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«Il Vangelo, la mafia, le periferie»: poche parole riassumono «chi era davvero padre Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso il 15 settembre 1993. Un uomo dalla fede incrollabile e un maestro di spiritualità, un educatore dei giovani e un punto di riferimento per le famiglie. Ma anche un prete di frontiera che, per non tradire la fedeltà al Vangelo, seppe portare avanti le sue scelte in un territorio dominato dalla mafia. Fino all’estremo sacrificio. Il 25 maggio 2013 la Chiesa lo ha riconosciuto come martire e proclamato beato»[1]. P. Puglisi è il primo parroco della Chiesa cattolica a essere proclamato beato per martirio perpetrato dalla mafia[2].
Assassinato «perché prete»
Il 15 settembre 1993 era il compleanno di p. Pino Puglisi[3], parroco della chiesa di San Gaetano, nel quartiere Brancaccio di Palermo: compiva 56 anni. Calava la sera di un giorno intensamente vissuto, l’ultimo della sua vita: al mattino aveva celebrato due matrimoni, nel pomeriggio aveva preparato alla confessione i bambini della prima comunione; poi una piccola festa al centro «Padre Nostro», uno spazio creato per accogliere i ragazzi di strada (la chiesa non aveva sale per attività parrocchiali e nemmeno una canonica).
Al rientro a casa, in piazzale Anita Garibaldi, mentre p. Pino si accingeva ad aprire il portoncino, all’improvviso «Spatuzza [un componente del commando] gli tolse il borsello e gli disse: “Padre, questa è una rapina”. Lui rispose: “Me l’aspettavo”. Lo disse con un sorriso. Un sorriso che mi è rimasto impresso». E conclude: «Io allora gli sparai un colpo alla nuca»[4].
Quel sorriso «è stato più forte della violenza che tentava di sopprimerlo e […] ha realizzato ciò che mille parole stentano a realizzare: ha restituito il volto d’uomo proprio al suo killer»[5], Salvatore Grigoli. Questi era l’assassino più spietato di Brancaccio: aveva commesso 45 omicidi, ma quello di p. Pino fu l’ultimo, perché lo avrebbe trasformato per sempre. Qualche anno dopo confessava: «C’era una specie di luce in quel sorriso. Un sorriso che mi aveva dato un impulso immediato. Non me lo so spiegare: io già ne avevo uccisi parecchi, però non avevo provato nulla del genere. Me lo ricordo sempre quel sorriso, anche se faccio fatica persino a tenere impressi i volti, le facce dei miei parenti. Quella sera cominciai a pensarci, si era smosso qualcosa»[6].
Dopo l’omicidio di p. Puglisi la sua vita ebbe una svolta. Egli aveva anche un altro tragico precedente: aveva «sciolto» nell’acido Giuseppe, il figlio del pentito Di Matteo. «L’ho conosciuto bene quel bambino. Era un ragazzo pieno di vita… Ho fatto cose che non si possono giustificare, ma questa, questa… è stato il motivo del mio pentimento»[7]. Da allora iniziava un cammino di umanità e di ripensamento.
All’origine dell’omicidio era il capo di Cosa Nostra, Leoluca Bagarella, che aveva deciso quella morte, perché p. Pino era «prete». L’avversione era direttamente collegata all’esercizio pastorale del sacerdote. Dai verbali del processo canonico per la beatificazione emergeva che Bagarella aveva aspramente rimproverato i fratelli Graviano, i capi mafia di Brancaccio, perché avevano aspettato tanto a ucciderlo: «Se lo ammazzavano subito quando questo cominciò, oggi non sarebbe successo il finimondo che sembra che avevano ucciso un altro grande magistrato e invece era solo un prete. […] Un prete che praticamente non aveva fatto campagna contro la mafia»[8].
Un prete antimafia?
Nella vita, di solito, nulla si improvvisa o è dettato dal caso. Nemmeno la propria morte. E p. Puglisi era pronto a quell’appuntamento. Vi si era preparato da tempo, dal giorno in cui aveva chiesto di essere ammesso in seminario. Allora, il 10 settembre 1953, scriveva: «Seguendo le sante ispirazioni del Signore che mi ha illuminato sulla vanità delle cose terrene e sulla grandezza della Sua grazia, ho deciso di dedicarmi al servizio della Sua gloria e al bene delle anime»[9]. Poi, sull’immaginetta che ricordava il suddiaconato, aveva inciso l’ideale della propria donazione: «Accetta, o Signore, l’olocausto della mia vita»[10]; e infine, su quella del sacerdozio: «Signore, che io sia strumento valido per la salvezza del mondo»[11]. È il progetto di una vita offerta totalmente ai fratelli.
