interamente sottomessi al comando» (Sum. Theol. I-II, q. 17, a. 7).
La vis cogitativa può fare ciò perché, a differenza della ragione speculativa, concerne i particolari, oggetto della sensibilità, e pertanto è in grado di muovere all’azione. Questo è il motivo della sua efficacia, perché il bene viene da essa conosciuto non soltanto come qualcosa di vero (come nella conoscenza speculativa), ma come desiderabile, come buono, come ciò che muove gli affetti e facilita il suo conseguimento.
La vis cogitativa presenta una visione dell’etica al tempo stesso concreta e oggettiva. Il suo modo di procedere integra strettamente tra loro sensibilità, intelletto e volontà, così che possano raggiungere il bene desiderato in modo ordinato, capace cioè di promuovere la persona nella sua integrità. Senza passione si cadrebbe nel vizio dell’insensibilità (cfr Sum. Theol. II-II, q. 142, a. 1), che rende disumani, incapaci di pietà, tenerezza e misericordia.
Come sappiamo, l’apporto che queste differenti facoltà – sensibilità, intelletto e volontà – hanno in ordine alla decisione è una delle questioni tra le più complesse e intriganti dell’agire umano.
È interessante notare anche come questa nozione, caduta in disuso in filosofia, sia stata ripresa dalle scienze umane, in particolare dalla psicologia clinica – dalla Gestalt, fino alla neurochirurgia – non nella sua materialità, ma nel suo significato essenziale: tali discipline rilevano infatti il contributo cognitivo delle emozioni e il suo influsso sul ragionamento e sui processi decisionali, a partire da quello che Aristotele chiamava «senso comune», facoltà unificatrice della sensibilità[7].
«Vis cogitativa» e prudenza
La vis cogitativa non è identica alla prudenza, ma è la facoltà che la rende possibile; il suo ripetuto esercizio consente di farne una virtù, un habitus, letteralmente qualcosa che si ha, che appartiene all’uomo prudente in maniera stabile, come una seconda natura. Tommaso dà una bella definizione della virtù: «La virtù è una qualità che rende buono chi la possiede, e buona l’azione che egli compie» (Sum. Theol. II-II, q. 47, a. 4). Conoscere la situazione concreta è un passo previo indispensabile, ma non è lo stesso che essere prudenti, capaci cioè di compiere il bene da farsi (cfr De Virtutibus in communi, a. 6, ad 1).
La prudenza suppone anzitutto la rettitudine del desiderio (rectitudo appetitus), perché è in quella sede che si gioca la valutazione operativa. La sua caratteristica peculiare è di essere insieme virtù intellettuale e morale: è retta ragione concretamente in opera, che Tommaso qualifica con la celebre definizione di recta ratio agibilium (Sum. Theol. II-II, q. 47 a. 2 s.c.; I-II, q. 58, a. 3). Essa giudica della bontà di una cosa sotto l’aspetto di bene, cioè di cosa desiderabile, verso la quale ci si muove per conseguirla: «La vita morale, senza la prudenza, potrebbe presentarsi come un orientamento irrazionale verso dati fini, senza la guida attiva e impegnata della ragione nell’ordine esecutivo»[8].
Il procedimento prudenziale
La ragione pratica procede secondo tre fasi. Anzitutto indaga, raccoglie informazioni, poi giudica il da farsi, sulla base dei princìpi primi circa il bene e il male, mediante la facoltà che Tommaso chiama sinderesi (una nozione ripresa anche negli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, a proposito delle Regole per il discernimento degli spiriti[9]), e infine decide. Perché l’azione sia buona, si richiede che siano buoni tutti e tre i passi.
È soprattutto il terzo momento, l’imperium, il comando, l’atto peculiare della prudenza, che la distingue dalle altre virtù intellettuali, ma anche da una virtù pratica come l’arte, rivolta alla produzione di opere esterne, dove la perizia e l’abilità sono essenziali. E difatti, mentre nell’arte un errore deliberato, che contraddice volutamente la regola, è meno grave di un errore compiuto per ignoranza della norma, nella prudenza accade esattamente il contrario. E questo perché nell’arte la facoltà preponderante è la rettitudine del giudizio, mentre lo specifico dell’azione morale è il comando, la rettitudine della volontà (cfr Sum. Theol. II-II, q. 47, a. 8). Solo quando interviene il comando, si può parlare di vita morale.
Da qui la complessità di tale virtù. Per agire bene si richiede anzitutto il deliberare bene, grazie a una ragione in armonia con la sensibilità (la vis cogitativa). Ma questo non basta. Una volta conosciuto cosa è bene fare, si deve agire prontamente. Aristotele e Tommaso sono concordi nel rilevare che il prudente delibera a lungo, ma si decide in breve tempo ed esegue con prontezza quanto ha deciso.
