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Nel luglio del 1914, a Lourdes, cattolici tedeschi e francesi, ognuno nella propria lingua, avevano pregato pacificamente insieme. «Due settimane più tardi, era scoppiata la guerra in Europa, e i pellegrini di Lourdes, tornati in patria, all’ombra delle proprie bandiere nazionali, si scagliavano gli uni contro gli altri. Quelli che ieri si salutavano come fratelli, adesso combattevano come nemici gli uni contro gli altri»[1]. Per i cattolici di entrambi i fronti lo scoppio della Guerra mondiale non era stato affatto l’ultima conseguenza di un distacco decennale: fu piuttosto avvertito come la dolorosa distruzione di una solidarietà internazionale. E p. Jules Lebreton, della rivista dei gesuiti francesi Études, a cui appartengono queste righe, si chiede come si debba affrontare questa esperienza. Secondo lui, né la disperazione riguardo all’unità e alla comprensione tra i popoli né la diserzione sono una risposta valida. Come per tutti gli autori della rivista, anche per lui è certo che lottare per la Francia non significa solo difendere la patria, ma difendere anche la religione e la civiltà cristiana.
La sua riflessione tuttavia va al di là della guerra: come potrebbe avvenire una riconciliazione dopo i traumi della guerra, senza mettere sullo stesso piano la giustizia e l’ingiustizia o senza, per convenienza, suddividere le responsabilità equamente tra le parti? Si deve partire dalla croce di Cristo, che insegna a guardare in faccia i peggiori crimini, a chiamare ingiustizia l’ingiustizia, senza tuttavia farsi risucchiare nel vortice dell’odio.
Ciò riguarda anche l’equità verso il nemico. La Germania non è solo la Germania «di Lutero e Bismarck». Adesso ci divide «un muro di ferro e fuoco: non possiamo farci comprendere dai cattolici al di là del Reno, e sappiamo che la maggior parte di loro non ha alcuna possibilità di conoscere la verità sulla guerra, sulle sue cause e sulle modalità della sua conduzione»[2]. Ma un giorno, continua p. Lebreton, i cattolici tedeschi riscopriranno la loro unione con i cattolici della Francia e del Belgio; in quel giorno apprezzeranno ancora di più il fatto che abbiamo resistito all’aggressione partita dal loro Paese. «Che allora, come nel luglio dello scorso anno, possiamo ritrovarci a Lourdes, ai piedi della Madre comune, nell’adorazione dello stesso Dio, nella comunione alla stessa ostia!».
Era questo il dilemma della maggioranza degli autori sia di Stimmen der Zeit, sul versante tedesco, sia di Études, su quello francese: da una parte, l’identificazione scontata e acritica con la «giusta causa» della propria patria; dall’altra, lo sforzo di essere equi verso il nemico e la prospettiva futura di una possibile riconciliazione a guerra finita.
La posizione di «Stimmen der Zeit»
Fino alla seconda metà del 1915, la rivista tedesca Stimmen der Zeit si fa trasportare dall’entusiasmo nazionale per la guerra. Per Peter Lippert, questo entusiasmo costituisce il superamento dell’egoismo piccolo borghese[3]. Secondo lui, la guerra della Germania è «una liturgia, una vera guerra santa», e proprio per questo motivo i caduti si trasformano in martiri[4].
E Robert von Rostitz-Rieneck mostra di essere sempre affascinato dall’«elevazione dell’animo del popolo» che ha portato allo scoppio della guerra: «In un istante e in un muto attimo sono scomparse le montagne di falsi valori come se fossero affondate. Un silenzioso ed evidente giudizio universale è passato sui valori esclusivi dell’aldiquà, disperdendoli come la pula»[5]. Anche se viene condannato l’odio per i nemici e si predica la cavalleria nei loro confronti, soprattutto se prigionieri e feriti, ciò avviene, quasi senza eccezione, facendo appello al migliore sentimento nazionale, al «vero tedesco per bene», il cui onore altrimenti verrebbe macchiato dai crimini di guerra (che in genere si vedono commessi dal nemico)[6].
Ovviamente la guerra è giusta, e il popolo tedesco vi è stato costretto, anche se d’altro canto si concede che soggettivamente i soldati della parte avversa siano altrettanto convinti di avere ragione. In tal senso, lo psicologo Josef Fröbes mostra quanto anche gli uomini integri e bendisposti possano essere indotti in errore da simpatie, e ancor più da suggestioni di massa. Tuttavia ciò non suscita in lui nessun dubbio sulla giustizia della propria causa – che invece è sicura –, ma solo la giusta comprensione per i nemici e le loro motivazioni[7]. Resta da vedere se, tra le righe, il lettore critico non avrebbe potuto – nel caso ne avesse avuto voglia – desumere qualcosa di più da quanto era scritto.