P. Puglisi non è il primo sacerdote ucciso dalla mafia[12], ma il suo assassinio ha avuto una conseguenza paradossale: «Nelle pieghe del delitto consumato quella sera – nota p. Nello Fasullo, redentorista di Palermo – è possibile scorgere un particolare significato di fatalità per la mafia stessa: quella sanguinaria barbarica ferocia che abbiamo conosciuto per tutto il corso della sua storia. […] S’incominciò presto a capire che il senso e il ruolo della mafia erano compiuti, finiti. E che questa fine rappresentava l’unico vero impagabile miracolo compiuto da padre Puglisi. In questo senso la sua morte era veramente martiriale. Nel senso che rappresentava, agli occhi di chi sapeva capire, il fatto che, avendo ucciso il parroco senza veri “motivi mafiosi”, ciò costituiva un segno che il fenomeno mafioso si era esaurito. Un delitto come segno dei tempi»[13].
Se qualcuno interpretasse quella morte come un errore a cui i mafiosi avrebbero rimediato per far ritornare tutto come prima, sbaglierebbe. Il parroco non faceva concorrenza alla mafia, ma opponeva semplicemente il Vangelo alla cultura mafiosa: «Siamo chiamati a continuare l’opera di Gesù, liberando noi e gli altri dal Male (che è odio, sopraffazione e ingiustizia). E la nostra opera consiste nel ridare ai poveri la loro dignità umana; solo così potranno liberarsi dal Male»[14]. E p. Pino lo faceva non in modo ambiguo o nascosto, ma nella maniera più chiara possibile, alla luce del sole. Egli «non catechizzava, né faceva proselitismo, ma ascoltava. E amava parlare con i ragazzi. Cercava di portarli a interrogarsi sul senso della vita, a capire qual era la strada da percorrere per ciascuno»[15]. Il suo stesso modo di essere parroco faceva capire a tutti da che parte stesse e che cosa pensasse della mafia.
Con l’assassinio di p. Puglisi in Sicilia finiva la mafia omicida[16]: nel delitto del sacerdote Cosa nostra uccideva se stessa. Un fatto del genere non si era mai visto a Brancaccio dalle origini del fenomeno mafioso.
Il calvario finale
P. Puglisi era parroco a Brancaccio da tre anni. Benché fosse sacerdote diocesano, anziché «don Pino», veniva chiamato «Padre Pino», secondo il modo usuale in Sicilia. Anche il suo assassino lo designa così. Aveva anche l’epiteto «3P», dalle iniziali, Padre Pino Puglisi, che ha dato anche il titolo a una biografia[17]. Il perché non è un mistero: le «3P» ne delineano lo spessore spirituale, perché indicano il Padre, ma anche la Parola e i Poveri, oppure il Parrinu («padre», in siciliano), il Pane eucaristico e la Preghiera[18]. Non a caso il centro sociale di Brancaccio si chiamava «Padre nostro»[19], un nome che costituiva una sfida per il suo significato di fraternità, ma alludeva pure al parroco, il «padre» di tutti.
Tuttavia, in poco tempo, p. Pino aveva richiamato l’attenzione dei boss. L’ultimo anno fu per lui un calvario di avvertimenti e intimidazioni. Due mesi prima della morte, in un’omelia, egli denunciava pubblicamente le minacce: «Oggi mi rivolgo ai protagonisti delle intimidazioni che ci hanno bersagliato. Parliamone, spieghiamoci! Vorrei conoscervi e conoscere i motivi che vi spingono a ostacolare chi cerca di educare i vostri figli al rispetto reciproco, ai valori della cultura e della convivenza civile. La Chiesa ha già colpito con la scomunica chi si è macchiato di atroci delitti come i cosiddetti uomini d’onore. Io posso soltanto aggiungere che gli assassini, coloro che si nutrono di violenza hanno perso la dignità umana. Sono meno che uomini, si degradano da soli, per le loro scelte, al rango di animali.
