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Al cuore dell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate (GE) ci sono le Beatitudini, un vero «programma della santità»[1]. È interessante notare come Francesco, per parlare della santità, usi la parola «protocollo», che indica una procedura, un insieme di passi da compiere che richiamano all’azione. Francesco rilegge in questa chiave pratica la vita dei santi e dice, a suggello del capitolo sulle Beatitudini: «La forza della testimonianza dei santi sta nel vivere le Beatitudini e la regola di comportamento[2] del giudizio finale [in Matteo 25]. Sono poche parole, semplici, ma pratiche e valide per tutti, perché il cristianesimo è fatto soprattutto per essere praticato, e se è anche oggetto di riflessione, ciò ha valore solo quando ci aiuta a vivere il Vangelo nella vita quotidiana» (GE 109). In particolare, possiamo stilare un «protocollo» che comprende quattro aiuti nel combattimento spirituale.
Il primo aiuto è la certezza della vittoria nella battaglia spirituale. L’atteggiamento che deve caratterizzare la vita cristiana è questa certezza, che poi si dispiega nel fare festa. Avvertiamo l’importanza che il Papa dà al «fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita» (GE 158). Possiamo farlo, egli dice, perché «Gesù stesso festeggia le nostre vittorie» (GE 159).
Il secondo aiuto è un invito a pensare bene, per non cadere nei tranelli della ragione pragmatica: «Non ostinarci a guardare la vita solo con criteri empirici». Al momento di combattere il male, non bisogna pensare che il Maligno sia soltanto un mito, una rappresentazione, un simbolo o un’idea, perché questo ci porta ad «abbassare la guardia», e lui ne approfitta per distruggere. La concezione del Signore è esplicita, perché nel «Padre nostro» ci insegna a chiedere al Padre: «Liberaci dal Maligno».
Il terzo aiuto mira a ordinare i sogni e i desideri, incentrandoli sulla bellezza della dedizione: «Nessuno resiste […] se smette di sognare di offrire al Signore una dedizione più bella» (GE 163). Questo atteggiamento risponde al desiderio del Signore, che «ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente» (GE 1).
Il quarto aiuto propone un criterio di verifica della missione. Il Papa utilizza la massima gesuitica che dice: Non coerceri a maximo, contineri tamen a minimo, divinum est[3]. La propone come criterio per fare ogni giorno un esame di coscienza sul nostro apostolato, prendendo spunto in particolare dal nostro atteggiamento nei confronti del grande e del piccolo. «Si tratta di non avere limiti per la grandezza, per il meglio e il più bello, ma nello stesso tempo di concentrarsi sul piccolo, sull’impegno di oggi» (GE 169). L’atteggiamento del Signore che possiamo evidenziare in questo senso è quello di un «Gesù [che] apre una breccia che permette di distinguere due volti, quello del Padre [sempre più grande] e quello del fratello [specie del più piccolo]» (GE 61; cfr 144).
La parola «protocollo»
Ora facciamo una breve riflessione sul termine «protocollo»[4]. È un termine polisemico che, a seconda del contesto, può significare qualcosa di meramente formale, come le regole di comportamento in una cerimonia, o qualcosa che ha importanza vitale, come le procedure da seguire nel caso della cattura di ostaggi o nel corso di una catastrofe, dove sono richiesti coordinamento, rapidità e precisione per salvare il maggior numero possibile di vite.
In un contesto drammatico in cui le normali possibilità di risposte appaiono superate, un protocollo espone regole precise che, in vista del chiaro obiettivo principale, favoriscono la presa di decisioni libere, volte non a ostacolare, ma a potenziare l’azione di squadra. Spesso il Papa ha definito la Chiesa come un «ospedale da campo»[5]. E i protocolli sono tipici dei trattamenti medici. Comprendiamo, dunque, perché l’uso di questo termine non suoni strano, ma tutto il contrario. Il Papa lo ha utilizzato nell’incontro con i giovani argentini a Rio de Janeiro, nel 2013: «Che cosa dobbiamo fare, padre? Guarda, leggi le Beatitudini che ti faranno bene. Se vuoi sapere che cosa devi fare concretamente, leggi Matteo capitolo 25, che è il protocollo con il quale verremo giudicati. Con queste due cose avete il piano d’azione: le Beatitudini e Matteo 25. Non avete bisogno di leggere altro»[6].
