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A cinque anni dalla sua elezione papa Francesco ha deciso di pubblicare la sua terza Esortazione apostolica dal titolo Gaudete et exsultate (GE). Essa, come è detto esplicitamente nel sottotitolo, ha come argomento la «chiamata alla santità nel mondo contemporaneo». Il Pontefice lancia un messaggio «nudo», essenziale, che indica ciò che conta, il significato stesso della vita cristiana, che è, nei termini di sant’Ignazio di Loyola, «cercare e trovare Dio in tutte le cose», seguendo l’indicazione del suo invito ai gesuiti: curet primo Deum[1]. Questo è il cuore di ogni riforma, personale ed ecclesiale: mettere al centro Dio.
Il cardinale Bergoglio, divenuto papa, ha scelto il nome «Francesco» proprio per questo; come pontefice, ha sposato la missione di Francesco d’Assisi: «ricostruire» la Chiesa nel senso di una riforma spirituale che abbia Dio al centro. Afferma: «Il Signore chiede tutto, e quello che offre è la vera vita, la felicità per la quale siamo stati creati. Egli ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente» (GE 1).
L’Esortazione non vuole essere un «trattato sulla santità, con tante definizioni e distinzioni che potrebbero arricchire questo importante tema, o con analisi che si potrebbero fare circa i mezzi di santificazione». L’«umile obiettivo» del Papa è quello di «far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità, cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità» (GE 2). E in questo senso spera che le sue «pagine siano utili perché tutta la Chiesa si dedichi a promuovere il desiderio della santità» (GE 177). Come vedremo, questo desiderio del Papa ha nel discernimento il suo cuore pulsante.
La Gaudete et exsultate si compone di cinque capitoli. Il punto di partenza è «la chiamata alla santità» rivolta a tutti. Da qui si passa alla chiara individuazione di «due sottili nemici» che tendono a risolvere la santità in forme elitarie, intellettuali o volontaristiche. Quindi si prendono le beatitudini evangeliche come modello positivo di una santità che consiste nel seguire la via «alla luce del Maestro» e non una vaga ideologia religiosa. Si descrivono poi «alcune caratteristiche della santità nel mondo attuale»: pazienza e mitezza, umorismo, audacia e fervore, vita comunitaria e preghiera costante. L’Esortazione si conclude con un capitolo dedicato alla vita spirituale come «combattimento, vigilanza e discernimento».
Il documento è di facile lettura e non ha bisogno di complesse spiegazioni. Tuttavia in questa breve guida, oltre a presentarlo, cercheremo di mostrarne soprattutto alcune fonti remote nelle riflessioni pastorali di Bergoglio gesuita e poi vescovo, e infine in quelle più recenti da pontefice. Così cercheremo pure di individuarne i temi centrali e il chiaro messaggio che Francesco intende lanciare oggi alla Chiesa. Che cos’è la santità per Francesco? Dove la vede vissuta? In quali forme e contesti? Come la si può definire?
La «classe media della santità»
La santità è nel cuore del pontificato di Francesco sin dall’inizio. Nell’intervista che ha concesso a La Civiltà Cattolica nell’agosto 2013, cioè a cinque mesi dalla sua elezione, ne aveva parlato a lungo. Conviene adesso rileggerne un passaggio fondamentale: «Io vedo la santità nel popolo di Dio, la sua santità quotidiana». E ancora, più estesamente: «Io vedo la santità nel popolo di Dio paziente: una donna che fa crescere i figli, un uomo che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati, i preti anziani che hanno tante ferite ma che hanno il sorriso perché hanno servito il Signore, le suore che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta. Questa per me è la santità comune. La santità io la associo spesso alla pazienza: non solo la pazienza come hypomonē, il farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze della vita, ma anche come costanza nell’andare avanti, giorno per giorno. Questa è la santità della Iglesia militante di cui parla anche sant’Ignazio. Questa è stata la santità dei miei genitori: di mio papà, di mia mamma, di mia nonna Rosa che mi ha fatto tanto bene. Nel breviario io ho il testamento di mia nonna Rosa, e lo leggo spesso: per me è come una preghiera. Lei è una santa che ha tanto sofferto, anche moralmente, ed è sempre andata avanti con coraggio»[2].
In questa risposta è possibile riconoscere il tono e il significato della Gaudete et exsultate, il suo clima spirituale e la sua applicazione pratica. Tra le sue risposte nella nostra intervista, il Papa aveva dato una definizione: «C’è una “classe media della santità” di cui tutti possiamo far parte, quella che di cui parla Malègue». Joseph Malègue è uno scrittore francese che gli è caro, nato nel 1876 e morto nel 1940. E lo scrittore è citato pure in Gaudete et exsultate a proposito della «santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio» (GE 7). Scriveva Malègue in Agostino Méridier: «La vecchia idea che solo l’anima dei Santi sia il terreno adatto per l’esplorazione corretta del fenomeno religioso gli pareva insufficiente. Anche le anime più modeste contavano qualcosa, anche le classi medie della santità»[3].