«Non è da Cosa nostra che potete aspettarvi un futuro migliore per questo quartiere. Il mafioso non potrà mai darvi una scuola media o un asilo nido dove lasciare i bambini quando andate al lavoro. Perché non volete che i vostri bimbi vengano a me? Ricordate: chi usa la violenza non è un uomo. […] Noi chiediamo a chi ci ostacola, di riappropriarsi della umanità ed io sono disponibile ad accompagnarli in questo cammino. […].
«Abbiamo avuto la conferma che tutto ciò voleva essere un avvertimento contro il nostro operato. Ma noi andiamo avanti. Perché, come dice San Paolo: “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?” (Rm 8,31)»[20].
Queste parole, gridate dal cuore, non erano solo un’omelia, ma una sfida. E non per intimidire o per ribellarsi, ma per dialogare, per confrontarsi, per creare un ponte. P. Pino voleva educare perfino i figli dei mafiosi alla legalità, al rispetto reciproco, ai valori dello studio e della cultura: questa era la «grande scommessa di don Pino, la sua vera “utopia”»[21].
Proprio in quei giorni, Brancaccio era stato definito dai giornali il quartiere di Palermo a più alta densità mafiosa, e i fatti lo confermavano. Poco prima, alcuni giovani su una moto di grossa cilindrata avevano lanciato bombe molotov contro un furgone della ditta che stava restaurando la chiesa, e le fiamme ne avevano lambito il portone. Poi vennero incendiate le porte di casa di tre componenti del «Comitato intercondominiale» del quartiere, perché non avevano fatto riferimento alla mafia. Il Comitato era nato in modo autonomo dalla parrocchia, per affrontare i problemi di Brancaccio e sollecitare le soluzioni dalle autorità. Questi incontrarono sulla loro strada p. Puglisi, il parroco attento non solo alla vita spirituale dei fedeli, ma anche al contesto sociale in cui essi vivevano.
Padre Puglisi: libero e indipendente
Brancaccio era il quartiere più malfamato di Palermo[22]. Lo stile di vita del parroco, semplice e risoluto, chiaro ed efficace, e soprattutto la libertà e l’indipendenza che insegnava erano una provocazione continua per la mafia e contrastavano la regola generale che tutti dovevano rispettare: «A Brancaccio non si muove foglia che mafia non voglia»[23]. Perfino per affittare una casa ci voleva il permesso dei boss. P. Puglisi non solo non rispettava le regole del quartiere, ma insegnava alla gente a fare altrettanto. Ci si rivolgeva direttamente alle autorità senza passare dagli «uffici» della mafia.
Il parroco non si sostituiva all’assistente sociale né faceva ciò che avrebbe dovuto realizzare il Comune. Semplicemente sollecitava dalle autorità i servizi e le strutture a cui i cittadini avevano diritto. Di qui le prime legittime richieste: la fognatura (Brancaccio ne era privo, con la conseguenza che i liquami affioravano per le strade, con diversi casi di epatite C, letale per i bambini)[24]; poi l’apertura di una scuola media nel quartiere (che è stata realizzata sette anni dopo l’uccisione di p. Puglisi), un centro sociale, un distretto sociosanitario di base, un ritrovo per giovani e anziani[25].
Per di più, le richieste non erano fatte a titolo personale, ma insieme alla gente di Brancaccio. La sua «regola d’oro» consisteva nell’agire insieme, e la proponeva a tutti: «Se ognuno fa qualcosa si può fare molto»[26]. Tale proposta era una rivoluzione, poiché insegnava ai cittadini ad essere liberi e uniti nel rivendicare i propri diritti. «Non l’accoglienza dei giovani, dei ragazzi e dei bambini della parrocchia è stata la causa dell’assassinio mafioso di don Puglisi, ma il suo spirito di libertà e di insubordinazione al potere di Cosa nostra»[27]. Uno spirito che è il cuore dell’insegnamento evangelico[28].