La prudenza quindi non è affatto sinonimo di indefinito temporeggiare o abilità a non prendere mai posizione, come si ritiene per lo più oggi. Al contrario, per Tommaso la sua caratteristica essenziale è la sollecitudine (letteralmente, riprendendo ancora Isidoro, essere solers citus, veloce e vivace): una volta che la ragione ha deliberato, l’azione deve seguire rapidamente, perché la prudenza fornisce, oltre alla conoscenza, anche la forza per compiere il bene[10].
Questa rapidità è indispensabile, perché al momento di decidere possono subentrare impedimenti emotivi, come la paura, l’ansia, che rischiano di rimettere in discussione senza motivo la buona decisione. La prudenza conferisce sufficiente certezza morale, ma non può avere il rigore e l’evidenza del sapere speculativo. Chi, come lo scrupoloso, cerca una verifica totale, infallibile, o ritiene che il tempo e le forze non siano sufficienti, non arriverà mai a una conclusione. Uno dei drammi della nostra società è la ricerca di una certezza totale sulle scelte da compiere, che ha come effetto di accrescere lo spazio dell’incertezza e dell’ansia[11].
Deliberazione lenta e decisione veloce: questi sono i pilastri indispensabili della prudenza, una virtù che procede a due velocità. Ma se non c’è sufficiente certezza nei primi due momenti, allora si deve attendere, perché mancano gli elementi indispensabili di riferimento.
I nemici della prudenza
Tommaso precisa che la prudenza non viene meno per un difetto di memoria, per mancanza di conoscenza della norma (come sosteneva l’intellettualismo socratico), ma a causa delle passioni disordinate (cfr Sum. Theol. II-II, q. 47, a. 16). La scelta cattiva nasce da una mancata armonia tra intelletto e sensibilità (quelli che Ignazio chiama gli «affetti disordinati»: cfr Esercizi spirituali, n. 1), e la persona diviene così incapace di riconoscere il bene nella sua concretezza, disattendendo valori essenziali per la vita.
Atteggiamenti specificamente contrari alla prudenza sono lo scrupolo, già ricordato o, al contrario, la decisione presa troppo in fretta, in preda alla brama del momento, senza un’adeguata deliberazione. Questa è un’altra forma di imprudenza, incapace di percorrere i passaggi necessari per una buona scelta: la memoria del passato, l’intelligenza, la ragione, la solerzia e soprattutto la docilità (cfr Sum. Theol. II-II, q. 53, a. 3).
Aristotele ne aveva trattato nel celebre «sillogismo dell’intemperante», che trascura la regola, pur nota, per seguire piuttosto la suggestione del momento[12]. Egli conosce il da farsi, ma nella circostanza concreta preferisce ignorarlo e rinunciare a quanto suggerito dalla ragione. La precipitazione è un vizio che prolifera nell’era del web, dove con facilità si postano messaggi senza averli pensati e valutati con calma, dando espressione al lato più superficiale di sé.
Una virtù dimenticata
Il trattato di san Tommaso sulla prudenza rimane ancora oggi il più completo e articolato che sia mai stato scritto. Nell’epoca moderna, come si è detto, il tema perde ben presto interesse, anche da parte degli esponenti della seconda scolastica. Tommaso de Vio – detto il Gaetano (1469-1534) – nel suo celebre commentario alla Summa riserva uno spazio estremamente esiguo alla virtù della prudenza; un secolo più tardi Giovanni di san Tommaso (1589-1644) non la menziona affatto, insistendo piuttosto sul ruolo della coscienza nell’agire morale.
Ma è con Francisco Suárez (1548-1617) che si ha la vera svolta nel significato da attribuire alla prudenza. Il Doctor eximius, pur prendendo le mosse da Tommaso, ne estende il significato, accentuando la dimensione di progettazione e precisione giuridica e politica che caratterizzerà l’indirizzo proprio dell’età moderna, e che trovava la sua espressione più riuscita in Machiavelli[13]. Per il pensatore fiorentino la prudenza è soprattutto oggetto di macchinazione per raggiungere il potere e astuzia strategica necessaria per conservarlo e trionfare sui propri nemici; se necessario, essa richiede di compiere il male. In questo senso la prudenza ha un significato completamente diverso dalla tradizione precedente, riducendosi a mera astuzia di governo, sganciata dalla saggezza: «Li buoni consigli, da qualunque venghino, conviene naschino dalla Prudenza del Principe; e non la Prudenza del Principe da’ buoni consigli»[14].