La santità va dunque cercata nella vita ordinaria e tra le persone a noi vicine, non in modelli ideali, astratti o sovrumani. «Il cammino della santità è semplice – aveva detto Francesco a Santa Marta, il 24 maggio 2016 –. Non tornare indietro, ma sempre andare avanti. E con fortezza»[4]. Si può qui udire con chiarezza la voce del Concilio Vaticano II e, in particolare, della Lumen gentium che nel capitolo V ha parlato della «vocazione universale della santità»[5].
Tanto meno essa va ridotta a «una santità di “tintoria”, tutta bella, tutta ben fatta» (Omelia a Santa Marta, 14 ottobre 2013) o a una «finta della santità» (5 marzo 2015)[6]. Non bisogna cercare vite perfette senza errori (cfr GE 22), ma persone che, «anche in mezzo a imperfezioni e cadute, hanno continuato ad andare avanti e sono piaciute al Signore» (GE 3).
Nella nostra intervista, Francesco ha anche parlato della santità a proposito della rinuncia al pontificato del suo predecessore, affermando: «Papa Benedetto ha fatto un atto di santità, di grandezza, di umiltà». La santità mette insieme umiltà e grandezza, e si può applicare a un lavoratore normale, a una nonna o a un papa: è la stessa santità. Forse Bergoglio lo ha anche imparato dalle pagine di Malègue, il quale scriveva: «Poiché in confessione è Gesù che assolve, l’anima del curato d’Ars e la mia sono, per ciò che riguarda la santità, a uguale distanza dall’Infinito»[7]. Non c’è asimmetria, né ci sono distanze siderali d’anima neppure tra l’uomo comune e colui che ha raggiunto l’onore degli altari.
Una santità di popolo
Francesco fa comprendere come la santità non sia frutto dell’isolamento: essa si vive nel corpo vivo del popolo di Dio. Scriveva in un testo pubblicato nel 1982 l’allora p. Bergoglio: «Siamo stati generati per la santità in un corpo santo: quello della nostra santa madre Chiesa»[8]. E, in estrema sintesi, egli afferma che la santità «è la visita di Dio al suo corpo»[9]. Scrive nell’Esortazione: «Nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo» (GE 6).
Siamo dunque «circondati da una moltitudine di testimoni», che «ci spronano a non fermarci lungo la strada, ci stimolano a continuare a camminare verso la meta» (GE 3). Risuonano qui le parole del Pontefice che avevamo letto in Evangelii gaudium (EG), là dove aveva scritto di una «“mistica” del vivere insieme», di un «mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio» (EG 87; corsivo nostro).
Questa esperienza di popolo riguarda non soltanto coloro che abbiamo accanto, ma si fonda su una tradizione vivente che comprende chi ci ha preceduti.
Il Papa sviluppa qui un’intuizione che aveva già espressa nel prologo, scritto nel 1987, del suo secondo libro, dal titolo Reflexiones sobre la vida apostolica. In quelle pagine aveva parlato degli antenati che ci hanno preceduti nella speranza, «generazioni e generazioni di uomini e di donne, peccatori come noi». Essi «hanno vissuto le tante contrarietà di ogni vita, le hanno sopportate e hanno saputo consegnare la torcia della speranza; è così che è giunta fino a noi. Sta a noi essere fecondi nel trasmetterla a nostra volta. La maggior parte di quegli uomini e di quelle donne non hanno scritto la storia: hanno semplicemente lavorato e attraversato la vita e – poiché si sapevano peccatori – hanno accolto la salvezza nella speranza». E hanno tramandato non soltanto una «dottrina», ma innanzitutto una «testimonianza», e lo hanno fatto «con la semplicità con cui si danno le cose di tutti i giorni»[10].
Proseguiva l’allora p. Bergoglio, citando nuovamente lo scrittore francese che gli è caro: «Non conosciamo i loro nomi, delineano un popolo di credenti, una santità quotidiana: “la classe media della santità”, come appunto piaceva dire a Malègue. Nulla sappiamo delle loro piccole storie di giorni e di anni, eppure le loro vite hanno avuto una fioritura rigogliosa nelle nostre: la fragranza della loro santità è giunta fino a noi»[11]. Ritroviamo adesso, trent’anni dopo, le stesse espressioni nell’Esortazione apostolica Gaudete et exsultate. Esse sono una testimonianza della radice profonda che in Bergoglio ha questa visione della santità.
Una santità personale come missione
Quindi, la santità non è l’imitazione di modelli astratti e ideali. I riferimenti della santità ordinaria sono semplici, vicini, popolari: una «santità piccolina»[12]. Tante volte Francesco ha fatto riferimento a Teresa di Lisieux, richiamando la sua via alla santità. Egli porta con sé i suoi scritti durante i suoi viaggi apostolici e ne ha canonizzato i genitori. Nell’omelia della Messa celebrata a Tbilisi, Georgia, il 1° ottobre del 2016, ha citato gli scritti autobiografici di Teresa di Gesù Bambino, nei quali lei «ci indica la sua “piccola via” verso Dio, “l’abbandono del piccolo bambino, che si addormenta senza timore tra le braccia di suo padre”, perché “Gesù non domanda grandi gesti, ma solo l’abbandono e la riconoscenza”».