Solo Stanislaus von Dunin-Borkowski ammette che adesso non è ancora possibile una visione obiettiva. In tal caso, vale la classica «riserva di autorità»: quasi mai l’uomo comune può decidere se una guerra è giusta o ingiusta; egli deve attenersi alla decisione del governo[8]. Anche provvedimenti bellici che, per esempio, erano chiaramente condannati ne La Civiltà Cattolica, quali l’invasione del Belgio all’inizio della guerra e, nel 1917, la guerra sottomarina illimitata anche contro i Paesi neutrali, trovano la loro giustificazione: entrambi i provvedimenti sarebbero certamente contrari al diritto positivo delle nazioni, e tuttavia sono legittimati dal superiore diritto alla difesa nazionale[9].
Ma difficilmente la causa della patria si concilia con la causa della civiltà cristiana, come invece accade nella rivista Études. Il libro francese La guerre allemande et le catholicisme – secondo il quale la Germania costituiva la quintessenza della modernità avversa a Dio, e la causa della Francia si identificava con quella del cattolicesimo[10] –, che trova una leggera critica anche in Études, viene decisamente respinto, soprattutto in considerazione della politica laicista e anticlericale della Repubblica francese[11].
A metà del 1916 viene recensito favorevolmente un articolo di un autore spagnolo[12], per il quale una vittoria degli imperi centrali è nell’interesse del cattolicesimo, perché, solo se vinta, la Francia arriverebbe a un rinnovamento religioso e la Germania sarebbe un baluardo dell’ordine e dell’autorità; ma nella lotta tra Stato e Chiesa (Kulturkampf) i cattolici tedeschi hanno mostrato di saper impedire con le proprie forze un trionfo del protestantesimo[13].
Anche Études dovette affrontare l’imbarazzante situazione per cui nei Paesi neutrali le simpatie dei cattolici andavano in prevalenza agli imperi centrali, mentre la Francia veniva identificata con l’anticlericalismo[14], cosicché, specialmente in Spagna, la destra conservatrice stava più dalla parte della Germania, mentre la sinistra, particolamente francofila, apprezzava della Francia tutto quello che i cattolici riprovavano, cosa che a sua volta sospingeva le destre moderate verso la Germania[15].
Nonostante tutto, nel corso degli anni si moltiplicarono le voci che mettevano in guardia da un nazionalismo esagerato: voci che non mancarono neppure all’inizio del conflitto. Arriveranno i tempi della riconciliazione e della comprensione – invita a riflettere Lippert –, e già da ora si deve pensare a costruire ponti: «La violenza straniera va sconfitta, fino al punto da disporsi alla pace e tener conto del nostro diritto. Non ci interessa lo sterminio dei popoli. Non devono essere ridotti a iloti… Ogni popolo ha la sua missione particolare, misteriosa, e nessuno ha il diritto di contestare, disprezzare o mandare a monte tale missione di un altro popolo. Ciò sarebbe una presunzione senza limiti. Perciò rispettiamo anche la missione dei nostri nemici»[16].
E Matthias Reichmann si rivolge contro un certo Maximilian Harden, il quale, in una conferenza tenuta a Monaco di Baviera il 12 febbraio 1915, sosteneva che per le nazioni varrebbero norme diverse che per gli individui, basando questa affermazione sul principio che «il nostro diritto si fonda sul nostro potere». Secondo Paul Dudon, in Études, si trattava di una conferenza che aveva espresso con cinica franchezza il pensiero del governo tedesco: un pensiero che tuttavia non si aveva l’onestà di ammettere pubblicamente[17]. Non esiste una doppia morale, replicava Reichmann in Stimmen der Zeit: anche gli Stati sono vincolati alla coscienza e alla morale[18].
Lippert vede il pericolo principale della guerra nell’«incombente lacerazione della comunione interna, della coesione dell’umanità intera» nel nazionalismo esagerato[19]. Afferma infatti: «A ragione abbiamo ritenuto puerili le pretese francesi di avere una posizione privilegiata nella Chiesa. Ma non dobbiamo neanche farci convincere da chi dice che “l’intera essenza intima della Germania è intessuta di Dio” o altre frasi del genere. […] Quindi, uno dei compiti più importanti e faticosi della Chiesa cattolica nel futuro prossimo e remoto sarà quello di ricongiungere tra loro le nazionalità che, disposte in questa guerra su due schieramenti totalmente ostili, si sono polverizzate a vicenda con violenza tanto inaudita»[20].
L’esito del conflitto e gli accordi di pace non sembrano in grado di riportare una vera pace. L’unione dei popoli non significa un’uniformazione e un livellamento, quanto piuttosto una tolleranza anche verso ciò che è straniero e che spesso sconcerta. «Una germanizzazione della Chiesa sarebbe altrettanto fatale della tanto famigerata e temuta romanizzazione»[21].