I maestri di un parroco
Chi sono gli ispiratori di p. Puglisi? Se al primo posto – come si è detto – c’è il Vangelo, occorre ricordare un’altra figura di sacerdote che ha certamente svolto un ruolo non marginale nella sua formazione: don Lorenzo Milani. Ciò che unisce i due personaggi, che forse non si sono mai conosciuti, è la loro libertà e indipendenza. Don Milani, negli anni Sessanta e Settanta, aveva costituito con i suoi libri un punto di riferimento per i giovani di allora. Già Esperienze pastorali, del maggio 1958, nonostante l’iniziale scarsa diffusione, conobbe un successo notevole dopo la disposizione del Sant’Uffizio di ritirarlo dal commercio. Poi L’ obbedienza non è più una virtù, del 1965, scosse l’ambiente ecclesiastico italiano, e infine la Lettera a una professoressa, del 1967, divenne nella contestazione del ’68 il manifesto della rivoluzione studentesca e mise in luce lo spirito che animava il sacerdote[29].
P. Puglisi, essendo assistente della Fuci, parlava agli studenti della figura di don Milani, che formava i ragazzi ad essere cittadini responsabili. La sua tempra di uomo libero, di cristiano non incline ai compromessi, di parroco dedito al bene dei propri fedeli ha un modello preciso nel sacerdote toscano. Per di più, p. Pino era ancora più libero del priore, il quale era stato mandato a Barbiana per essere in qualche modo emarginato. Ma da allora don Milani aveva avuto un ruolo decisivo nella storia della democrazia italiana per l’approvazione dell’obiezione di coscienza, per la nonviolenza, per la riforma della scuola media. P. Puglisi aveva davanti a sé un esempio chiarissimo a cui conformarsi.
Nella sua formazione svolgono pure un ruolo decisivo il Vaticano II e lo spirito nuovo che il Concilio inculcava nei sacerdoti. P. Pino era stato ordinato presbitero nel 1960, mentre dal 1958 papa Giovanni aveva aperto una stagione nuova nella Chiesa e rianimava lo slancio missionario. L’«aggiornamento», la nuova evangelizzazione, il dialogo con i lontani si radicavano nei sacerdoti palermitani. Il Concilio plasmava il giovane sacerdote[30]. Inoltre, l’essere «Chiesa povera e per i poveri»[31] era un ideale concreto che egli metteva in pratica già nel primo incarico presbiteriale a Settecannoli, un quartiere di baracche, costruito sulle macerie dei bombardamenti della guerra: qui il primo impegno in una serie di richieste al Comune per fornire i servizi essenziali a una comunità abbandonata.
Poi il trasferimento a Godrano, a circa 40 km da Palermo, dove p. Pino incontrò il movimento francescano «Presenza del Vangelo», poco conosciuto nel resto dell’Italia ma molto attivo in Sicilia, che si proponeva di portare, mediante i laici, l’annuncio evangelico alle persone semplici. Di qui l’amore per la Parola di Dio, «quel fermento nuovo che opera nel segreto di ciascuno, e poi, non si sa quando, né come, porta frutto»[32]. Godrano è solo un paesino di contadini, ma segnato da faide familiari che avevano mietuto molte vittime (tra gli anni Cinquanta e Sessanta: 15 omicidi). È forse questo il primo incontro ravvicinato con il mondo mafioso.
P. Puglisi, uomo di riconciliazione, vuole essere presente in un contesto lacerato da vendette e omicidi: sa stare vicino alle persone, sa comunicare con loro, sa parlare del Signore. Il paese è la sua missione, dove egli vive l’impegno pastorale attuando il Concilio: «Il Vaticano II ha fatto riscoprire alcune verità fondamentali: la vocazione […] dell’uomo è la comunione con Dio, con un Dio che è amore ed è pieno di tenerezza. […] Questo messaggio forte lo abbiamo riscoperto con il Concilio insieme a tante altre cose, ad esempio la riscoperta della comunità, dell’essere noi tutti quanti Chiesa»[33]. L’evento conciliare costituisce «la chiave d’oro che consente di entrare nella vita e nel martirio di padre Puglisi»[34].
L’impegno per i giovani culminò infine tra i ragazzi di Brancaccio, dove nel 1990 fu chiamato a fare il parroco. L’incarico segnava una tappa fondamentale della vita di p. Pino: Brancaccio è il suo quartiere, dove era nato da una famiglia povera, aveva vissuto gli anni giovanili e maturato la vocazione al sacerdozio. Il lavoro del sacerdote rendeva precario e malfermo il muro di omertà e violenza che da tempo teneva la gente legata alle pratiche mafiose.
