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Il tema della migrazione nella musica italiana è presente già dagli inizi del Novecento, ad esempio nelle canzoni popolari come «Nebbi’ a la valle», brano tradizionale abruzzese di inizio secolo che canta il lavoro delle raccoglitrici di olive della zona della Maiella. Questo canto viene successivamente ripreso con il titolo «Casca l’olivo» da Giovanna Marini e da Domenico Modugno, che lo porta al successo con il nome «Amara terra mia». L’argomento principale è il dolore provato nell’abbandonare la propria terra, che, nella canzone, è descritto con la stessa drammaticità del lasciare il proprio amore: Addio, addio amore, io vado via, amara terra mia, amara e bella.
In questo specifico brano si parla di una migrazione interna che, tuttavia, prevedeva sempre un distacco dalle proprie radici e dai propri affetti familiari, come testimonia anche «E cantava le canzoni» (1978) di Rino Gaetano, in cui si racconta lo spostamento dal Sud Italia al Nord: E partiva l’emigrante e portava le provviste / E due o tre pacchi di riviste / E partiva l’emigrante ritornava dal paese / Con la fotografia di Bice bella come un’attrice. Il testo, attraverso l’anafora della congiunzione «e» all’inizio di ogni verso e il ritmo percussivo, quasi una marcia forzata, rende palpabile la lunghezza del viaggio, mentre il ritornello E cantava le canzoni che sentiva sempre a lu mare, con l’ultima espressione in dialetto siciliano, ricorda la nostalgia della terra abbandonata, così come il cambio del ritmo che riprende quello delle canzoni popolari.
Canti di emigrazione
Le canzoni degli anni Settanta affrontano e testimoniano anche il fenomeno della migrazione italiana all’estero, ossia quella che obbligava ad andare oltre i confini nazionali. Questo flusso conosce tre ampie fasi: la prima dal 1861, dopo l’Unità d’Italia; la seconda dopo la Seconda guerra mondiale; e la terza negli anni Settanta.
A questo periodo di migrazione italiana appartiene «Amerigo» (1978) di Francesco Guccini, che così la presenta in «Un altro giorno è andato» di Massimo Cotto: «Mi affascinava da sempre l’idea di una canzone su Enrico, il mio prozio emigrato in America. C’è un confronto continuo tra la sua America – emarginata, di fatica, di sconfitte – e la mia, fatta di miti e immaginazioni, di viaggi di fantasia. Le immagini non si sovrappongono, ma restano distanti le une dalle altre: la sua America di lavoro e sangue, fatica uguale mattina e sera […], e la mia America provincia dolce, mondo di pace».
Guccini ricorda il parente già vecchio, del quale colpiva il cranio raso e un misterioso e strano suo apparecchio / Un cinto d’ernia che sembrava una fondina per la pistola, segni di una vita dura in miniera: E fu lavoro e sangue e fu fatica uguale mattina e sera. […] Sudore d’antracite in Pennsylvania, Arkansas, Texas, Missouri. […] Tornò come fan molti, due soldi e giovinezza ormai finita. Anche la musica cerca di sottolineare le asperità e la durezza della vita dei minatori. Il suono della chitarra, infatti, incede ritmicamente e costante come il piccone del minatore che spacca la pietra per poter sopravvivere, oppure, in altre parti, riprende alcune tecniche tipiche dei cantautori americani, che cominciavano a denunciare le condizioni di sfruttamento dei lavoratori.
La migrazione negli Stati Uniti da parte degli italiani appare anche nell’album Titanic (1982) di Francesco De Gregori, attraverso tre brani, che costituiscono una trilogia: «L’abbigliamento di un fuochista», «Titanic» e «I muscoli del capitano».
Il primo brano richiama per la struttura la lauda Il pianto della Madonna, di Jacopone da Todi, nel dialogo della Madonna con il Cristo in croce. Nella canzone di De Gregori, infatti, si racconta il doloroso dialogo tra madre e figlio, una volta che il giovane ha deciso di emigrare, imbarcandosi su una nave che salpa verso gli Stati Uniti, diventando uno dei tanti crocifissi della storia. Il cantautore romano, inoltre, prenderà spunto dal romanzo incompiuto America di Franz Kafka, in cui il protagonista Karl Rossmann si imbarca su una nave in direzione New York, stringendo amicizia con il fuochista[1].