La posizione di «Études»
Rispetto a Stimmen der Zeit, in Études l’immagine del nemico è tracciata in modo più netto[22]. Ovviamente, non solo si afferma la legittimità della propria parte, ma viene anche più fortemente tematizzato il torto dell’altra. Ciò tuttavia va visto anche considerando che in questo caso la guerra e le sue distruzioni erano state vissute sul proprio suolo, fino a giungere al bombardamento della cattedrale di Reims; e la rubrica della rivista intitolata «Impressions de guerre» ne forniva regolarmente un resoconto sconvolgente. Già nel numero di settembre del 1914, p. Léonce de Grandmaison, sotto lo pseudonimo di «Louis des Brandes», aveva dato una risposta chiara alla questione di chi fosse la principale responsabilità di quella guerra[23]. Secondo l’autore, essa è da attribuire alla megalomania dei tedeschi, che erano convinti di essere sempre i migliori e di dover sempre dominare, dapprima in campo militare, poi anche negli altri settori.
Vanno riconosciute le realizzazioni tedesche in campo scientifico, tecnico e commerciale, ottenute grazie alla diligenza e alla scrupolosità teutonica; ed effettivamente non si può negare che determinati popoli in certe epoche siano stati i campioni di Europa e i portabandiera del progresso. Ma è molto importante che questo ruolo di guida venga esercitato senza provocare ostilità e avversione. E ciò non è riuscito. Qui, il militarismo prussiano ne rappresenta solo la forma più evidente.
L’autore non ha difficoltà a riconoscere le qualità tedesche, e vede nel popolo tedesco grandi risorse umane. Ma secondo lui il futuro sarà una Germania più federale, una federazione di Stati senza l’egemonia prussiana; mentre l’impero creato nel 1871 con «il ferro e il fuoco» rappresenta un pericolo permanente per la pace in Europa. Questa concezione viene portata avanti da altri autori: Lutero, Fichte, Kant, Hegel, Bismarck, Nietzsche costituiscono una linea continua che genera un imperialismo aggressivo e militarista, incarnato negli Hohenzollern[24].
Certamente in Germania ci sono voci di opposizione a questa autoidolatria nazionale, ma sono andate disperse nella demagogia pubblica. Il «pangermanesimo» domina la politica tedesca. La Germania ha utilizzato l’attentato di Sarajevo – che del resto non viene mai difeso o giustificato dagli autori cattolici – come fortunato pretesto per avviare una guerra che la nazione ha voluto e pianificato almeno dal 1913[25]. E il popolo tedesco è stato educato sistematicamente al culto della brutale violenza di Stato. Ma – così afferma Antonin Eymieu – l’intera l’Europa è colpevole per quanto è accaduto. Adesso sta pagando il prezzo per non essere venuta in aiuto alla Francia nel 1870. Adesso sconta il fatto di essersi piegata davanti al successo e alla violenza: nella Germania si è idolatrato l’ideale del progresso e della civiltà moderna. In questo caso la Germania rappresenta l’incarnazione dell’ostilità verso Dio tipica della civiltà moderna. Ha voluto dominare su tutti i popoli, idolatrata da tutti[26].
Diventa allora chiara, nell’autunno del 1918, la risposta di Bénoît Emonet alla stanchezza per la guerra e all’interrogativo «Pourquoi se bat-on?» («Perché si combatte?»): per la Francia, per la sua difesa, per la sua patria, di cui è minacciata l’esistenza. Certo, dice l’autore, il cattolicesimo è sopranazionale, ma il nostro cattolicesimo lo viviamo in una forma francese. La democrazia, la comunità dei popoli, l’umanità sono semplicemente dei vaghi ideali e delle speranze all’orizzonte. «Al presente, davanti al nostro sguardo c’è solo la Francia. Il diritto offeso e da ristabilire è il suo… Sua la libertà minacciata»[27]. Insomma, la Francia rappresenta tutti i valori per cui vale la pena di lottare.
Piccole critiche agli apologeti della propria parte si trovano nella recensione che Yves de la Brière fa della miscellanea dal titolo La guerre allemande et le Catholicisme, nel numero di maggio 1915[28]. Secondo il recensore, questa opera va accolta con favore, perché la propaganda pro-francese che c’era stata fino ad allora, proveniente dal governo o da liberi pensatori, ha sortito per lo più l’effetto opposto tra i cattolici dei Paesi neutrali. La fretta con cui si è dovuta approntare tale opera giustifica il fatto che alcune cose non siano state valutate in tutti i loro aspetti, come ci si sarebbe atteso in tempi più tranquilli. Così, ad esempio, non si è tenuto conto del fatto che Bismarck aveva fallito nel suo Kulturkampf a causa della resistenza del cattolicesimo. «Quali che siano le legittime lagnanze contro i cattolici della Germania, la giustizia ci impone di riconoscere che, grazie alla loro forza, unità e organizzazione, fino a poco tempo fa hanno fatto retrocedere, su quasi tutti i punti, la politica del Kulturkampf e finora hanno impedito al germanesimo anticristiano – “anticristiano”, perché così lo si deve definire – di riportare in vita il Kulturkampf»[29].