«Personalismo, cultura e Vangelo: una miscela che p. Puglisi non andava elaborando seduto a tavolino, nei convegni ecclesiastici o negli istituti di ricerca, ma in strada, nei vicoli, lottando accanto alle famiglie per rivendicare il diritto alla casa e sostando accanto a condizioni umane spesso degradanti»[35]. Egli era anche un uomo di cultura, un intellettuale, ma pronto a sporcarsi le mani in mezzo al suo popolo, con un programma concreto: «Non saremo noi a cambiare il quartiere. Questa è un’illusione che non possiamo permetterci… Le nostre iniziative devono però essere un segno»[36].
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
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Il «Caso Puglisi»
L’assassinio di p. Puglisi, per quanto fosse chiaramente la morte di un martire, non fu immediatamente compreso nella sua valenza spirituale: prevalsero due interpretazioni, entrambe povere e riduttive. Dato che il parroco di san Gaetano non era molto conosciuto fuori dal quartiere, un’interpretazione tendeva a ricollocare la figura del sacerdote nel suo ambiente, e quindi a relegarlo nell’oblio; l’altra invece mirava a farne l’icona di un «santino» e a incastonarlo nella galleria dei beati e dei santi, e quindi ad allontanarlo dalla gente comune[37]. Le due interpretazioni non consentivano di cogliere il valore della testimonianza del sacerdote e impedivano di mettere in luce l’essenziale, e cioè la provocazione e la profezia che emergeva da quell’efferato omicidio.
Provocazione in primo luogo per la Chiesa, poi per i giovani, per la cultura, per la città, per la politica. Il Vangelo porta ad amare i nemici. E p. Pino li invitava a venire in chiesa, a dialogare, a dire le loro ragioni e non solo a uccidere… Egli non voleva tanto convertire i mafiosi, quanto invitare tutti a solidarizzare, ad aiutarsi, a cercare il bene del quartiere.
La profezia invece è quella che nasce dal comandamento «Non uccidere»: «Dopo Gesù si può cambiare registro e chiedersi il perché del non uccidere […]. E confrontarlo con l’insegnamento di Gesù, quello “nuovo”, l’ultimo, quello testamentario dell’Ultima Cena; quello positivo dell’“Amatevi come vi ho amato io”. […] Perché la vita si dà, non si toglie. La novità del comandamento di Gesù è il dono, il dare, la grazia: non il divieto dell’uccidere. Ciò che deve contrassegnare la vita e lo stile cristiani non è la proibizione, ma l’amore “puro”, quello senza condizioni che non cerca contraccambi. Il divieto, da solo, non parla al cuore, è povero […]. È angusto e paralizza. […] È più evangelico (fa conoscere meglio Dio e Gesù Cristo) annunciare alla città che don Pino ha donato la vita al modo di Gesù. […] Solo il dare (anche la vita) è cristiano e mai il togliere (specie la vita)»[38].
Infine, la debolezza della mafia, che risalta nel sacrificio di p. Puglisi. Il mondo mafioso ha in sé una malattia antica e moderna dell’uomo, quella di credere che il «potere» renda «onnipotenti». Oggi, più che in passato, tale potere è consolidato dal denaro che le cosche mafiose estorcono e reinvestono dovunque. Non è un caso che il mandante dell’assassinio del sacerdote, Giuseppe Graviano, avesse il soprannome di «Madre Natura», come se tutto dipendesse da lui, in particolare il bene e il male a Brancaccio. Se tale onnipotenza rende più spietati, rivela pure la vulnerabilità che corrode il mondo criminale. P. Puglisi dava fastidio perché testimoniava la vicinanza ai poveri e ai giovani senza lavoro, ma non aveva potere: «Far uccidere un uomo disarmato è una prova di debolezza e, al fondo, di impotenza. […] Cristo si era battuto per i poveri ed era morto come uno di loro»[39]. Così «Madre Natura» veniva sconfitta dal Vangelo, da quella forza che si rivela in chi non si affida al potere, ma all’impotenza della croce che salva.