Il Pontefice aveva già usato il termine un mese prima, in un’omelia a Santa Marta. Ma in quel caso l’aveva fatto per mostrare che non possiamo racchiudere l’azione di Dio in un protocollo[7]. Dopo l’incontro di Rio, Francesco si è servito di questo termine ogni volta che ha fatto riferimento al giudizio finale. A nostro parere, ciò equivale a dire: l’unica cosa per cui valga la pena specificare dei protocolli è la misericordia. Questa, in quanto inesauribilmente creativa, evita qualsiasi rischio che il protocollo diventi meramente formale; al contrario, nel concretizzarlo, gli dà dinamismo.
Il «protocollo del giudizio finale»[8] con il quale verremo giudicati è un protocollo speciale: «La misericordia è al cuore del “protocollo” su cui Gesù dice che saremo giudicati»[9]. In Gaudete et exsultate il Papa lo definisce come «il grande protocollo», «la grande regola di comportamento» (GE 95). È significativo che il termine «protocollo» risuoni alle nostre orecchie sine glossa, spingendoci ad attuare concretamente il Vangelo.
Fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita
«Fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita» è la consegna in cui risuona, come in un canto di vittoria, lo spirito del protocollo della buona battaglia spirituale. C’è una domanda pertinente da formulare: fare festa quando il Signore vince «in che cosa»? E la risposta è: in ogni passo avanti che noi, suoi discepoli, facciamo nell’annuncio del Vangelo. Egli stesso festeggia le nostre vittorie quando, resistendo alle tentazioni e alle opposizioni del Maligno, facciamo progressi nell’annuncio del Vangelo.
La «gioia della festa» dà il tono ultimo al combattimento; l’«ogni volta» gli dà un ritmo quotidiano; e l’«annuncio del Vangelo» è il contenuto fondamentale che permette di festeggiare nel corso della storia, anche se noi non abbiamo ancora raggiunto la vittoria definitiva. L’unione di questi elementi fa sì che la lotta cristiana sia «molto bella», come dice il Papa.
In quanto passo da compiere seguendo un protocollo di combattimento spirituale in ordine alla santità, questo passo primo e definitivo («ogni volta») è chiaramente apostolico, e coinvolge tutto l’uomo e tutti gli uomini[10]. Non si tratta soltanto di gioire per il proprio successo; ci è dato invece di rallegrarci ogni volta che il Signore vince nella vita degli altri: «L’amore fraterno moltiplica la nostra capacità di gioia, poiché ci rende capaci di gioire del bene degli altri: “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia” (Rm 12,15). “Ci rallegriamo quando noi siamo deboli e voi siete forti” (2 Cor 13,9). Invece, se “ci concentriamo soprattutto sulle nostre necessità, ci condanniamo a vivere con poca gioia” (AL 110)» (GE 128).
E poiché il Vangelo viene annunciato più con le opere che con le parole, e può annunciarlo anche chi «non lo segue insieme con noi» (Lc 9,49), in queste vittorie di Gesù le persone che gli danno gioia e fanno sì che «esulti di gioia nello Spirito Santo» (Lc 10,21) appartengono a tutti i popoli, culture e religioni.
Questo combattimento non ha una bellezza che si possa contemplare «dal di fuori», restandone spettatori. Avviene, in questo caso, qualcosa di simile a ciò che accade tra i giocatori che hanno segnato un punto o ne hanno evitato uno dell’avversario: si scambiano reciprocamente congratulazioni e rallegramenti. Lo spettatore non coglie appieno queste continue felicitazioni, mentre i protagonisti sì. Per loro, esse fanno parte integrante della lotta: festeggiare ogni punto li lega come squadra, rende tutti partecipi di ciò che ha fatto uno di loro, fissa un risultato positivo – anticipazione del trionfo sperato – come qualcosa di bello da cui partire in vista del punto successivo e, cosa di non minor conto nella battaglia, fa presagire la sconfitta all’avversario.
Questo è importante, perché la tentazione principale che ci insinua il Maligno è quella dello «spirito di sconfitta». È la tentazione principale, perché «“chi comincia senza fiducia ha perso in anticipo metà della battaglia e sotterra i propri talenti. […] Il trionfo cristiano è sempre una croce, ma una croce che al tempo stesso è vessillo di vittoria, che si porta con una tenerezza combattiva contro gli assalti del male” (EG 85)» (GE 163).