Inoltre, a fronte delle notizie delle atrocità commesse in Belgio e nella Francia settentrionale, in particolar modo contro sacerdoti e chiese, si è ceduto troppo alla tentazione di generalizzare, e si è tenuto troppo poco conto dell’esistenza, in questo caso, di rilevanti differenze tra le singole armate e i corpi di armata, e del fatto che alcuni si sono comportati in modo assolutamente corretto.
Ciò non toglie che alcuni atti di barbarie siano così evidenti da non poter essere ridotti a singoli abusi, ma chiamano in causa la responsabilità complessiva della conduzione tedesca dell’esercito, oltre a risalire all’influsso diretto delle dottrine pagane, immorali e presuntuose del germanesimo moderno[30]. Questa critica viene citata positivamente in Stimmen der Zeit. Stando alla rivista, se essa non era stata più forte era perché si doveva considerare anche «la situazione forzata in cui si trovavano il collaboratore e la direzione di Études in quella loro posizione scabrosa»[31].
La posizione de «La Civiltà Cattolica»
Se le riviste Stimmen der Zeit ed Études erano, ciascuna a modo suo, portavoci del cattolicesimo nazionale dei rispettivi Paesi, la rivista italiana dei gesuiti La Civiltà Cattolica si distingue per una rigida imparzialità e per la conseguente distanza da ogni nazionalismo[32]. I contributi corrispondenti sono del suo direttore (a partire dal 1915) Enrico Rosa. Dopo la guerra furono da lui raccolti in un libro, comprendendo anche i passi che erano stati depennati dalla censura italiana di Stato, cosa che appare immediatamente visibile negli articoli per gli spazi bianchi nel testo e l’annotazione «Censura»[33].
La rivista italiana si mantiene coerentemente lontana da ogni forma purificatrice della guerra o anche dalla tesi di una sua azione di purificazione e di stimolo religioso, da cui all’inizio non sono esenti né Stimmen der Zeit né Études[34]. Si mostra molto scettica anche nei confronti del «risveglio religioso» che la guerra avrebbe procurato[35]. Invece, si pone sulla linea di quanto detto da papa Benedetto XV, per il quale la guerra è un’inutile «strage» e un «suicidio» dell’Europa[36].
L’opinione della rivista riguardo alla questione della «colpa della guerra», però, è che ridurre tutto alla domanda «Chi ha iniziato?» non porta da nessuna parte, oppure resta alla superficie del problema. Il vero colpevole invece è la moderna «statolatria», l’assolutizzazione dello Stato e la dissoluzione di ogni suo vincolo trascendente e morale, di cui si sono rese responsabili, ciascuna a suo modo, tutte le parti in guerra[37].
La guerra, con tutta la sua follia, è il frutto logico di quei princìpi del naturalismo, del relativismo etico e del positivismo statale che erano stati condannati nel Syllabus di Pio IX nel 1864[38]. Per la coscienza individuale del cristiano e per la sua domanda sulla «legittimità» o meno della guerra, resta una situazione di incertezza, cosicché vi sono buone ragioni perché la guerra attuale possa essere considerata giusta – o in ogni caso non palesemente ingiusta – dai cattolici di entrambe le parti, anche dai più illuminati. Un passo, questo, depennato dalla censura italiana[39]. Per l’autore, in questo caso non resta altra via di uscita che la classica «presunzione di autorità»[40], finché non sia evidente la sua illegittimità. È una riserva avanzata da lui, ma che viene anch’essa depennata dalla censura[41].
Ora, la posizione de La Civiltà Cattolica sulla guerra mondiale è strettamente connessa al suo particolare legame con il Papa[42]. Infatti, l’irrisolta «Questione romana» – che però il governo italiano considera risolta già da tempo con la «Legge delle guarentigie» del 1871 –, vale a dire la questione della Santa Sede come soggetto di diritto e attore internazionale, ritorna di attualità grazie alla Guerra mondiale, e soprattutto con l’entrata nel conflitto dell’Italia il 24 maggio 1915. Questo fu dovuto soprattutto al fatto che allora gli ambasciatori degli imperi centrali presso la Santa Sede dovettero abbandonare Roma, e che palazzo Venezia – che fino a quel momento era stato sede della legazione austriaca presso la Santa Sede – venne espropriato dallo Stato italiano. Se il Papa doveva effettivamente mantenere la propria neutralità o addirittura intervenire come mediatore di pace, era necessario che fosse riconosciuto non come suddito italiano, ma come soggetto di diritto internazionale.