Ma la santità è anche legata alla singola persona: la santità è vivere la propria vocazione e missione sulla terra: «Ogni santo è una missione» (GE 19)[13]. Anche questo ci viene insegnato dalla piccola Teresa, come il Papa ha avuto modo di dire nell’omelia pronunciata presso la cattedrale dell’Immacolata Concezione di Manila, il 16 gennaio 2015[14]. La santità stessa è una missione. Non c’è un ideale astratto. Francesco lo aveva scritto con parole di fuoco in Evangelii gaudium: «Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Bisogna riconoscere sé stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare. Lì si rivela l’infermiera nell’animo, il maestro nell’animo, il politico nell’animo, quelli che hanno deciso nel profondo di essere con gli altri e per gli altri» (EG 273). Colpisce l’estrema concretezza degli esempi. Bergoglio non parla o scrive mai «in generale»: ha bisogno di indicare figure concrete, esempi, di fare persino elenchi.
Nel 1989, l’allora p. Bergoglio aveva presentato un libro di p. Ismael Quiles[15], un gesuita che gli era caro e che era stato suo professore. Francesco lo ha pure citato in Evangelii gaudium[16]. Il titolo del volume presentato da Bergoglio era Il mio ideale di santità[17]. Dopo aver parlato della santità in generale, Quiles dedica la seconda parte della sua trattazione al proprio ideale, cioè alla santità che Dio vuole da ciascuno in maniera differente. Si tratta dunque di discernere la propria strada, la propria via di santità, quella che permette di dare il meglio di sé, come scrive Francesco ricordando implicitamente la lezione del suo confratello (cfr GE 11).
Questa dimensione personale che tocca tutti è uno dei pilastri della Gaudete et exsultate. «Voglia il Cielo che tu possa riconoscere qual è quella parola, quel messaggio di Gesù che Dio desidera dire al mondo con la tua vita» (GE 24), esclama Francesco, rivolto al lettore.
Una santità graduale, complessiva e senza recinti
È proprio Quiles che raccomanda – come fa Francesco in Gaudete et exsultate – la gradualità: «Dio non vuole per tutte le anime una eguale perfezione; tanto meno desidera che un’anima giunga d’un colpo a quel grado di santità che può raggiungere»[18]. La santità dunque emerge dall’insieme della vita, e non nell’analisi puntigliosa di tutti i particolari delle azioni di una persona. Non c’è una «contabilità» delle virtù. È dall’insieme della vita – a volte fatta anche di contrasti di luci e ombre – che emerge il mistero di una persona in grado di riflettere Gesù Cristo nel mondo di oggi (cfr GE 23). E questo, dunque, si compie «anche in mezzo ai tuoi errori e ai tuoi momenti negativi» (GE 24).
Occorre poi sempre considerare adeguatamente i limiti umani, il cammino progressivo di ciascuno, ma anche il grande mistero della grazia che agisce nella vita delle persone. Il santo non è un «superuomo». «E la grazia agisce storicamente e, ordinariamente, ci prende e ci trasforma in modo progressivo. Perciò, se rifiutiamo questa modalità storica e progressiva, di fatto possiamo arrivare a negarla e bloccarla, anche se con le nostre parole la esaltiamo» (GE 50).
Anzi, la santità può essere vissuta «anche fuori della Chiesa Cattolica e in ambiti molto differenti», nei quali «lo Spirito suscita “segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo”» (GE 9), come scrisse san Giovanni Paolo II[19].
Il rischio più grave, infatti, è la presunzione «di definire dove Dio non si trova, perché Egli è misteriosamente presente nella vita di ogni persona, nella vita di ciascuno così come Egli desidera, e non possiamo negarlo con le nostre presunte certezze» (GE 42). Al contrario, persino quando «l’esistenza di qualcuno sia stata un disastro, anche quando lo vediamo distrutto dai vizi o dalle dipendenze, Dio è presente nella sua vita» (GE 42).
Dobbiamo dunque cercare il Signore in ogni vita umana, senza «esercitare un controllo stretto sulla vita degli altri» (GE 43). Ritroviamo qui in poche righe il richiamo – che appare di frequente in Amoris laetitia (AL) (cfr, ad esempio, AL 112; 177; 261; 265; 300; 302; 310) – a evitare l’atteggiamento di essere controllori della vita altrui che porta a un giudizio che è condanna.
Questo è un punto molto importante della prospettiva spirituale di Francesco, che da Ignazio di Loyola ha imparato a «cercare e trovare Dio in tutte le cose»[20], senza porre limiti e recinti all’azione dello Spirito Santo e alla modalità della sua presenza nel mondo. Infatti «l’esperienza spirituale dell’incontro con Dio non è controllabile»[21].