L’ultima predica
Il 14 settembre, festa dell’Esaltazione della Croce, p. Pino celebrò la Messa presso la «Casa Madonna dell’accoglienza», dove assisteva alcune ragazze madri. Nell’omelia spiegò perché Gesù suda sangue: «Quando abbiamo paura o proviamo una sensazione intensa di calore, scattano le contrazioni sotto la pelle […] e fanno uscire il sudore. Ma quando la contrazione è più forte, perché la paura è diventata angoscia insopportabile, si rompono i capillari. Ecco perché si dice che Gesù sudò sangue… sudò sangue per la paura umana del dolore che lo attendeva. E questo ce lo fa sentire più forte come fratello. Da questo abbiamo conosciuto l’amore di Dio: egli ha dato la vita per noi e anche noi dobbiamo dare la vita per il fratello. È difficilissimo morire per un amico, ma morire per dei nemici è ancora più difficile. Cristo è morto per noi quando ancora eravamo suoi nemici. Dio ci rimane sempre accanto, è la costanza dell’amore fino all’estremo limite, anzi, senza limiti. Ecco il motivo della nostra gioia!»[40].
Padre Pino era consapevole, per le intimidazioni e le minacce, che prima o poi sarebbe toccato anche a lui dare la vita. Non sapeva che ciò sarebbe accaduto appena 24 ore dopo. Ma la sua morte è stata insieme un seme di risurrezione per il quartiere Brancaccio, per Palermo, per il nostro Paese e per la Chiesa tutta.
Occorre tuttavia ricordare – lo ha notato il pubblico ministero Lorenzo Matassa – che né la Diocesi, né la Parrocchia, né il Comune, né il centro sociale «Padre nostro» si sono costituiti parte civile: «La lotta alla mafia così come i processi ad essa devono essere atti corali. Per questo dico che la giustizia non è soltanto verità, ma anche partecipazione umana, è coinvolgimento, è impegno civile continuo e di tutti. […] E primi fra tutti coloro che hanno il dovere morale e giuridico della partecipazione perché sono i soli che possono dare voce a chi mai più potrà averla. È stato detto dal successore di don Pino Puglisi che la Chiesa non si occupa della responsabilità penale degli uomini ma del loro destino sovraterreno. Niente di più errato, niente di più ingiusto per la memoria di don Pino Puglisi, che a questa povera e bistrattata umanità di Brancaccio aveva cercato di dare il “pane quotidiano”, ma anche quello materiale come atto di carità e giustizia»[41].
Le parole del pubblico ministero indicano l’impegno a saper partecipare alla vita sofferta del popolo (che è il contrario del populismo), perché coinvolgimento reale e affettivo, anche se doloroso.
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Nel 25° anniversario del martirio di p. Pino Puglisi, papa Francesco visiterà il quartiere Brancaccio, la chiesa di san Gaetano, dove fu parroco, e il piazzale Anita Garibaldi, dove fu ucciso. Il Papa intende ricordare un parroco santo e insieme dare un tributo alla missione di un sacerdote che ha offerto la vita per amore. In occasione della beatificazione, egli disse: «Don Puglisi è stato sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo, li sottraeva alla malavita, e così questa ha cercato di sconfiggerlo, uccidendolo. In realtà, però, è lui che ha vinto, con Cristo Risorto»[42].
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PINO PUGLISI: PRIEST AND MARTYR
«The Gospel, the mafia, the suburbs»: just a few words which sum up the biography of Fr. Pino Puglisi, the parish priest of Brancaccio who was murdered September 15, 1993. Fr. Pino was not only a man of faith, an educator of the young and a point of reference for families, but also a priest on the border, faithful to the Gospel to the point of extreme sacrifice, in a district dominated by the mafia and the culture of death. On May 25, 2013, the Church recognized him as a martyr and proclaimed him blessed. 25 years after his death, Pope Francis went to Brancaccio to remember a holy parish priest. With his death, Fr. Pino also marked the fate of the homicidal mafia. It is this his true, incomparable miracle.
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[1]. «Padre Puglisi» in www.beatopadrepuglisi.it/2014/08/un-blog-perricordare-
e-far-conoscere/; F. Deliziosi, Pino Puglisi, il prete che fece tremare la mafia con un sorriso, Milano, Rizzoli, 2014; Id., Don Pino Puglisi. Se ognuno fa qualcosa si può fare molto. Le parole del prete che fece paura alla mafia, Milano, Rizzoli, 2018.
[2]. F. Deliziosi, Don Pino Puglisi…, cit., 53 s. L’affermazione è di mons. Vincenzo Bertolone, il postulatore della causa di beatificazione.