Tuttavia il ricorso all’autorità pontificia, secondo Rosa, è anche l’unico solido fondamento morale per arrivare a uno stabile ordinamento internazionale di pace: «Quindi nel Papa, e nel Papa solo, è il principio internazionale di moralità, di giustizia, di ordine e di pace, che il mondo cerca al presente, e cerca invano fuori del Papa, per sottrarsi agli immani orrori e della guerra imperversante e della minacciante barbarie»[43]. In questo senso, è chiara la presa di distanza nei confronti non soltanto del liberalismo tradizionale, del socialismo e del nuovo nazionalismo, ma anche di ogni forma secolare di pacifismo o internazionalismo[44]. Si potrebbe dire che la rinuncia alle immagini dei nemici nazionali comporta il ricorso a immagini ancora più caustiche dei nemici ideologici. Infatti, i veri colpevoli non sono i politici e i militari, ma i docenti universitari con la loro filosofia anticristiana, di cui mettono in pratica i principi inumani[45].
Se da un lato l’imputato principale non è una determinata nazione, bensì l’emancipazione della modernità da Dio, dall’altro neanche le simpatie e le antipatie sono distribuite equamente tra le parti in conflitto, ma in modo trasversale. Così è certo che, se l’invasione tedesca del Belgio è un torto non giustificato da nessuna considerazione utilitaristica[46], lo stesso vale anche, nel 1917, per la guerra sottomarina illimitata tedesca e per l’embargo britannico, che arreca sofferenze infinite alla popolazione civile tedesca[47].
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Né la Germania né la Russia godono di una particolare simpatia, e ancora meno l’Inghilterra, che antepone a tutto i propri egoistici interessi commerciali: la vittoria del militarismo tedesco e quella del mercantilismo britannico sono, per Rosa, ugualmente esecrabili[48]. L’autore però non risparmia critiche neppure alle motivazioni del governo italiano, il quale si è lasciato indurre a entrare in guerra a fianco dell’Intesa dall’ondata nazionalista provocata soprattutto dall’eccentrico poeta Gabriele d’Annunzio. Passo, anche questo, che è stato depennato dalla censura[49].
Le simpatie dell’autore vanno al cattolico Belgio, che prima della guerra era stato detestato dai massoni[50], mentre la Francia viene accusata innanzitutto di cecità, perché, mentre era intenta a perseguitare la Chiesa, ha trascurato di armarsi, quando ormai il nemico era già alle porte[51].
Iniziativa pontificia e pace di Versailles secondo le riviste
Sin dall’inizio del conflitto, Benedetto XV, papa dal 3 settembre 1914, si era continuamente adoperato non soltanto per cercare di mitigare la guerra, ma anche per una pace frutto di accordi senza né vincitori né vinti[52]. Le sue iniziative furono sempre apprezzate e dettagliatamente commentate proprio da La Civiltà Cattolica[53]. Appunto per questo, una pace senza vincitori né vinti rappresentava, agli occhi della rivista, l’unica via di uscita possibile, poiché la guerra era il risultato del distacco dell’intera Europa dai princìpi della morale e della giustizia, da cui nessuna delle parti era esente[54]. Per questo la rivista apprezzava il fatto che, con il suo discorso davanti al Senato del 22 gennaio 1917 su di una «pace senza vittoria», il presidente americano Woodrow Wilson fosse ritornato a una posizione che il Papa aveva coerentemente sostenuto fin dal principio.
Nell’estate del 1917, considerando la situazione militare di stallo e la notevole stanchezza su entrambi i fronti, il Papa aveva creduto che fosse giunto il momento di intervenire con proposte di pace concrete. Nella Nota pontificia di pace – che presto divenne pubblica – del 1° agosto 1917 alle potenze belligeranti il Papa tracciava le linee di fondo di una pace duratura. Tra queste, c’era soprattutto un ordinamento postbellico con un arbitrato obbligatorio, un disarmo bilaterale controllato e la libertà di navigazione nei mari. Entrambe le parti avrebbero rinunciato alle riparazioni dei danni di guerra, tranne quando, in casi speciali – il Papa forse pensava qui soprattutto al Belgio –, fosse dovuto un risarcimento. Doveva essere ripristinato il territorio del Belgio e sgombrate le regioni della Francia occupate dalla Germania, in cambio della restituzione delle colonie tedesche.
Le questioni controverse riguardanti i confini tra la Germania e la Francia, da un lato, e tra l’Italia e l’Austria-Ungheria, dall’altro, dovevano essere risolte con spirito di conciliazione, «tenendo conto, nella misura del giusto e del possibile […] delle aspirazioni dei popoli». Il Papa, su questo punto, non è più preciso; tuttavia, dal contesto si può capire che forse pensava ad alcune correzioni dei confini a beneficio della Francia e dell’Italia, nello spirito del principio di rispetto delle nazionalità, ma non certo di quello dei successivi trattati di Parigi. Quindi, per esempio, alcune parti della Lorena – ma non certo l’Alsazia – sarebbero andate alla Francia, mentre Trieste e il Trentino – ma non il Sud Tirolo fino al Brennero, cioè l’Alto Adige – all’Italia. Vi si aggiunge, solo in modo breve e generico, che lo stesso vale per i Balcani, l’Armenia e la Polonia.