I nemici della santità
A questo punto il Papa decide di sottoporre all’attenzione di tutti due «nemici» della santità. Ancora una volta Francesco insiste sul pericolo del neo-gnosticismo e del neo-pelagianesimo. Sono gli stessi rischi messi in luce dalla recente Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede Placuit Deo, indirizzata ai vescovi della Chiesa cattolica, su alcuni aspetti della salvezza cristiana[22].
Lo gnosticismo è una deriva ideologica e intelletualistica del cristianesimo, trasformato «in un’enciclopedia di astrazioni», secondo il quale, solo chi è capace di comprendere la profondità di una dottrina sarebbe da considerare un vero credente (cfr GE 37). Il Papa è molto duro al riguardo e parla di una religione «al servizio delle proprie elucubrazioni psicologiche e mentali» (GE 40) che allontanano dalla freschezza del Vangelo.
La santità ha a che fare con la carne. In un’omelia a Santa Marta il Papa aveva detto: «Il nostro atto di santità più grande è proprio nella carne del fratello e nella carne di Gesù Cristo. […] È andare a dividere il pane con l’affamato, a curare gli ammalati, gli anziani, quelli che non possono darci niente in contraccambio: quello è non vergognarsi della carne!» (7 marzo 2014).
Per questo non è possibile considerare la nostra comprensione della dottrina come «un sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi». Infatti, «le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione. Le sue domande ci aiutano a domandarci, i suoi interrogativi ci interrogano» (GE 44)[23].
L’altro grande nemico della santità è il pelagianesimo, quell’atteggiamento che sottolinea in maniera esclusiva lo sforzo personale, come se la santità fosse frutto della volontà e non della grazia. Per Bergoglio, la santità personale è innanzitutto un processo compiuto da Dio che ci attende. Questa è la santità: «lasciare che il Signore ci scriva la nostra storia» (Omelia a Santa Marta, 17 dicembre 2013), «docilità allo Spirito Santo» (16 aprile 2013)[24].
Francesco individua alcuni atteggiamenti concreti e ne fa l’elenco: «l’ossessione per la legge, il fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, la vanagloria legata alla gestione di faccende pratiche, l’attrazione per le dinamiche di auto-aiuto e di realizzazione autoreferenziale» (GE 57).
Ne risulta un cristianesimo ossessivo, sommerso da norme e precetti, privo della sua «affascinante semplicità» (GE 58) e del suo sapore. Un cristianesimo che diventa una schiavitù, come san Tommaso d’Aquino ricordava, affermando che «i precetti aggiunti al Vangelo da parte della Chiesa devono esigersi con moderazione “per non rendere gravosa la vita ai fedeli!”» (GE 59)[25]. Francesco aveva ribadito questo concetto in Evangelii gaudium (EG), che qui riprende quasi alla lettera. Lì aveva individuato in questo avvertimento «uno dei criteri da considerare al momento di pensare una riforma della Chiesa e della sua predicazione che permetta realmente di giungere a tutti» (EG 43).
Le Beatitudini
Come si fa allora per arrivare a essere un buon cristiano? La risposta «è semplice: è necessario fare, ognuno a suo modo, quello che dice Gesù nel discorso delle Beatitudini» (GE 63). Per Francesco, la contemplazione dei misteri della vita di Gesù, «come proponeva sant’Ignazio di Loyola, ci orienta a renderli carne nelle nostre scelte e nei nostri atteggiamenti» (GE 20). Va contemplata la vita di Cristo e va seguito il suo pratico «programma di santità» che sono le Beatitudini. Questa è la convizione di partenza che porta il Pontefice a concentrare sulle Beatitudini il capitolo centrale dell’Esortazione. «Poche parole, semplici parole, ma pratiche a tutti, perché il cristianesimo è una religione pratica: non è per pensarla, è per praticarla, per farla»[26].
La Gaudete et exsultate si sofferma su ogni singola frase del testo evangelico delle Beatitudini, commentandola[27]. Francesco presenta così una santità schiettamente evangelica, sine glossa e senza scuse. «Il Signore ci ha lasciato ben chiaro che la santità non si può capire né vivere prescindendo da queste sue esigenze» (GE 97). E così rifugge da una spiritualità astratta, che separa la preghiera dall’azione o che al contrario appiattisce tutto nella dimensione mondana. E il Papa approfitta di questa occasione per ribadire «il nodo politico globale»[28] – come lo ha definito – dei migranti, che purtroppo «alcuni cattolici» considerano come «un tema secondario rispetto ai temi “seri” della bioetica» (GE 102). È davvero rilevante che le migrazioni siano inserite come un tema primario in una Esortazione sulla santità.