Negli Esercizi spirituali che predicò ai gesuiti nel 1978, Bergoglio definiva questo spirito di sconfitta con una connotazione nuova: in esso vedeva una forma speciale di vanagloria o di mondanità spirituale. «Tra noi [gesuiti] – affermava Bergoglio –, per quanto possa sembrare paradossale, la vanagloria più ricorrente è il disfattismo. Ed è vanagloria, perché preferiamo essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che soldati semplici di un battaglione che, per quanto decimato, continua a combattere. Quante volte vagheggiamo piani espansionistici tipici di generali sconfitti! In quei casi, singolarmente, rinneghiamo la nostra storia di gesuiti che è gloriosa, perché è storia di sacrifici, di speranze, di lotta quotidiana»[11].
È il nemico a seminare il disfattismo: «A fronte di una fede combattiva per definizione, il Nemico, mascherato da angelo di luce, seminerà il seme del pessimismo. Nessuno può intraprendere una battaglia se anzitutto non ha piena fiducia nella vittoria. Chi si getta in battaglia senza fiducia ha già perso per metà prima di cominciare. Il trionfo cristiano è sempre una croce, ma una croce che è stendardo vittorioso. È tra gli umili che impareremo e faremo nostra questa fede combattiva. […] Lo spirito disfattista ci tenta per farci imbarcare nelle cause perse. È privo della combattiva tenerezza che appare nella serietà di un bambino che si fa il segno della croce e nella profondità di una vecchietta che recita le sue preghiere: ecco la fede, ecco il vaccino contro lo spirito di sconfitta (1 Gv 4,4; 5,4-5)»[12].
Fare festa per ogni vittoria del Vangelo – per ogni volta che la Parola si incarna nella storia concreta degli uomini – mette in atto il principio secondo cui «l’unità [la vittoria] è superiore al conflitto» (GE 88).
Non ostinarsi a guardare la vita solo con criteri empirici
Il secondo aiuto consiste in un semplice invito a pensare bene: «Non ostinarsi a guardare la vita solo con criteri empirici e senza una prospettiva soprannaturale». Con un uso discreto del «no»[13], che evita quei confronti e discussioni astratte in cui restano impantanati i discorsi sul male, papa Francesco fa spazio al discernimento come modo adeguato di pensare e combattere il Maligno concretamente: «Il discernimento non richiede solo una buona capacità di ragionare e di senso comune, è anche un dono che bisogna chiedere» (GE 166). In questo senso si può intendere la domanda che il Signore ci fa rivolgere nel «Padre nostro»: «Liberaci dal Maligno», come un aiuto che non viene dall’«esterno», per così dire, ma dal nostro interno. Ogni volta che chiediamo al Padre: «Liberaci dal Maligno», gli chiediamo: «Insegnaci a discernerlo», a riconoscerlo, interpretarlo, respingerlo e vincerlo (cfr GE 173).
Il problema reale della forza distruttiva del male supera i nostri criteri empirici e ci s’impone con crudezza. Quando la nostra ragione cerca di riflettere sul male, può subito sperimentare non soltanto che in esso c’è qualcosa che respinge la luce dell’intelligenza quando essa cerca di «leggere dentro», ma anche, in qualche modo, riesce a colpire quella stessa luce, che non esce indenne dopo essere stata respinta.
Si può cogliere profondamente, intus legere, soltanto ciò che è amabile e si ama. L’amore è l’elemento vitale della conoscenza profonda. E poiché non si può amare il male, questo è inconoscibile nella sua essenza. Il male è una di quelle realtà che «vanno pensate soltanto quanto basta a prendere la direzione opposta, per respingerle senza entrare in dialogo»[14]. Per questo il Papa suggerisce di utilizzare i criteri della Sacra Scrittura, nella quale il Maligno è presente dalla prima pagina della Genesi fino all’ultima dell’Apocalisse, e incentra la nostra fede – criterio soprannaturale – sull’insegnamento di Gesù, che ci fa chiedere al Padre di liberarci dal Maligno. Non soltanto dal male in generale o in maniera astratta, ma dal Maligno, espressione che «indica un essere personale che ci tormenta» (GE 160). Questa convinzione di fede, basata sul Vangelo, «ci permette di capire perché a volte il male ha tanta forza distruttiva» (ivi).