[3]. Giuseppe Puglisi è nato a Palermo, a Brancaccio, il 15 settembre 1937, da una modesta famiglia: il padre era calzolaio, la madre sarta. A 16 anni entra in seminario e diventa sacerdote il 2 luglio 1960. Il primo incarico è quello di vicario nella parrocchia del SS. Sacramento a Settecannoli, limitrofa a Brancaccio; poi rettore della chiesa di san Giovanni dei Lebbrosi, cappellano dell’orfanotrofio «Roosevelt» e vicario della parrocchia Maria SS.ma Assunta a Valdesi. Dal 1970 al 1978 è parroco a Godrano. Dal 1979 ricopre diversi incarichi: è prorettore del Seminario minore, direttore del centro diocesano per le vocazioni e dal 1990, parroco di Brancaccio. Dal 1978 al 1993 insegna religione al liceo classico Vittorio Emanuele II di Palermo. È animatore di diversi movimenti (Azione Cattolica, Fuci, Équipes Notre Dame) e dal 1990 si occupa della «Casa Madonna dell’accoglienza» e dell’«Opera pia del Cardinale Ruffini» per ragazze madri in difficoltà (cfr F. Occhetta, «Don Pino Puglisi, il martire di Brancaccio», in Civ. Catt. 2013 III 66-74).
[4]. Testimonianza dell’assassino: cfr F. Deliziosi, Se ognuno fa qualcosa…, cit., 36 s; V. Bertolone, Padre Pino Puglisi beato. Profeta e martire, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2013, 125; E. A. Mortellaro – C. Aquino, Padre Pino Puglisi il samurai di Dio, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2013, 40.
[5]. E. A. Mortellaro – C. Aquino, Padre Pino Puglisi…, cit., 159.
[6]. V. Bertolone, Padre Pino Puglisi beato…, cit., 125.
[7] . Ivi.
[8] . Ivi, 142.
[9] . Ivi, 84.
[10]. Ivi.
[11]. M. Lancisi, Don Puglisi. Il Vangelo contro la mafia, Milano, Piemme, 2013, 33.
[12]. Cfr l’elenco dei sacerdoti vittime della mafia in I. Sales, «Martire civile e martire cristiano: per Gesù c’è differenza?», in Segno 345/346 (2013) 110 s.
[13]. N. Fasullo, «Giuseppe Puglisi, un santo necessario voluto da Dio», ivi, 11 s.
[14]. V. Ceruso, Don Pino Puglisi. A mani nude, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2012, 69.
[15]. Id., Le sagrestie di Cosa nostra. Inchiesta su preti e mafiosi, Roma, Newton Compton, 2007, 193.
[16]. Cfr F. Renda, Storia della Mafia, Palermo, Sigma,1998, 413; A. M. Banti, L’ età contemporanea. Dalla Grande Guerra a oggi, Roma – Bari, Laterza, 2009, 402 s. Dopo le stragi di Capaci e di via d’Amelio (dei giudici Falcone e Borsellino) del 1992, la mafia ha continuato gli attentati nel 1993 (al giornalista Beppe Alfano; la strage di cinque morti e 40 feriti in via dei Georgofili a Firenze; di 5 vittime a Milano; i tre attentati a Roma, senza vittime: e infine quello a p. Puglisi).
[17]. Cfr F. Deliziosi, «3P» Padre Pino Puglisi. La vita e la pastorale del prete ucciso dalla mafia, Milano, Paoline, 1994. Nella cattedrale di Palermo alcuni cartelli fanno memoria del martire: uno di questi spiega il significato di «3P».
[18]. M. Badalamenti, Martire oggi. Una testimonianza d’amore. Padre Giuseppe Puglisi, Palermo, Presenza del Vangelo, 2001, 133.
[19]. Va sottolineato il significato del nome del centro «Padre nostro»: «perché dalla preghiera, e in particolare da questa preghiera, scaturiva il suo impegno concreto a favore dei fratelli: essere servo per amore, come Cristo» (E. A. Mortellaro – C. Aquino, Padre Pino Puglisi…, cit., 148).
[20]. G. Porcaro, «Padre Pino Puglisi. Il sorriso del martire», in F. Malgeri et al., Sud profetico. Chiesa italiana e mezzogiorno. Padre Pino Puglisi, don Tonino Bello, don Italo Calabrò, don Peppe Diana, Roma, Studium, 2015, 198.
[21]. V. Ceruso, Le sagrestie di Cosa nostra…, cit., 195.