E così anche in sede teologica è difficile trovare saggi e studi su questa virtù decisiva della vita morale. Per lo più si tratta di commenti puntuali al testo di Tommaso (Pieper, McCabe, Cessario). I moralisti moderni tendono a ridurre la tematica a una raccolta di massime e di riflessioni proverbiali molto generiche (Montaigne, La Bruyère, la Rochefoucauld), a un insieme di norme rigorose, ma astratte (Kant, Spinoza), a mera espressione soggettiva di emotività, rinunciando a una sua possibile giustificazione (Diderot, Hume, Stevenson), oppure la vedono come modo di procedere in ambito economico (Zamagni, Yuengert). Al più viene ripresa la dimensione esistenziale della saggezza come «arte di vivere», contrapponendola alla mentalità alienante dell’epoca tecnologica (Foucault, Heidegger, Arendt, Gadamer).
Ma non vi è più traccia delle caratteristiche essenziali della prudenza, sopra ricordate, senza le quali non è possibile condurre una vita degna di questo nome: «La prudenza è la virtù più necessaria per la vita umana. Infatti il ben vivere consiste nel ben operare. Ma perché uno operi bene non si deve considerare solo quello che compie, ma in che modo lo compie; e cioè si richiede che agisca non per impulso o per passione, ma secondo una scelta o decisione retta» (Sum. Theol. I-II, q. 57, a. 5).
Senza la deliberazione della prudenza, l’edificio stesso della filosofia morale rischia di crollare. È la parabola della filosofia moderna mostrata in maniera eloquente da Alasdair MacIntyre: «L’appello di Kant alla ragione è stato l’erede e il successore storico degli appelli di Diderot e Hume al desiderio e alle passioni. Il progetto di Kant fu una risposta storica al loro fallimento proprio come il progetto di Kierkegaard fu una risposta storica al fallimento di quello di Kant […]. Proprio come Hume cerca di fondare la morale sulle passioni, perché i suoi argomenti hanno escluso la possibilità di fondarla sulla ragione, così Kant la fonda sulla ragione, perché i suoi argomenti hanno escluso la possibilità di fondarla sulle passioni, e Kierkegaard sulla scelta fondamentale priva di criteri […], che escludono tanto la ragione quanto le passioni»[15].
Nonostante i molteplici differenti tentativi, l’esito comune è la resa di fronte all’inquietante avvento del nichilismo, che trova in Nietzsche la sua espressione più riuscita.
Due ostacoli in particolare si frappongono alla possibile rivalutazione della prudenza. Il primo è l’esclusione di una prospettiva trascendente, la fonte principale di questo sapere che orienta alla beatitudine, partecipazione alla vita divina e fine proprio della vita umana (cfr Sum. Theol. I-II, qq. 1-4). Il secondo grande ostacolo alla prudenza è il dualismo antropologico, che da Cartesio in poi resta un presupposto mai messo realmente in discussione. Prospettando la separazione tra ragione e affetti, come si è visto, diviene impossibile la fondazione stessa del discorso morale: è il curioso punto di arrivo di un’epoca nata all’insegna dell’esaltazione della ragione come unico criterio di valutazione e di comportamento.
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PRUDENCE. A vanished virtue?
In the contemporary collective imagination, prudence is not held in high regard. In fact, it is mostly considered synonymous with cowardice and a tendency to compromise. For the ancients, on the other hand, it was the finest virtue available to humans and the guide for all others (auriga virtutum,) because it enabled them to recognize the fundamental objective of life and the appropriate means to achieve it. The article presents prudence’s characteristics, referring to the one author who to date left us the most complete and articulate treatment, namely St Thomas. The article then goes onto highlight the progressive neglect and devaluation of prudence in the course of modernity, and the serious consequences for the very justification of moral discourse.
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[1]. Lapidario come sempre è un pensiero di Nietzsche: «Una virtù terrena è ciò che io amo: poca prudenza è in lei, e ancor meno raziocinio; i Vigliacchi sono prudenti! Ho incontrato più di un prudente: che velava il suo volto e intorbidiva la sua acqua, perché nessuno lo vedesse dentro» (F. Nietzsche, «Delle mosche del mercato», in Id., Così parlò Zarathustra, Milano, Monanni, 1927, 96).
[2]. Cfr Omero, Iliade, VI, 447; Platone, Timeo, 70a; Filebo, 26e; F. Sarri, Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Milano, Vita e Pensiero, 1997, 62 s.
[3]. I. Kant, Antropologia pragmatica, Roma – Bari, Laterza, 1993, § 73, 141. Per questo la prudenza, in quanto mero insieme di precetti tecnico-pratici, è esclusa dalla filosofia morale (Id., Critica del giudizio, ivi, 1979, § 1, 10 s).