I tentativi esplorativi di pace fatti dal Vaticano – che avevano preceduto questa Nota, ma che nel contenuto ne rispecchiavano lo spirito – erano rimasti senza successo. In particolare, il nunzio Pacelli aveva creduto, forse con troppo ottimismo, di aver trovato un riscontro positivo nei colloqui fatti a Berlino e a Bad Kreuznach con il cancelliere Bethmann-Hollweg e l’imperatore Guglielmo II. Poi però avevano avuto la meglio i militari guidati da Hindenburg e Ludendorff, che speravano in una vittoria militare e in vaste annessioni alla Germania[55].
Tuttavia l’Italia, nell’ambito dell’Intesa, al fine di non permettere una decisione preliminare riguardo alla «Questione romana», aveva già prevenuto un intervento decisivo della Santa Sede: infatti, nel trattato segreto di Londra del 26 aprile 1915, con il quale si obbligava a entrare in guerra al fianco dell’Intesa, aveva imposto l’art. 15, che stabiliva l’esclusione del Papa dalle future trattative di pace. Dopo la rivoluzione russa dell’«ottobre» – ovvero, secondo il calendario gregoriano, del novembre – 1917, questo trattato, come pure gli altri trattati del governo zarista, venne reso pubblico dai bolscevichi che erano giunti al potere. Per La Civiltà Cattolica, da un lato ciò rappresentava l’acme del principio del laicismo e dell’immoralità dello Stato e, dall’altro, si constatava che a questo fatto veniva attribuito tanto peso, proprio in quanto si riconosceva l’autorità morale del Papa[56].
Ma in che modo le tre riviste dei gesuiti commentano il piano di pace del Papa? Questo piano trovò tra i cattolici non soltanto approvazione, ma anche opposizione, soprattutto in Francia. La Civiltà Cattolica del 6 ottobre sostiene che, purtroppo, anche alcuni cattolici si sono lasciati trasportare dal loro orgoglio nazionale a respingere l’appello di pace pontificio. Si è certamente comprensivi nei loro confronti – continua il commento –, tuttavia si vede che gli argomenti attuali sono inefficaci contro le passioni, e si spera nel passare del tempo e in una riflessione pacata[57].
Ovviamente, p. Rosa concorda in pieno con la Nota di pace pontificia, facendo tuttavia qualche aggiunta. Riguardo al disarmo bilaterale, cita l’abolizione generale, e da concordare reciprocamente, della coscrizione obbligatoria, che sarebbe la radice della corsa agli armamenti. Pone un particolare accento sul fatto che il Papa parla delle «legittime aspirazioni» dei popoli, di cui si deve tener conto nella misura del giusto e del possibile, ma non di un rigido e dottrinale «principio di nazionalità», che sarebbe inattuabile o condurrebbe solo a conflitti insanabili[58].
Nel febbraio 1918, quando vengono annunciati i «Quattordici punti» del presidente americano Wilson, Rosa sottolinea che essi, come le dichiarazioni del premier britannico Lloyd George, non apportano nulla di nuovo a quanto già contenuto nell’appello di pace del Papa, ma non ne riprendono un elemento importante, vale a dire quello della rinuncia reciproca alle riparazioni dei danni di guerra[59]. In generale, tuttavia, esiste un’ampia concordanza: le accuse da parte dei massoni e dei liberali, secondo le quali il Papa propaganderebbe una «pace tedesca», sono infondate, e lo dovrebbero tener presente soprattutto quei cattolici in Francia e Italia che «hanno un po’ dimenticato il loro cattolicesimo a causa del loro nazionalismo»[60].
Sia Stimmen der Zeit sia Études commentano il piano di pace pontificio positivamente; tuttavia entrambe le riviste lo fanno secondo una propria lettura e un’accentuazione di tipo nazionale. Il contributo di Franz Ehrle – successivamente cardinale – in Stimmen der Zeit è per lo più teso alla conferma dell’atteggiamento della Germania[61].
L’autore fa notare che già in precedenza, alla fine del 1916, il governo e il parlamento avevano dichiarato la loro disponibilità a una pace frutto di un’intesa e di una compensazione reciproca. Le misure preventive proposte dal Papa – come l’arbitrato internazionale, il disarmo bilaterale o anche la libertà di navigazione nei mari – vengono accolte positivamente; tuttavia, ai fini di una prevenzione dei conflitti e dell’imposizione di un arbitrato internazionale, un mezzo efficace sarebbe costituito dalla cooperazione tra le potenze principali – in questo caso, tra la più forte potenza terrestre e quella navale, cioè tra Germania e Gran Bretagna –, che si può raggiungere dopo un accordo di pace con l’Inghilterra[62]. Quindi, in un certo senso l’autore propone una «spartizione del mondo» tra le due «superpotenze» che controllano insieme la pace mondiale, una «pax germanico-britannica», che non era politicamente realistica e senz’altro nemmeno nelle intenzioni del Papa. E se il Papa – continua Ehrle – parla delle «legittime aspirazioni» dei singoli popoli secondo un’autodeterminazione nazionale, bisognerebbe chiedersi «come e perché i popoli abbiano perso la loro autonomia nazionale; quale speranza ci sia per loro di un’esistenza ordinata, autocratica; e se poi il popolo abbia perso la propria indipendenza per un torto». Attualmente, in ogni caso per il popolo tedesco esiste un duplice dovere: «Lottare e resistere, ma essere anche disposti alla pace»[63].