Il dramma è espresso sin dalle prime strofe attraverso il punto di vista della madre: Figlio con quali occhi, con quali occhi ti devo vedere / Coi pantaloni consumati al sedere e queste scarpe nuove nuove. Notiamo la ripetizione del termine «occhi», che manifestano con intensità l’ansia della madre, e il verbo «dovere»: una vista forzata, quasi costretta dal dolore della consapevolezza che sarà l’ultima immagine che rimarrà impressa nella memoria di lei. Il cuore straziato della madre viene segnalato anche dai termini in antitesi «pantaloni consumati», che indicano la miseria della vita, e «scarpe nuove», espressione dell’attenzione della madre che desidera il meglio per il proprio figlio.
Il dramma prosegue con la consapevolezza della madre che il figlio, sebbene sia ancora fisicamente davanti al suo sguardo, è già proiettato verso altri luoghi: Figlio con un piede ancora in terra e l’altro già nel mare. Sembra che i poveri continuino a mantenere la loro condizione esistenziale, ovunque vadano: Ma mamma a me mi rubano la vita quando mi mettono a faticare / Per pochi dollari nelle caldaie, sotto al livello del mare. La presenza continua della consonante «m» simula quasi un balbettare le parole, forse per la paura dell’ignoto, o per un presentimento negativo verso questa nera nera nave che mi dicono che non può affondare.
Nella parte finale del brano è presente anche un accenno ai pregiudizi che si hanno verso gli stranieri: E andrai a confondere la tua faccia con la faccia dell’altra gente / E che ti sposerai probabilmente in un bordello americano / E avrai dei figli da una donna strana e che non parlano l’italiano. Il timore della madre si inasprisce, con la paura che il figlio si possa perdere, confondendosi con altra gente – ossia con un popolo che non è il proprio –, e finisca con lo sposare una donna «strana» – che indica proprio la straniera –, che ha altri usi e costumi che non vengono capiti e riconosciuti, perché differenti da quelli della propria cultura.
Anche in «Titanic» – «una lunghissima litania che racconta i primi giorni in mare di una nave che è più di una nave: un luccicante simbolo di modernità, di cieca fiducia nella tecnologia»[2] – è presente un riferimento all’emigrazione. Infatti, oltre ai turisti che viaggiano in prima classe, troviamo coloro che tentano un viaggio per sfuggire alla miseria: Ma chi l’ha detto che in terza classe, che in terza classe si viaggia male, / questa cuccetta sembra un letto a due piazze, ci si sta meglio che in ospedale. / A noi cafoni ci hanno sempre chiamati ma qui ci trattano da signori, / che quando piove si può star dentro ma col bel tempo veniamo fuori. Da un punto di vista semantico, il brano è ricco di termini appartenenti alla sfera della povertà, come «terza classe», «cafoni», che è in antitesi con «signori»; e anche il lessico appartiene a uno stile sgrammaticato, con la doppia congiunzione «che quando», tipica del linguaggio parlato e poco istruito.
La migrazione verso il Sud America viene raccontata anche dal cantautore Ivano Fossati, nella canzone, dal titolo evocativo, «Italiani d’Argentina» (1990), con uno struggente ritornello – Trasmettiamo da una casa d’Argentina / Con l’espressione radiofonica di chi sa / Che la distanza è grande / La memoria cattiva e vicina / E nessun tango mai più / Ci piacerà – che sottolinea la distanza dalla terra natia, un ricordo che provoca ancora un profondo dolore e che nessuna musica, neppure il seducente e avvolgente tango argentino, potrà sanare.
Canti di immigrazione
La canzone italiana testimonia anche le migrazioni che si sono verificate verso l’Italia, come quella albanese. Da un punto di vista storico-politico, essa ha avuto almeno tre differenti fasi: la prima a partire dal 1991 e la seconda nel 1997, causate soprattutto dal fallimento di molte società finanziarie nazionali, che provocò un periodo di povertà e miseria; la terza fase nel 1999, quando scoppiò la guerra in Kosovo, durante la quale circa 100.000 albanesi lasciarono il loro Paese[3].
Queste migrazioni sono raccontate anche dal celebre film Lamerica (1994), diretto da Gianni Amelio, ambientato proprio dopo la fine del regime in Albania di Enver Hoxha e il crollo finanziario causato dal passaggio al capitalismo.