La forza distruttiva del Maligno opera in primo luogo contro l’annuncio del Vangelo, e perciò si indirizza in modo particolare contro il nostro modo di pensare, cercando – con i suoi inganni, le sue menzogne e le sue fallacie – di non farci ragionare bene, di non farci discernere. Per questo «il nostro discorso sul “mistero di Satana” deve modellarsi per intero ed esclusivamente sulle fonti della rivelazione»[15], come diceva p. Fiorito, riprendendo l’affermazione di Romano Guardini: «Chi sia Satana lo dice in modo competente solo la Rivelazione»[16].
Facciamo notare ciò, per attirare l’attenzione sulle citazioni bibliche che il Papa sceglie per parlare del Maligno. La prima, quella di Lc 10,18, offre la chiave fondamentale per il combattimento, perché la gioia del Signore è la nostra forza. Senza nulla togliere ad altri punti di vista, il Papa esorta tutti a uscire ad annunciare con gioia il Vangelo. Uscire di nuovo a seminare è oggi la sfida principale della Chiesa e focalizza la tentazione principale del demonio come «opposizione a questo annuncio gioioso del Vangelo» e a questa gioia della santità. Di qui l’importanza del passo di Luca in cui il Signore scorge la disfatta del Maligno – «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore» – per mano dei 72 discepoli, che tornano gioiosi dopo la prima uscita evangelizzatrice. Il Signore gioisce e benedice il Padre, che rivela le sue cose ai piccoli.
Non ostinarsi a usare solo criteri empirici mette in atto il principio secondo cui la realtà è superiore all’idea come concetto astratto, che tenta di definire la realtà per possederla e manipolarla. Il discernimento, invece, è un modo di pensare e di decidere che si mette al servizio della realtà, cercando di trovare la via migliore per ricevere e praticare il bene e per respingere il male. Il discernimento è «uno strumento di lotta per seguire meglio il Signore» (GE 169).
Non smettere di sognare di offrire al Signore una dedizione più bella
Il terzo aiuto viene formulato così: «Non smettere di sognare di offrire al Signore una dedizione più bella». Incentra i sogni e i desideri sulla nostra dedizione, di cui possiamo essere protagonisti e di cui è sempre possibile sperimentare la bellezza. Si tratta di sognare di offrire, non di sognare di possedere.
Parlare di protagonismo è parlare di combattimento (agōn[17]), una battaglia che si svolge nello scenario interiore del cuore umano e in cui vince chi ha «l’ultima parola», quella che fa inclinare la bilancia da un lato e ci porta all’azione, facendoci mettere in pratica ciò che abbiamo giudicato essere davvero la cosa migliore[18]. Non riconoscere e/o non interpretare bene questa «ultima parola» – che è sogno e desiderio – ci induce a scegliere seguendo la voce di qualche passione che impone il proprio bene particolare alla ragione, o direttamente la voce del Maligno, che è padre della menzogna.
Essere protagonisti implica discernere la propria missione[19]. È un invito che il Papa rivolge a tutti, ma in maniera particolare ai giovani. Egli li incoraggia sempre a essere protagonisti, a non restare semplici spettatori, a non stare alla finestra della vita, a non impoltronirsi. Contro chi vuole rincantucciarli in una vita senza speranza, di meri consumatori, il Papa li spinge a rischiare, a costo di sbagliarsi.
Qui può venirci in aiuto la considerazione di una difficoltà che i giovani esprimono: quella di «comprendere il termine discernimento, che non rientra nel loro linguaggio, anche se il bisogno a cui esso si riferisce è sentito»[20]. Nell’Instrumentum laboris (IL) del Sinodo dei Vescovi sui giovani viene citata significativamente la testimonianza di un giovane, il quale afferma: «Oggi, come migliaia di altri giovani, credenti o non credenti, devo fare delle scelte, soprattutto per quanto riguarda il mio orientamento professionale. Tuttavia, sono indeciso, perso e preoccupato. […] Mi trovo ora come di fronte a un muro, quello di dare senso profondo alla mia vita. Penso di aver bisogno di discernimento di fronte a questo vuoto» (IL 106).