Le caratteristiche della santità
Nel quarto capitolo Francesco espone alcune caratteristiche della santità nel mondo contemporaneo. Sono in tutto «cinque grandi manifestazioni dell’amore per Dio e per il prossimo che considero di particolare importanza a motivo di alcuni rischi e limiti della cultura di oggi» (GE 111). Il Papa è consapevole che in questa cultura si manifestano rischi e limiti che egli pure elenca: «l’ansietà nervosa e violenta che ci disperde e debilita; la negatività e la tristezza; l’accidia comoda, consumista ed egoista; l’individualismo, e tante forme di falsa spiritualità senza incontro con Dio che dominano nel mercato religioso attuale» (GE 110).
La prima caratteristica ha i tratti della sopportazione, della pazienza e della mitezza. È necessario «lottare e stare in guardia davanti alle nostre inclinazioni aggressive ed egocentriche per non permettere che mettano radici» (GE 114). L’umiltà, che si raggiunge anche grazie alla sopportazione delle umiliazioni quotidiane, è una caratteristica del santo che ha un cuore «pacificato da Cristo, libero da quell’aggressività che scaturisce da un io troppo grande» (GE 121)[29].
La seconda caratteristica è la gioia e il senso dell’umorismo. La santità, infatti, «non implica uno spirito inibito, triste, acido, malinconico, o un basso profilo senza energia». Anzi, «il malumore non è un segno di santità» (GE 126). Al contrario, «il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza» (GE 122). Il Signore «ci vuole positivi, grati e non troppo complicati» (GE 127).
La terza caratteristica è l’audacia e il fervore. Il riconoscere la nostra fragilità non deve spingerci a mancare di audacia. La santità vince le paure e i calcoli, la necessità di trovare luoghi sicuri. Francesco ne elenca alcuni: «individualismo, spiritualismo, chiusura in piccoli mondi, dipendenza, sistemazione, ripetizione di schemi prefissati, dogmatismo, nostalgia, pessimismo, rifugio nelle norme» (GE 134). Il santo non è un burocrate né un funzionario, ma una persona appassionata che non sa vivere nella «mediocrità tranquilla e anestetizzante» (GE 138). Il santo spiazza e sorprende (cfr ivi) perché sa che «Dio è sempre novità, che ci spinge continuamente a ripartire e a cambiare posto per andare oltre il conosciuto, verso le periferie e le frontiere» (GE 135).
La quarta caratteristica è il cammino comunitario. Anzi, a volte la Chiesa «ha canonizzato intere comunità che hanno vissuto eroicamente il Vangelo o che hanno offerto a Dio la vita di tutti i loro membri» (GE 141), preparandosi insieme persino al martirio, come nel caso dei beati monaci trappisti di Tibhirine in Algeria (cfr GE 141). Per Francesco, la vita comunitaria preserva dalla «tendenza all’individualismo consumista che finisce per isolarci nella ricerca del benessere appartato dagli altri» (GE 146).
La quinta caratteristica è la preghiera costante. Il santo «ha bisogno di comunicare con Dio. È uno che non sopporta di soffocare nell’immanenza chiusa di questo mondo, e in mezzo ai suoi sforzi e al suo donarsi sospira per Dio, esce da sé nella lode e allarga i propri confini nella contemplazione del Signore» (GE 147) che non addomestica la potenza del volto di Cristo (cfr GE 151).
Ma il Papa precisa: «Non credo nella santità senza preghiera, anche se non si tratta necessariamente di lunghi momenti o di sentimenti intensi» (ivi). Egli mette, anzi, in guardia da «pregiudizi spiritualisti», che portano a pensare che «la preghiera dovrebbe essere una pura contemplazione di Dio, senza distrazioni, come se i nomi e i volti dei fratelli fossero un disturbo da evitare». E precisa: «essere santi non significa, pertanto, lustrarsi gli occhi in una presunta estasi» (GE 96). Al contrario, proprio l’intercessione e la preghiera di domanda sono gradite a Dio perché legate alla realtà della nostra vita.
In questo Francesco è discepolo di Ignazio, che cita implicitamente scrivendo: «Siamo chiamati a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione» (GE 26). Questo è l’ideale ignaziano, infatti, secondo la celebre formula di uno dei suoi primi compagni, il p. Jerónimo Nadal: essere simul in actione contemplativus. Le alternative quali «o Dio o il mondo» oppure «o Dio o il nulla» sono errate. Dio è all’opera nel mondo, è al lavoro per portarlo a compimento, perché il mondo sia pienamente in Dio. Nella preghiera si realizza il discernimento delle vie di santità che il Signore ci propone.
Una santità di lotta e di discernimento
«La vita cristiana è un combattimento permanente. Si richiedono forza e coraggio per resistere alle tentazioni del diavolo e annunciare il Vangelo. Questa lotta è molto bella, perché ci permette di fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita» (GE 158). Queste parole iniziali riassumono bene il senso dell’ultimo capitolo dell’Esortazione Gaudete et exsultate.