Il cantautore Samuele Bersani, ricordando la prima fase di questa immigrazione degli albanesi, scrive il brano «Barcarola albanese» (1994). La canzone ha una struttura semplice, con un accompagnamento al pianoforte, che enfatizza le note basse che creano un moto ondulatorio, quasi un ondeggiare del mare, sottolineato anche dal suono degli archi. Il testo inizia in medias res, con il profugo già sulla nave – metaforicamente vista come una noce –, sopravvissuto alla traversata in mare, che sta per approdare sulle coste: Vado veloce sopra questa noce / Fuori pericolo / Le onde sono dei vetri, alte dei metri / Però le supero / Il sole si sposta e già si vede la costa. Le onde sono paragonate a dei vetri, per il dolore che provocano gli schizzi dell’acqua salmastra e gelida per la notte sui volti dei naviganti. E se la riva è metafora della speranza e della gioia – Saremo liberi per sempre / Potremo visitare Rimini –, la realtà infrange presto i sogni: Vieni via! Ci sono i vigili / Che delusione, non c’è televisione.
Il testo descrive il crollo delle aspettative attraverso un simbolo – non c’è la televisione – che rappresenta anche il luogo comune secondo cui si pensa che gli emigrati, vedendo alla televisione gli spot pubblicitari che esprimono la felicità e la serenità delle famiglie italiane, decidono di lasciare il proprio Paese per tentare la fortuna in Italia. Dalla gioia per l’arrivo si passa velocemente al senso di precarietà, che diviene la condizione esistenziale propria dell’emigrato che vive in un limbo, determinato dall’essere in un Paese ostile e straniero e ormai lontano dalla propria terra; l’espressione per adesso son vivo indica proprio la provvisorietà dell’esistenza, il vivere l’oggi, senza sapere ciò che accadrà domani.
La canzone si conclude con la musica, accompagnata da un vocalizzo cantilenato e il rumore di tuoni in sottofondo, che fa intuire il dramma della vicenda.
Oltre i confini
Il fenomeno migratorio, con i relativi problemi di povertà, durezza di lavoro e razzismo, non è solamente attestato nella canzone italiana, come è possibile osservare dal brano «Deportee (Plane Wreck at Los Gatos)» di uno dei primi cantastorie americani, Woody Guthrie. Egli nacque il 14 luglio 1912 ad Okemah, in Oklahoma, ed è considerato il primo vero folksinger americano, che ispirò successivamente musicisti come Bob Dylan e Bruce Springsteen, e scrittori come Kerouac. Nelle sue canzoni si descrive la vita quotidiana dei lavoratori, le lotte per i diritti, gli scioperi e la fatica per la sopravvivenza. Egli stesso dice: «Vidi le centinaia di migliaia di persone sperdute, senza soldi, affamate, senza lavoro, disperate lungo le strade, nascoste tra gli alberi e i cespugli. Sentii quella gente cantare nelle loro giungle e nei loro campi di lavoro federali e cantai canzoni che avevo fatto per loro»[4].
Il brano «Deportee» («Deportati») racconta un fatto di cronaca realmente avvenuto: il 28 gennaio del 1948 morirono in California, in un incidente aereo, 28 lavoratori messicani che stavano per essere forzatamente rimpatriati in Messico, in quanto il loro permesso di soggiorno era scaduto. Erano lavoratori stagionali, impiegati soprattutto nella raccolta della frutta, che dal Messico andavano negli Stati Uniti. La notizia della radio annunciò che erano morti «soltanto» dei deportati. Guthrie scrive il testo di questa canzone, che viene musicata, 10 anni dopo, da Martin Hoffman, e cantata per la prima volta da Pete Seeger nel 1958. Essa rimane una canzone simbolo della lotta per i diritti dei lavoratori, dei migranti, un racconto che richiama il senso di giustizia nei confronti dei poveri. È stata interpretata dalla cantante Joni Mitchell nel 1964, successivamente da Joan Baez, da Bob Dylan, da Bruce Springsteen, e anche da Edoardo Bennato.