In ambito cattolico, le resistenze più forti al piano di pace pontificio provennero dalla Francia. Nel secolo che intercorre tra il Vaticano I (1869-70) e l’Humanae vitae (1968) non vi è stata forse mai una protesta così forte intra-ecclesiastica contro una parola di un papa come la predica fatta dal domenicano Sertillanges il 10 dicembre 1917 a La Madeleine: «Santissimo Padre, non possiamo per il momento accettare il Suo appello alla pace»[64]. Études non si spinse fino a questo punto. Anche in precedenza la rivista aveva difeso il Papa dall’accusa di aver preso unilateralmente posizione a favore degli imperi centrali[65]. Ma questo atteggiamento più «difensivo» caratterizzava ora anche l’articolo di Yves de la Brière sul piano di pace pontificio, che era apparso già il 25 agosto non come editoriale programmatico, ma nell’ambito della «Chronique du mouvement religieux»[66]. Secondo l’autore, il Papa non poteva essere accusato di aver preso le parti degli imperi centrali: infatti, proprio da loro egli si aspettava un sacrificio territoriale che di sicuro essi non avrebbero fatto.
Più grave è il fatto che in fondo egli consideri il piano di pace pontificio una semplice concessione e una rinuncia al chiaro punto di vista del diritto, qualora non fosse possibile superare lo stallo militare e non si potesse imporre pienamente il diritto. «Pertanto – continua de la Brière – la parte che conduce una guerra giusta ha il diritto di rifiutare queste condizioni come insufficienti, specialmente se crede – come è attualmente convinzione generale in Francia – di poter raggiungere, soprattutto grazie all’aiuto americano, una pace che sia più conforme al diritto e che sia garantita anche per le generazioni future»[67]. In questo modo il piano di pace pontificio viene fondamentalmente svuotato di valore da tale limitazione: da un’intesa di pace che renda possibile una riconciliazione duratura esso diventa una «soluzione di ripiego» nel caso non sia possibile ottenere quella migliore, vale a dire la chiara vittoria della «giusta causa».
Hindenburg e Ludendorff, dall’altra parte, argomentarono alla stessa maniera; e quando, nell’autunno del 1918, si dichiararono pronti ad aderire a un accordo di pace nel senso voluto da Wilson, era troppo tardi.
Un impegno attivo a favore dell’iniziativa di pace pontificia non provenne quindi né da Stimmen né da Études, ma solo da La Civiltà Cattolica. A ciò corrispose anche la presa di posizione sul trattato di pace di Versailles, che si andava delineando. Una presa di posizione che è negativa già ne La Civiltà Cattolica del 1° febbraio 1919[68]. Il Congresso di pace che si tiene a Parigi – afferma la rivista – mira a una pace dei vincitori che si spartiscono tra loro il bottino e che porta in sé il germe di guerre future. Ma se anche la violenza dei vincitori riuscisse a sottomettere per anni i vinti, questa, più che una pace vera, sarebbe la prosecuzione della guerra: invece di ripristinare l’ordine, essa creerebbe sfiducia reciproca e instabilità permanente. I veri vincitori sarebbero i socialisti, i quali mettono a nudo le contraddizioni interne dell’ordinamento liberal-borghese e preparano la rivoluzione mondiale.
Ma per Paul Dudon, di Études, le dure condizioni di pace di Versailles sono la giusta punizione alla Germania per aver fatto scoppiare dolosamente la guerra, e all’intera nazione per essersi fatta contagiare, con poche eccezioni, dalla febbre di dominio sul mondo. «L’estrema presunzione e la sete di potere che contraddistinguono il principe e la casta militare si sono diffuse come una febbre in tutta la nazione. Le leghe patriottiche di ogni tipo, animate dal soffio potente della Lega pangermanica, hanno diffuso il male per tutti gli strati della società: artigiani e borghesi, contadini e industriali, professori e sacerdoti, protestanti e cattolici, deputati ed elettori, tutti hanno creduto di tutto cuore al superuomo tedesco. Adesso è giunto il momento di regolare i conti»[69].
Già nella sua esortazione apostolica del 28 luglio 1915, a un anno dallo scoppio della Prima guerra mondiale, Benedetto XV pronuncia parole che saranno citate continuamente da La Civiltà Cattolica durante tutti gli anni di guerra: «Riflettasi che le Nazioni non muoiono: umiliate ed oppresse, portano frementi il giogo loro imposto, preparando la riscossa e trasmettendo di generazione in generazione un triste retaggio di odio e di vendetta»[70]. I fatti avrebbero dato ragione al Papa.