E, dunque, il Papa non riduce la lotta a una battaglia contro la mentalità mondana che «ci intontisce e ci rende mediocri», né a una lotta contro la propria fragilità e le proprie inclinazioni. Ognuno ha la sue, precisa Francesco: la pigrizia, la lussuria, l’invidia, le gelosie e così via. Essa è anche «una lotta costante contro il diavolo, che è il principe del male» (GE 159), e non è quindi solo «un mito, una rappresentazione, un simbolo, una figura o un’idea» (GE 161).
Il cammino della santità richiede che stiamo con «le lampade accese», perché chi non commette gravi mancanze contro la Legge di Dio può «lasciarsi andare ad una specie di stordimento o torpore» (GE 164), che conduce a una corruzione che è «peggiore della caduta di un peccatore, perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito» (GE 165).
Il dono del discernimento aiuta in questa battaglia spirituale, perché fa comprendere «se una cosa viene dallo Spirito Santo o se deriva dallo spirito del mondo o dallo spirito del diavolo» (GE 166). E qui papa Francesco segue la lezione del suo maestro di vita spirituale, p. Miguel Ángel Fiorito, che aveva scritto un «commentario» alle regole per il discernimento di sant’Ignazio dal titolo Discernimiento y lucha espiritual, del quale lo stesso Bergoglio aveva scritto la prefazione nel 1985[30]. In essa leggiamo, tra l’altro, che la lotta spirituale è «vedere nelle nostre tracce umane le tracce di Dio» uscendo dall’autoreferenzialità.
Questa parte dell’Esortazione apostolica è il suo cuore pulsante. Per Bergoglio una vita santa non è semplicemente una vita virtuosa, nel senso che persegue le virtù in generale. Essa è tale, perché sa cogliere l’azione dello Spirito Santo e i suoi movimenti, e li segue.
In un contesto di continuo zapping esistenziale, «senza la sapienza del discernimento possiamo trasformarci facilmente in burattini alla mercé delle tendenze del momento» (GE 167). Si potrebbe vivere persino uno zapping spirituale, diciamo così, se non si è condotti dal discernimento.
Questo dono è importante, perché ci permette di essere «capaci di riconoscere i tempi di Dio e la sua grazia, per non sprecare le ispirazioni del Signore, per non lasciar cadere il suo invito a crescere» (GE 169). Ancora una volta il Papa insiste sul fatto che questo si gioca nelle piccole cose di ogni giorno, «persino in ciò che sembra irrilevante, perché la magnanimità si rivela nelle cose semplici e quotidiane». Si tratta – egli afferma – «di non avere limiti per la grandezza, per il meglio e il più bello, ma nello stesso tempo di concentrarsi sul piccolo, sull’impegno di oggi» (ivi). Francesco qui ricorda un motto attribuito a sant’Ignazio: Non coerceri a maximo, contineri tamen a minimo divinum est («Non esser costretto da ciò che è più grande, essere contenuto in ciò che è più piccolo, questo è divino»)[31].
E il discernimento non è una sapienza per i colti, i dotti, gli illuminati. Il Papa lo aveva detto ai gesuiti del Myanmar durante la sua visita apostolica, esponendo quello che per lui è il criterio vocazionale per la Compagnia: «Il candidato sa discernere? Imparerà a discernere? Se sa discernere, sa riconoscere che cosa viene da Dio e che cosa viene dal cattivo spirito, allora questo gli basta per andare avanti. Anche se non capisce molto, anche se lo bocciano agli esami…, va bene, purché sappia fare discernimento spirituale»[32]. Il discernimento è un carisma: «Non richiede capacità speciali né è riservato ai più intelligenti e istruiti, e il Padre si manifesta con piacere agli umili (cfr Mt 11,25)» (GE 170).
Francesco conclude la sua riflessione sul discernimento con un paragrafo di particolare rilevanza e che sembra riassumere il senso del suo itinerario compiuto fino a questo momento: «Quando scrutiamo davanti a Dio le strade della vita, non ci sono spazi che restino esclusi. In tutti gli aspetti dell’esistenza possiamo continuare a crescere e offrire a Dio qualcosa di più, perfino in quelli nei quali sperimentiamo le difficoltà più forti. Ma occorre chiedere allo Spirito Santo che ci liberi e che scacci quella paura che ci porta a vietargli l’ingresso in alcuni aspetti della nostra vita. Colui che chiede tutto dà anche tutto, e non vuole entrare in noi per mutilare o indebolire, ma per dare pienezza. Questo ci fa vedere che il discernimento non è un’autoanalisi presuntuosa, una introspezione egoista, ma una vera uscita da noi stessi verso il mistero di Dio, che ci aiuta a vivere la missione alla quale ci ha chiamato per il bene dei fratelli» (GE 175).
Gioia e santità
Concludendo l’analisi di Gaudete et exsultate, consideriamo in maniera specifica il titolo. L’appello di Francesco alla santità è aperto dall’invito alla gioia semplice del Vangelo citato all’inizio dell’Esortazione: «Rallegratevi ed esultate» (Mt 5,12). L’invito alla gioia evangelica era risuonato già nella prima Esortazione di Francesco, che aveva per titolo Evangelii gaudium, e così pure nei documenti magisteriali Laudato si’ e Amoris laetitia, che fanno appello alla lode e alla letizia.