Il testo inizia descrivendo duramente la situazione nella quale si trovano i lavoratori stagionali messicani: I raccolti sono tutti caricati e le pesche stanno marcendo / Le arance sono tutte impacchettate in ammassi di creosoto / Vi stanno riportando indietro in volo verso il confine messicano / perché voi poi spendiate tutto il vostro denaro per guadare di nuovo[5]. I lavoratori sono equiparati a merce da trasportare, anch’essi «impacchettati» per essere riportati oltre il confine messicano dai luoghi da dove sono venuti.
Il punto di vista del narratore prende in considerazione i luoghi comuni con cui sono visti i lavoratori stagionali: Alcuni di noi sono clandestini, altri indesiderati / Il nostro contratto di lavoro è terminato e dobbiamo trasferirci / Ma ci sono seicento miglia dal confine messicano / Ci danno la caccia come fuorilegge, come ladri di bestiame, come rapinatori[6]. Non è difficile osservare come questi pregiudizi accompagnino sempre lo straniero, in particolar modo se è povero e in cerca di una terra dove poter vivere. «Clandestini», «fuorilegge», «rapinatori» sono infatti i termini che quotidianamente possono esser letti e sentiti sui social media ancora in questi anni, quando si parla di migranti.
Il ritornello della canzone contrappone il punto di vista del narratore a quello della stampa: Addio Juan, addio Rosalita / Addio amici miei, Jesus e Maria / Non avrete un nome quando sarete su quel grande aeroplano / Il solo nome che vi daranno sarà deportati[7]. Se infatti alla radio viene annunciato che sono morti «soltanto» dei deportati, Guthrie li chiama per nome: Juan, Rosalita, Jesus, Maria, mostrando il valore della loro storia, contro coloro che vogliono sminuire l’accaduto. Questa dinamica di spersonalizzazione è avvenuta nella storia, nelle violenze all’interno dei campi di concentramento, nei tanti naufragi del Mar Mediterraneo, ma anche nei confronti di coloro che continuano a morire a causa del Covid-19 quotidianamente negli ospedali: il numero crea invisibilità e assuefazione, separando la persona dal valore umano.
Sensibilizzare il quotidiano
La canzone di Woody Guthrie «Deportee» è presente anche all’interno di un doppio album, intitolato Yayla. Musiche Ospitali (2018), a cura del Centro Astalli di Roma (Servizio dei gesuiti per i rifugiati) dell’etichetta discografica «Appaloosa Records» e dei «Downtown Studios» di Pavia. È un progetto musicale, conclusosi con la registrazione di un doppio album, che ha alle spalle un ampio periodo di osservazione, riflessione ed esperienze di vita sul mondo della migrazione forzata. Comprende due pilastri, due «colonne d’Ercole»: la prima, il Mar Mediterraneo, crocevia di culture e religioni, teatro di scontri e incontri di civiltà, attorno a cui è stata concepita l’Europa; la seconda è rappresentata dalla migrazione, simbolizzata dal termine «yayla», che indica, in turco, la transumanza, la migrazione stagionale dei pastori dell’Anatolia con le loro greggi verso i pascoli montani.
L’album costituisce un vero e proprio cammino musicale intrapreso da musicisti, attori, scrittori e rifugiati. È un’esperienza umana fondata sull’incontro culturale, attraversando il confine della diffidenza, che si svela in una musica che si perde tra geografie infinite. L’uomo resta migrante: migrare è nella sua natura, sia quando il viaggio è scelta e scoperta, sia quando il dolore e l’esilio lacerano l’anima. Tra i numerosi artisti, hanno partecipato al progetto musicale Edoardo Bennato, Antonella Ruggiero, Saba Anglana, Neri Marcorè, Erri De Luca, Valerio Mastandrea, che hanno cantato e recitato, a volte suonando insieme a musicisti rifugiati.
La canzone «Deportee» è cantata dall’italo-canadese Sara Jane Ceccarelli, in duetto con Paul-Jones Kokou, originario del Togo, che ha tradotto in francese parte del testo, mostrando come i temi che vengono affrontati siano ancora attuali e i diritti dei lavoratori stagionali siano ancora lontani dall’essere acquisiti in maniera dignitosa.