Tra l’imperativo «devo fare delle scelte» e l’intuizione che il discernimento è il modo corretto per affrontare ciò che viene vissuto come un «muro» e come un «vuoto», i giovani sentono la difficoltà di fare propria una parola che non rientra nel loro linguaggio. Questa difficoltà, espressa così ingenuamente, è già di per sé un apporto dei giovani. Infatti, le reazioni più forti contro il discernimento provengono da persone che credono di sapere perfettamente di che cosa si tratta e ritengono che non ci sia tanta necessità di discernere. Inoltre, alcuni giungono ad affermare che si tratta di una sorta di affronto alla chiarezza delle formule dottrinali e morali.
Nell’incontro pre-sinodale, rispondendo alla domanda che faceva riferimento a tali cose che inquietano e che fanno sentire un vuoto, il Papa ha affermato: «Tutti noi abbiamo bisogno del discernimento. Per questo nel titolo del Sinodo c’è questa parola, non è così? E quando c’è questo vuoto, questa inquietudine, bisogna discernere»[21].
Al centro del capitolo sul combattimento spirituale il Papa pone la domanda chiave: «Come sapere se una cosa viene dallo Spirito Santo o se deriva dallo spirito del mondo o dallo spirito del diavolo?». E risponde: «L’unico modo è il discernimento» (GE 166), che è un dono e va chiesto allo Spirito Santo. Nel discernimento rinnovato della dedizione di sé diventa realtà il principio che afferma che il tempo è superiore allo spazio.
Non spaventarsi delle cose grandi, ma concentrarsi su quelle piccole
Il quarto aiuto offre un criterio per verificare la missione, focalizzandoci sulla tensione tra il grande e il piccolo. La massima gesuitica Non coerceri a maximo, contineri tamen a minimo, divinum est ha molte traduzioni e spiegazioni, come dicevamo all’inizio. Il Papa qui sceglie quella che dice: «Non spaventarsi delle cose grandi, ma nello stesso tempo concentrarsi su quelle piccole» (cfr GE 169). E la sviluppa, invitandoci a esaminare se non abbiamo messo limiti per la grandezza, per il meglio e il più bello, e nello stesso tempo se ci siamo concentrati sul piccolo, sull’impegno di oggi. Questo discernimento aiuta a far sì che i sogni, di cui parlavamo prima, trovino «i mezzi concreti che il Signore predispone nel suo misterioso piano di amore, perché non ci fermiamo solo alle buone intenzioni» (ivi).
Il Papa propone a tutti, ma specialmente ai giovani, questo esame puntuale, fatto con fedeltà ogni giorno: «Tutti, ma specialmente i giovani, sono esposti a uno zapping costante. È possibile navigare su due o tre schermi simultaneamente e interagire nello stesso tempo in diversi scenari virtuali. Senza la sapienza del discernimento possiamo trasformarci facilmente in burattini alla mercé delle tendenze del momento» (GE 167).
In una delle sue lezioni, Bergoglio collegava questa immagine del burattino a un’altra altrettanto suggestiva, quella dell’aquilone. Ammoniva riguardo a due tentazioni: quella di fare abortire i grandi desideri della gioventù «trasformandoci in una specie di aquilone senza cielo» o, al contrario, di non tradurre i sogni nella «piccola bottega della fedeltà quotidiana [che] si trasforma in una vistosa scenografia affollata di sagome e marionette», facendo di noi «un aquilone al quale il cielo abbonda, ma gli manca il filo: inevitabilmente si perde nell’oscurità dello sforzo sprecato»[22].
La parabola della donna che va al mercato
Concludiamo con l’«esempio della signora che va al mercato». Se esso viene letto in chiave moralistica, i passi compiuti dalla donna possono apparire banali; ma se lo leggiamo tenendo presente il protocollo del buon combattimento spirituale, questo aiuta a fissarlo nella memoria. Racconta Francesco: «Per esempio: una signora va al mercato a fare la spesa, incontra una vicina e inizia a parlare, e vengono le critiche. Ma questa donna dice dentro di sé: “No, non parlerò male di nessuno”. Questo è un passo verso la santità. Poi, a casa, suo figlio le chiede di parlare delle sue fantasie e, anche se è stanca, si siede accanto a lui e ascolta con pazienza e affetto. Ecco un’altra offerta che santifica. Quindi sperimenta un momento di angoscia, ma ricorda l’amore della Vergine Maria, prende il rosario e prega con fede. Questa è un’altra via di santità. Poi esce per strada, incontra un povero e si ferma a conversare con lui con affetto. Anche questo è un passo avanti» (GE 16).