[22]. A Brancaccio, tra il 1981 e il 1984, si erano consumati ben 154 omicidi di mafia (cfr P. Toro, «Brancaccio, diario di un impegno», in P. Toro – N. Vara, Palermo nel gorgo. L’ autunno della politica e la scelta di don Puglisi, con prefazione di G. Notari S.I., Palermo, Istituto Poligrafico Europeo, 2015, 76). Il quartiere era inoltre la base logistica della lotta armata contro lo Stato, che si manifestava in una serie di attentati a Palermo, Milano, Roma, Firenze; lì era custodito l’esplosivo per le stragi di Capaci e di via D’Amelio; lì venivano nascosti i pericolosi latitanti e di lì partivano anche i primi tentativi di trattativa tra Stato e mafia (cfr ivi, 58).
[23]. N. Fasullo, «Giuseppe Puglisi, un santo necessario voluto da Dio», cit., 12.
[24]. Cfr F. Palazzo – A. Cavadi – R. Cascio, Beato fra i mafiosi. Don Puglisi: storia, metodo, teologia, Trapani, Di Girolamo, 2013, 21 s.
[25]. Ivi, 42.
[26]. Ivi, 62. La proposta ha dato il titolo al volume di F. Deliziosi, Se ognuno fa qualcosa si può fare molto…, cit., 26; 64.
[27]. N. Fasullo, «Giuseppe Puglisi, un santo necessario voluto da Dio», cit., 13.
[28]. Padre Pino lo riassumeva anche nell’esortazione: «Non chiederti cosa puoi prendere dalla vita, ma cosa puoi dare alla vita» (E. A. Mortellaro – C. Aquino, Padre Pino Puglisi…, cit., 78).
[29]. Cfr N. Fasullo, «Giuseppe Puglisi, un santo necessario voluto da Dio», cit., 13. Le opere di don Milani sono ora raccolte in L. Milani, Tutte le opere, a cura di F. Ruozzi – A. Canfora – V. Oldano – S. Tanzarella, con la direzione di A. Melloni, Milano, Mondadori, 2017.
[30]. Cfr F. Deliziosi, «3P» Padre Pino Puglisi…, cit., 52-59; F. Deliziosi, Se ognuno fa qualcosa…, cit., 185-190; 432-438.
[31]. Cfr C. Lorefice, La compagnia del Vangelo. Discorsi e idee di don Pino Puglisi a Palermo, Reggio Emilia, Ed. San Lorenzo, 2014, 47 s. L’espressione risale al Concilio, Lumen gentium, n. 8, ed è stata ripresa da papa Francesco, nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 198.
[32]. E. A. Mortellaro – C. Aquino, Padre Pino Puglisi…, cit., 46.
[33]. Citato da C. Lorefice, La compagnia del Vangelo…, cit., 31; cfr anche G. Bellia, Il prete che seminava speranza. La storia semplice di padre Puglisi martire, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2013, 65.
[34]. N. Fasullo, «Giuseppe Puglisi, un santo necessario voluto da Dio», cit., 18. Lo stesso anno della morte viene qualificato così: «Mi piace ricordarlo come prete “conciliare”, non come un prete antimafia» (G. Ribaudo, «Preti antimafia? In memoria di Padre Pino Puglisi», in Orientamenti pastorali 41 [1993] 11; 9).
[35]. V. Ceruso, Le sagrestie di Cosa nostra…, cit., 184.
[36]. P. Toro, «Brancaccio, diario di un impegno», cit., 85; F. Deliziosi, Se ognuno fa qualcosa…, cit., 59.
[37]. Cfr N. Vara, «Un nostalgico amarcord», in P. Toro – N. Vara, Palermo nel gorgo. L’ autunno della politica e la scelta di don Puglisi, cit., 27.
[38]. N. Fasullo, «Giuseppe Puglisi, un santo necessario voluto da Dio», cit., 16 s.
[39]. I. Romeo, «La vicinanza e la differenza», in Segno 345/346, cit., 110.
[40]. G. Porcaro, «Padre Pino Puglisi. Il sorriso del martire», cit., 213 s; cfr anche C. Lorefice, La compagnia del Vangelo…, cit., 160; F. Deliziosi, Se ognuno fa qualcosa…, cit., 31.
[41]. F. Palazzo – A. Cavadi – R. Cascio, Beato fra i mafiosi…, cit., 26.
[42]. F. Deliziosi, Se ognuno fa qualcosa…, cit., 52.