Nell’album sono presenti anche alcuni racconti di rifugiati sul proprio percorso prima di giungere in Italia, interpretati da attori come Donatella Finocchiaro, che viene accompagnata dal suono della chitarra di Isaac De Martin e del violino di Alaa Arsheed, musicista siriano, di Suwayda, fuggito in Libano nel 2011, a causa della guerra, e poi giunto in Italia. Interessante è anche il brano «Itaca o Milano», un incontro sonoro tra il violino siriano di Alaa Arshed e quello di Michele Gazich, autore del brano e che nella sua musica conserva tracce di molteplici culture, da Istanbul a Zara, da Saint Louis a Venezia, luoghi di approdo della sua famiglia.
Jono Manson, cantautore e produttore americano, traduce in inglese «L’isola che non c’è», di Edoardo Bennato, con il titolo «Never Never Land», evocativo e celebre brano che mette in tensione il sogno e la realtà, il desiderio e la speranza, alla ricerca di un mondo nel quale esista più giustizia e solidarietà: Niente odio né violenza, né soldati né armi / Forse è proprio l’isola che non c’è, che non c’è. Il brano è simbolico anche da un punto di vista dei luoghi geografici che riesce a toccare: la canzone infatti è stata registrata negli studi di New York, da parte di Jono Manson; un’altra parte in Pakistan da Saif Samejo, musicista e cantante del gruppo folk sufi pakistano The Sketches, mentre Edoardo Bennato, autore della celebre canzone, ha inciso nuovamente alcune strofe a Napoli.
Con occhi diversi
Il processo di migrazione verso l’Italia di profughi provenienti dall’ampio bacino del Mediterraneo ha provocato nei cantanti una dinamica di riflessione che li ha portati non solo a descrivere i drammi che essi hanno vissuto, ma anche a immedesimarvisi, provando a sperimentare i sentimenti che hanno vissuto nel momento di fuga dalla loro terra. La canzone «Stiamo tutti bene» di Mirkoeilcane, presentata al Festival di Sanremo nel 2018, mostra il punto di vista di un bambino di sette anni e mezzo per la precisione, sottratto all’ultima partita di calcio: Scarto, driblo, tiro in porta / Ed il portiere non può farci niente, che ricorda l’altro ragazzino, Nino, protagonista della canzone «La leva calcistica della classe ’68» di Francesco De Gregori, che prese un pallone che sembrava stregato, / accanto al piede rimaneva incollato, / entrò nell’area, tirò senza guardare / ed il portiere lo fece passare.
E così Mario, il bambino del brano «Stiamo tutti bene», deve lasciare improvvisamente il campo da calcio, simbolo del gioco, ossia di quell’esperienza fondamentale per i bambini, per imbarcarsi su un gommone: Seduti in mezzo metro di spazio / E come me e gli altri duecento / Tutti intenti a pregare / Ed io vorrei soltanto alzarmi e palleggiare. Il drammatico viaggio è visto con gli occhi di un bambino e, durante l’ascolto, è inevitabile che ci si chieda quanto si stia portando via dell’infanzia dei bambini, della loro crescita e della loro serenità: come diventeranno adulti, dopo che la loro infanzia è stata strappata e ferita?
Un punto di vista più adulto è presente nel brano «Rock» (2006) di Gianmaria Testa: Qui c’è uno che grida / e si deve partire / e mio padre non c’è / è rimasto da solo a masticare la strada / perchè dice che tanto / sarà guerra comunque / e dovunque si vada / l’ho lasciato alla porta di casa. Il cantautore piemontese si fa interprete del distacco – allo stesso modo, da parte italiana, della canzone già citata «L’abbigliamento di un fuochista» –, dello sradicamento degli affetti: l’ultimo saluto di un figlio che non potrà più rivedere né la propria terra né il proprio padre. La «porta di casa» diviene il limite che, una volta oltrepassato, porterà verso l’ignoto, senza sicurezze e certezze. Ed è proprio una casa, un lavoro, una terra, una famiglia che i migranti cercano, provando il viaggio dell’ultima speranza che li tiene ancora in vita.
Musica migrante
Non esiste solo una musica che è riflessione e narrazione delle migrazioni: attualmente, infatti, si possono ascoltare musicisti migranti che compongono musiche che testimoniano l’intreccio di differenti culture.
Negli ultimi anni il processo migratorio ha riformulato l’idea di musica anche in Italia, provocando – con un processo, per certi aspetti, simile al blues, al gospel negli Stati Uniti dopo la deportazione degli schiavi africani – contaminazioni, commistioni che hanno generato sonorità differenti, mantenendo un’impronta nazionale, ma con dei colori che derivano proprio dal bacino mediterraneo e dall’Africa.