Leggendo questo esempio semplice, possiamo esercitarci a «festeggiare» le vittorie del Signore in ciascuno di questi incontri della donna. Sono quattro piccole vittorie nella vita di una cristiana che fa parte della legione dei «santi della porta accanto». Quattro passi avanti, quattro uscite da sé, nelle quali, grazie all’ascolto – al suo saper ascoltare il figlio con pazienza e affetto e al suo sentirsi ascoltata dalla Vergine nella sua angoscia –, questa donna passa dal resistere alla maldicenza al coltivare la conversazione spirituale.
In questo esempio notiamo, accanto alla gioia non detta ma presente in ogni passaggio, il ricorso alla Parola per resistere alla tentazione («Non dite male gli uni degli altri», Gc 4,11), l’«offerta che santifica» e l’attenzione al particolare di stare a conversare con affetto con il povero. La preghiera fiduciosa alla Vergine collega l’esempio con l’immagine finale dell’Esortazione, l’icona della Madonna dell’ascolto: «La Madre non ha bisogno di tante parole, non le serve che ci sforziamo troppo per spiegarle quello che ci succede. Basta sussurrare ancora e ancora: “Ave o Maria…”» (GE 176). L’intero esempio tratta dell’ascolto, che è il primo passo del discernimento e, pertanto, della santità. «Occorre ricordare che il discernimento orante richiede di partire da una disposizione ad ascoltare: il Signore, gli altri, la realtà stessa che sempre ci interpella in nuovi modi» (GE 172).
Promuovere il desiderio della santità (cfr GE 177) implica «far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità» (GE 2), nella consapevolezza che nessuna chiamata risuona bene se non c’è un orecchio disposto ad ascoltare, né c’è orecchio che ascolti bene se non risuona nel suo gioioso splendore – senza interferenze – la chiamata di Gesù Cristo. Il «protocollo» ci aiuta a lottare bene contro questi ostacoli all’annuncio del Vangelo.
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A “PROTOCOL” FOR THE GOOD SPIRITUAL BATTLE. Chapter V of “Gaudete et Exsultate”
At the heart of the apostolic exhortation of Gaudete et exsultate (GE) are the Beatitudes and Matthew 25, a true program of “holiness.” The pope has often defined the Church as a “field hospital” and, as can happen in hospitals, he has drawn up a “protocol” to act in mercy, which includes four aids for this spiritual combat: the first comes from the certainty of victory, because it is always Gods battle, not ours; the second is to think without falling into the trap of pragmatic reason; the third is an invitation to always organize dreams and desires, considering the beauty of one’s own dedication. The fourth comes from the Jesuit maxim: Non coerceri a maximo, contineri tamen a minimo, divinum est.
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[1]. Cfr D. Fares – M. Irigoy, Il programma della felicità. Ripensare le Beatitudini con Papa Francesco, Milano, Àncora, 2016. Per un’introduzione generale a GE, cfr A. Spadaro, «“Gaudete et exsultate”. Radici, struttura e significato della Esortazione apostolica di papa Francesco», in Civ. Catt. 2018 II 107-123.
[2]. La parola «protocollo» diventa «regola di comportamento» nel testo italiano.
[3]. Cfr J. M. Bergoglio, Nel cuore di ogni padre. Alle radici della mia spiritualità, Milano, Rizzoli, 2014, 29. P. Miguel Ángel Fiorito – maestro spirituale di Bergoglio, che nel Boletín de Espiritualidad, in cui venne pubblicata per la prima volta questa riflessione di Bergoglio, aveva aggiunto un proprio commento in nota – affermava che la massima «si potrebbe tradurre così: “non essere costretto da ciò ch’è più grande, essere contenuto in ciò ch’è più piccolo, questo è divino!”. Per molto tempo è stata diffusa la convinzione che questo motto fosse stato inciso sulla lapide del sepolcro di sant’Ignazio a Roma, perché se ne parlava come del suo elogio funebre; poi si è scoperto che faceva parte di un elogio barocco scritto per celebrare, nel 1650, il primo centenario della Compagnia di Gesù. Potremmo tradurlo anche così: senza indietreggiare davanti a quel che è più elevato, piegarsi a raccogliere ciò che è apparentemente piccolo al servizio di Dio; oppure: tendendo a ciò che è più lontano, preoccuparsi di ciò che è più vicino. Questo motto viene applicato alla disciplina religiosa (cfr M. A. Fiorito, “La opción personal de S. Ignacio”, in Ciencia y Fe 12 [1956] 43 s) ed è utile anche per caratterizzare dialetticamente (nel senso adottato da Gaston Fessard) la spiritualità ignaziana (cfr M. A. Fiorito, “Teoría y práctica de G. Fessard”, in Ciencia y Fe 13 [1957] 350 s)» (ivi, 282).