[4]. «Conformarsi alla retta ragione è il fine proprio di ogni virtù morale […]. Ma determinare il modo e gli espedienti per raggiungere il giusto mezzo nell’operare spetta alla prudenza. Infatti, sebbene raggiungere il giusto mezzo sia il fine delle virtù morali, tuttavia codesto mezzo può trovarsi soltanto mediante la retta disposizione di quanto è ordinato al fine» (Sum. Theol. II-II, q. 47, a. 7).
[5]. «La fantasia è sempre o razionale o sensitiva. Di questa non partecipano gli altri animali» (Aristotele, De Anima, III, 433 b 29-30). Cfr L. Mazzone, La natura e la dinamica conoscitiva della ragione particolare. La «vis cogitativa» nell’antropologia di san Tommaso d’ Aquino, Benevento, Ed. Passione Educativa, 2017.
[6]. «C’è un’altra modalità (oltre alla conoscenza del particolare) secondo cui il movimento che parte dall’anima verso le cose inizia nella mente e si inoltra nella parte sensitiva; pertanto la mente governa le potenze inferiori e così si mescola con le cose particolari attraverso la mediazione della ragione particolare che è in una potenza particolare, anche chiamata col nome di cogitativa» (De Veritate, q. 10, a. 5).
[7]. Cfr Th. V. Moore, Cognitive Psychology, Chicago, J. B. Lippincott & Co, 1939; R. Allers, «La vis cogitativa e la valutazione», in The News Scholasticism 15 (1941) 195-221; Id., «The Cognitive Aspect of Emotions», in The Thomist: A Speculative Quarterly Review 4 (1942/4) 589-648; A. Damasio, L’ errore di Cartesio, Milano, Adelphi, 1995; M. Nussbaum, L’ intelligenza delle emozioni, Bologna, il Mulino, 2008.
[8]. T. Centi, «La prudenza», in Tommaso d’Aquino, s., La Somma Teologica, Firenze, Salani, 1966, vol. XVI, 211. Cfr Sum. Theol. II-II, q. 47, a. 5.
[9]. Cfr Sum. Theol. I, q. 79, a. 12; Ignazio di Loyola, s., Esercizi spirituali, n. 314.
[10]. «Spiega Sant’Isidoro che “sollecito suona solers citus (solerte veloce)”; per il fatto che uno per una certa solerzia dell’animo è veloce nell’intraprendere le cose da farsi. E questo è proprio della prudenza, il cui atto principale è comandare azioni deliberate e giudicate in precedenza. Ecco perché il Filosofo ha scritto che “bisogna eseguire prontamente quanto si è deliberato, mentre si deve deliberare con lentezza”. E per questo la sollecitudine appartiene propriamente alla prudenza» (Sum. Theol. II-II, q. 47, a. 9).
[11]. Cfr G. Cucci, «I mille volti della paura», in Id., La forza dalla debolezza. Aspetti psicologici della vita spirituale, Roma, AdP, 2011, 321-359.
[12]. «È evidente che chi agisce da intemperante non pensa che si debba agire in questo modo prima di essere preda della passione» (Aristotele, Etica Nicomachea, VII, 3, 1145 b 30-32). San Tommaso commenta in modo folgorante: «È evidente che l’incontinente, prima che intervenga la passione, non ritenga di fare ciò che in seguito farà mediante la passione» (Commento all’Etica Nicomachea, n. 1341).
[13]. La definizione di Suárez («La prudenza è la regola suprema delle azioni umane») si avvicina più alla nozione di legge di san Tommaso («La legge è la regola e la misura delle azioni») che a quella di virtù cardinale. Nota in proposito Cintia Faraco: «Legando la prudenza alla giustizia, quest’ultima è intesa non nel suo significato di virtù cardinale, bensì in quello ben più terreno e mondano di amministrare e render giustizia. Suárez, in sostanza, moltiplica i campi di applicazione della prudenza, rivestendola di quella praticità che Machiavelli aveva, nelle sue opere, descritto come il comportamento del principe prudente» (C. Faraco, «Tra saggezza e realismo politico: machiavellismi di Suárez», in Heliopolis 12 [2014/2] 131; cfr F. Suárez, De volontario et involontario in genere, deque actibus volontariis in speciali, in Id., Opera Omnia, Paris, Vives, 1856, Tomo IV, tract. I, disp. IV, sect. III, par. 29; Sum. Theol. I-II, q. 90, a. 1).
[14]. N. Machiavelli, Il principe, Brescia, La Scuola, 1974, c. XXIII, 225-227; cfr c. XV.
[15]. A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Roma, Armando, 2007, 80-83.