Di quale gioia Francesco sta parlando? Per Bergoglio, la gioia è la «consolazione spirituale» di cui scrive sant’Ignazio, la «gioia interiore che stimola e attrae alle realtà celesti e alla salvezza dell’anima, dandole tranquillità e pace nel suo Creatore e Signore» (Esercizi Spirituali, n. 316). È questo – scriveva l’allora p. Bergoglio – «lo stato abituale di chi riceve la manifestazione di Gesù Cristo con disponibilità e semplicità di cuore»[33]. Il cristiano non può avere «faccia da funerale» (EG 10). Il termine gioia (alegría, gozo) è, in generale, uno dei più ricorrenti del vocabolario bergogliano[34]. Alla gioia del Vangelo egli ha dedicato in maniera specifica anche alcune sue meditazioni nei suoi corsi di Esercizi Spirituali[35].
Ma lo stesso titolo Gaudete et exsultate ricorda immediatamente la Gaudete in Domino (GD), promulgata dal beato Paolo VI il 9 maggio 1975. «Noi – scriveva Montini – possiamo gustare la gioia propriamente spirituale, che è un frutto dello Spirito Santo: essa consiste nel fatto che lo spirito umano trova riposo e un’intima soddisfazione nel possesso di Dio Trinità, conosciuto mediante la fede e amato con la carità che viene da lui. Una tale gioia caratterizza, a partire di qui, tutte le virtù cristiane. Le umili gioie umane, che sono nella nostra vita come i semi di una realtà più alta, vengono trasfigurate» (GD III)[36].
E così pure il discorso di san Giovanni XXIII nella solenne apertura del Concilio Vaticano II Gaudet Mater Ecclesia. A queste pagine sono da aggiungere quelle del documento di Aparecida (2007), che «respira» nelle pagine di Bergoglio[37]. Lì l’appello alla gioia riecheggia circa 60 volte. Nel documento conclusivo della V Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano e dei Caraibi, la gioia del discepolo segnava la sua vita spirituale e la sua tensione alla santità: «Non è un sentimento di benessere egoista, ma una certezza che sboccia dalla fede, che rasserena il cuore e ci rende capaci di annunciare la buona notizia dell’amore di Dio» (n. 29). E ancora: «Possiamo incontrare il Signore nel bel mezzo delle gioie della nostra esistenza limitata, e questo fa nascere nel nostro cuore una gratitudine sincera» (n. 356).
Le connessioni della Gaudete et exsultate con gli altri testi magisteriali di Francesco, come pure con quelli del Bergoglio pastore in Argentina, ci fanno comprendere che l’Esortazione è il frutto maturo di una riflessione che il Pontefice porta avanti da molto tempo, ed esprime in maniera organica la sua visione della santità intrecciata a quella della missione della Chiesa nel mondo contemporaneo. Nel suo insieme il documento comunica una convinzione simile a quella espressa tempo fa dal cardinale Bergoglio: «Dobbiamo condurre la fragilità del nostro popolo verso la gioia evangelica, che è la fonte della nostra forza»[38].
* * *
Francesco chiude Gaudete et exsultate rivolgendo il suo pensiero a Maria. Già agli inizi degli anni Ottanta Bergoglio vedeva la santità della Chiesa riflessa «nel volto di Maria, la senza peccato, la linda e pura», senza mai dimenticare che «nel suo seno raduna i figli di Eva, madre degli uomini peccatori»[39]. Maria è «la santa tra i santi, la più benedetta, colei che ci mostra la via della santità e ci accompagna» da madre qual è: «A volte ci porta in braccio senza giudicarci. Conversare con lei ci consola, ci libera e ci santifica» (GE 176).
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[1] Cioè: «Faccia in modo di avere dinanzi agli occhi, sempre, prima d’ogni altra cosa, Dio». Formula Insituti della Compagnia di Gesù (n. 1).
[2] A. Spadaro, «Intervista a Papa Francesco», in Civ. Catt. 2013 III 460.
[3] J. Malègue, Agostino Méridier, Milano – Roma, Corriere della Sera – La Civiltà Cattolica, 831 s.
[4] Francesco, L’umiltà e lo stupore. Omelie da Santa Marta. Settembre 2015 -Giugno 2017, Milano, Rizzoli, 2018, 230.
[5] E qui Francesco, come già negli altri documenti principali, fa proprie le parole di alcune conferenze episcopali, valorizzando la sinodalità. Troviamo, infatti, nel documento la voce dei vescovi della Nuova Zelanda (GE 18), dell’Africa Occidentale (GE 33), del Canada (GE 99) e dell’India (GE 156).
[6] Id., La verità è un incontro. Omelie da Santa Marta, Milano, Rizzoli, 2014, 335; Id., La felicità si impara ogni giorno. Omelie da Santa Marta. Marzo 2014 – Giugno 2015, ivi, 2015, 371.