Espressione di questo nuovo stile musicale è, ad esempio, l’Orchestra di Piazza Vittorio. Nelle pagine del loro sito web si legge: «L’Orchestra di Piazza Vittorio è nata nel 2002 sulla spinta di artisti, intellettuali e operatori culturali con la volontà di valorizzare l’omonima Piazza dell’Esquilino di Roma, per antonomasia il rione multietnico della città». Come si può osservare dai programmi presentati, essi partono da una classicità – come, ad esempio, opere quali la «Carmen», «Il flauto magico», il «Don Giovanni» – che viene rivisitata in chiave etnica, con percussioni africane e indiane, oud, kora, oltre agli strumenti della tradizione classica e ritmiche che appartengono a tutto il bacino del Mediterraneo.
Esistono, inoltre, espressioni più individuali e pop, come quella del giovane Chris Obehi, fuggito dalla Nigeria, il quale, dopo un viaggio durato cinque mesi, passando per le prigioni della Libia, è riuscito ad approdare con un barcone a Lampedusa. Il suo disco d’esordio si intitola «Obhei», che in lingua esan significa «mano d’angelo», e comprende, oltre a composizioni proprie in inglese e in italiano, un’interpretazione del brano in dialetto siciliano «Cu ti lu dissi», omaggio alla cantante Rosa Balistreri. Con il brano «Non siamo pesci» egli si è aggiudicato la «Targa SIAE Giovane Autore» a «Musica contro le mafie». È un brano che racconta stralci di vita e di sentimenti propri di chi decide di partire: Quel giorno ero uscito da casa e speravo di tornare presto / a volte la vita non può essere prevista. / Ho sentito un gemito nell’oscurità / e tutto quello che ho visto era un bambino in fondo al mare / costretto a vivere da pesce.
Conclusione
Come si è potuto osservare da questo percorso musicale, la canzone è diventata costante portavoce della fatica e del dolore di chi è stato costretto, a causa della povertà, della guerra, della mancanza di diritti, a intraprendere dei viaggi in cerca di una possibile vita migliore.
La canzone, inoltre, ha sempre denunciato, narrato e interpretato i fenomeni migratori, sia quando essi erano fenomeni di spostamenti interni, sia quando si trasformavano in movimenti di emigrazione e di immigrazione. Ha raccontato, infine, storie individuali che potessero divenire simbolo di un valore universale, di rispetto e di accoglienza, facendo eco alle parole di papa Francesco, il quale, durante la Messa per il sesto anniversario della sua visita a Lampedusa, ha affermato: «Sono persone, non si tratta solo di questioni sociali o migratorie!»[8].
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Riproduzione riservata
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MIGRANT SONGS
The broad theme of inward and outward migration has been widely documented in Italian songs since the late nineteenth century. In fact, some famous folk songs have narrated the movement of peasants in search of agricultural work outside their regional borders, while the songwriting of the eighties has been able to tell the story about Italian emigration to the Americas. In more recent years, the songs have focused on the story of the many refugees’ journeys across the Mediterranean, who are still trying to escape poverty and war in their countries of origin.
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[1]. Cfr F. De Gregori, I testi. La storia delle canzoni, Firenze, Giunti, 2020, 229.
[2]. Ivi, 233.
[3]. Cfr O. Mehillaj, «Cenni sulla storia dell’immigrazione albanese in Italia», in www.adir.unifi.it/rivista/2010/mehillaj/cap1.htm
[4]. W. Guthrie, Questa terra è la mia terra, Milano, Marcos y Marcos, 1997, 10.
[5]. The crops are all in and the peaches are rotting / The oranges are packed in the creosote dumps / They’re flying you back to the Mexico border / To pay all your money to wade back again.
[6]. Some of us are illegal, and others not wanted / Our work contract’s out and we have to move on / Six hundred miles to that Mexican border / They chase us like outlaws, like rustlers, like thieves.
[7]. Goodbye to my Juan, goodbye Rosalita / Adios mis amigos, Jesus y Maria / You won’t have your names when you ride the big airplane / All they will call you will be «deportees».
[8]. Francesco, Omelia della Messa per il sesto anniversario della sua visita a Lampedusa, in www.vatican.va