[4]. Il termine proviene dal greco prōtos, cioè «primo», e kolla, «colla». Così veniva chiamato il primo foglio di un rotolo di papiro costituito dalla giustapposizione, per mezzo della colla, di più fogli.
[5]. La prima volta che il Papa ha usato questa espressione è in A. Spadaro, «Intervista a Papa Francesco», in Civ. Catt. 2013 III 449-477.
[6]. Francesco, Incontro con i giovani argentini nella cattedrale di San Sebastián, Rio de Janeiro, 25 luglio 2013. Cfr D. Fares – M. Irigoy, Il programma della felicità…, cit.
[7]. «“Quando il Signore viene, non sempre lo fa nella stessa maniera. Non esiste un protocollo d’azione di Dio nella nostra vita”, “non esiste”. Una volta “lo fa in una maniera, un’altra volta lo fa in un’altra maniera”, ma sempre lo fa» (Francesco, Omelia a Santa Marta, 28 giugno 2013).
[8] . Ivi, 9 giugno 2014; cfr Id., Udienza generale, 6 agosto 2014; Id., Incontro con la società civile, Quito, 7 luglio 2015.
[9] . Id., Discorso ai vincitori del Premio Ratzinger 2016, 26 novembre 2016.
[10]. Cfr Paolo VI, s., Populorum Progressio, n. 14.
[11]. J. M. Bergoglio, Nel cuore di ogni padre…, cit., 112 s.
[12]. Ivi, 129.
[13]. «Non si tratta solamente di un combattimento contro il mondo e la mentalità mondana […]. Nemmeno si riduce a una lotta contro la propria fragilità […]. È anche una lotta costante contro il diavolo, che è il principe del male» (GE 159). «Non ammetteremo l’esistenza del diavolo se ci ostiniamo a guardare la vita solo con criteri empirici» (GE 160). «Questo non deve portarci a semplificare troppo la realtà…» (ivi).
[14]. Anonymous, Meditations on the Tarot: A Journey into Christian Hermeticism (1980), New York, Penguin Group, ebook Kindle, pos. 8408-8412.
[15]. Infatti «a volte parrebbe che una delle malvagità di Satana – che cerca “chi divorare” (1 Pt 5,8) – sia quella di avvolgere in una nube la maggior parte delle verità teologiche su di sé» (M. A. Fiorito, Buscar y hallar la voluntad de Dios, Buenos Aires, Paulinas, 2000, 282 s).
[16]. R. Guardini, Il potere. Tentativo di orientamento, Brescia, Morcelliana, 1963, 20.
[17]. Il termine agōn in greco antico significa «contesa», «sfida», «disputa». Si tratta di un dibattito formale che avviene tra due personaggi, mentre di solito il coro fa da giudice. Il prōtos agōnistēs, «protagonista», è il primo a parlare; il deuteros agōnistēs parla per secondo. Il personaggio che parla per secondo vince sempre l’agōn, dato che gli spetta l’ultima parola.
[18]. Cfr M. A. Fiorito, Buscar y hallar la voluntad de Dios, cit.
[19]. Cfr anche D. Fares. «“Io sono una missione”: verso il Sinodo dei giovani», in Civ. Catt. 2018 I 417-431.
[20]. Instrumentum laboris della XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 8 maggio 2018, n. 107.
[21]. Francesco, Discorso nell’incontro pre-sinodale con i giovani, 19 marzo 2018, in w2.vatican.va
[22]. J. M. Bergoglio, Il desiderio allarga il cuore, Bologna, EMI, 2014, 130 s.