[7] J. Malègue, Agostino Méridier, cit., 989.
[8] J. M. Bergoglio, Nel cuore di ogni padre, Milano, Rizzoli, 2014, 210.
[9] Ivi, 211.
[10] Id., Il desiderio allarga il cuore. Esercizi spirituali con il Papa, Bologna, EMI, 2014, 22 s.
[11] Ivi.
[12] Francesco, L’umiltà e lo stupore, cit., 244 (Omelia del 9 giugno 2016).
[13] Cfr D. Fares, «“Io sono una missione”. Verso il Sinodo dei giovani», in Civ. Catt. 2018 I 417-431.
[14] «Come santa Teresa di Gesù Bambino, nella varietà delle nostre vocazioni, ognuno di noi è chiamato, in qualche modo, ad essere l’amore nel cuore della Chiesa».
[15] Cfr J. M. Bergoglio, Non fatevi rubare la speranza, Milano, Mondadori, 2013, 212 s.
[16] Il Papa cita in particolare il volume I. Quiles, Filosofia de la educación personalista, Buenos Aires, Depalma, 1981, 46-53.
[17] I. Quiles, Il mio ideale di santità, Milano, Paoline, 1956.
[18] Ivi, 196.
[19] Giovanni Paolo II, s., Lettera apostolica Novo millennio ineunte, 56. 307.
[20] Cfr Ignazio di Loyola, s., Esercizi Spirituali, nn. 230-237; Id., Autobiografia, 99; Costituzioni della Compagnia di Gesù, n. 288.
[21] J. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra. Il pensiero di Papa Francesco sulla famiglia, la fede e la missione della Chiesa nel XXI secolo, Milano, Mondadori, 2013, 24.
[22] Cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera «Placuit Deo» ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della salvezza cristiana, 22 febbraio 2018.
[23] Videomessaggio al congresso internazionale di Teologia della Pontificia Università Cattolica Argentina (1-3 settembre 2015).
[24] J. M. Bergoglio, La verità è un incontro, cit., 423 e 78.
[25] Cfr Tommaso d’Aquino, s., Summa Theologiae, I-II, q. 107, a. 4.
[26] Francesco, La felicità si impara ogni giorno, cit., Milano, Rizzoli, 2015, 126.
[27] Per approfondire il tema, raccomandiamo la lettura di D. Fares – M. Irigoy, Il programma della felicità. Ripensare le beatitudini con Papa Francesco, Milano, Àncora, 2016.
[28] Francesco, Discorso alla Comunità de «La Civiltà Cattolica», 9 febbraio 2017.
[29] Francesco riconosce che questi atteggiamenti aggressivi e polemici non mancano persino in media che si definiscono «cattolici» e che però tollerano – se non fomentano – la diffamazione e la calunnia, coltivando rabbia e vendetta (cfr GE 115).
[30] Cfr M. A. Fiorito, Discernimiento y lucha espiritual. Comentario de las Reglas de discernir de la Primera Semana de los Ejercicios Espirituales de San Ignacio de Loyola, Bilbao, Mensajero, 2010 (orig. 1985). Cfr J. L. Narvaja, «Miguel Ángel Fiorito. Una riflessione sulla religiosità popolare nell’ambiente di Jorge Mario Bergoglio», in Civ. Catt. 2018 II 18–29.
[31] L’allora p. Bergoglio, a capo della Provincia argentina dei gesuiti, aveva dedicato a questo motto una riflessione importante: cfr J. M. Bergoglio, «Guidare nelle cose grandi e in quelle piccole», in Id., Nel cuore di ogni padre, cit., 91-102. Tra l’altro, leggiamo: «Sant’Ignazio non considera ciò che è “piccolo”, o “grande” […] nel contesto di una visione funzionalista del mondo, ma piuttosto nella concezione spirituale della vita. Quella di ridurre queste realtà di visione soprannaturale ad altre dimensioni è una seduzione quotidiana. Può salvarcene soltanto la sapienza del discernimento» (p. 94).
[32] J. M. Bergoglio, «Essere nei crocevia della storia. Conversazioni con i gesuiti del Myanmar e del Bangladesh», in Civ. Catt. 2017 IV 525.
[33] Id., Aprite la mente al vostro cuore, Milano, Rizzoli, 2013, 124.
[34] Cfr Id., In Lui solo la speranza. Esercizi spirituali ai vescovi spagnoli (15-22 gennaio 2006), Milano – Città del Vaticano, Jaca Book – Libr. Ed. Vaticana, 2013, 74 s, n. 2.
[35] Cfr Id., Aprite la mente al vostro cuore, cit., 21-29.
[36] Cfr ivi, 24.
[37] Su quell’evento ecclesiale cfr D. Fares, «10 anni da Aparecida. Alle fonti del pontificato di Francesco», in Civ. Catt. 2017 II 338-352.
[38] Id., È l’amore che apre gli occhi, Milano, Rizzoli, 2013, 261.
[39] Id., Nel cuore di ogni padre, cit., 210.