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[1]. J. Lebreton, «Pensées chrétiennes sur la guerre», in Études 144 (1915) 5.
[2]. Ivi, 29.
[3]. Cfr P. Lippert, «Zum Beginn des Europäischen Krieges», in Stimmen der Zeit 87 (1914) 574; cfr Id., «Weltkrieg und religiöses Bekenntnis», ivi 88 (1915) 4-10.
[4]. Cfr Id., «Die Gefallenen unseres Volkes», ivi 88 (1915) 408 s.
[5]. R. von Rostitz-Rieneck, «Völkerkrieg und Volksseelenerhebung», ivi, 320.
[6]. Cfr P. Lippert, «Zum Beginn des Europäischen Krieges», 87 (1914) 574; 576; 88 (1915) 8 s; 89 (1915) 5-7.
[7]. Cfr J. Fröbes, «Wie entstehen Massenüberzeugungen?», ivi 88 (1915) 421-432.
[8]. Cfr S. von Dunin-Borkowski, «Wahrheit und Krieg», ivi 89 (1915) 420-427.
[9]. In relazione all’invasione del Belgio: M. Reichmann, ivi 89 (1915) 90; sulla guerra sottomarina, cfr S. von Dunin-Borkowski, ivi 93 (1917) 612 s.
[10]. Su questo, cfr C. Arnold, «La guerre allemande et le catholicisme (1915) – Katholisch-theologische Kriegsarbeit und die Nachwirkungen der Modernismuskrise», in D. Burkard – N. Priesching (eds), Katholiken im langen 19. Jahrhundert, Akteure – Kulturen – Mentalitäten, Regensburg, Pustet, 2014, 299-312.
[11]. Cfr la recensione della redazione, in Stimmen der Zeit 89 (1915) 384-386.
[12]. Cfr B. Ibeas, «El catolicismo y la guerra», in España y America, n. 16 del 15 agosto 1915.
[13]. Cfr M. Reichmann, «Eine neutrale Stimme über Krieg und Katholizismus», in Stimmen der Zeit 90 (1915) 506-512.
[14]. Cfr Y. de la Brière, «Les catholiques français aux catholiques des Pays neutres», in Études 143 (1915) 266 s.
[15]. Cfr A. V. Hidalgo, «La guerre et les neutres», ivi 142 (1915) 234 s.
[16]. P. Lippert, «Menschenliebe und Völkerhass», in Stimmen der Zeit 89 (1915) 8 s.
[17]. Cfr P. Dudon, «Qui a voulu la guerre?», in Études 142 (1915) 32 s.
[18]. Cfr M. Reichmann, «Ob Macht ein Recht zum Kriege gibt?», in Stimmen der Zeit 89 (1915) 86-90.
[19]. Cfr P. Lippert, «Die Nationen in der katholischen Kirche», ivi, 305-316. Cfr S. von Dunin-Borkowski, «Weltkrieg und Nationalismus», ivi 90 (1916) 121-142; C. Pesch, «Das Evangelium und der Friede», ivi 91 (1916) 47-65; S. von Dunin-Borkowski, «Die Philosophie des Völkerhasses», ivi 93 (1917) 601-613.
[20]. P. Lippert, «Die Nationen in der katholischen Kirche», ivi 89 (1915).
[21]. Ivi, 313.
[22]. Così già R. Marlé, «La guerre de 1914 dans les “Études” et dans les “Stimmen der Zeit”», in Études 321 (1964) 203-215.
[23]. Cfr L. des Brandes, «L’hégémonie allemande et la guerre présente», ivi 140 (1914) 472-487.
[24]. Cfr L. Roure, «Patriotisme, Impérialisme, Militarisme», ivi 142 (1915) 433-453; P. Dudon, «La politique allemande», ivi 143 (1915) 41-67; Id., «Nation de proie», ivi 148 (1916) 5-33; A. Eymieu, «Les causes de la guerre et la Providence», ivi 152 (1917) 5-22.
[25]. Cfr P. Dudon, «Nation de proie», ivi 148 (1916) 23 s.
[26]. Cfr A. Eymieu, «Le causes de la guerre et la Providence», ivi 152 (1917) 12-14.
[27]. B. Emonet, «Pourquoi se bat-on?», ivi 156 (1918 III) 269.
[28]. Cfr Y. de la Brière, «Les catholiques français aux catholiques des pays neutres», ivi 143 (1915) 266-281.
[29]. Ivi, 274.
[30]. Cfr ivi, 277. Che ciò non fosse del tutto campato in aria lo mostra il fatto che nel caso degli eccessi in Belgio e, soprattutto nell’incendio della biblioteca di Lovanio, si erano riflessi i pregiudizi anticattolici del Kulturkampf: cfr J. Leonhard, Die Büchse der Pandora. Geschichte des Ersten Weltkriegs, München, C. H. Beck, 2014, 171; 173.
[31]. M. Reichmann, «Französiche Stimmen zu dem Buche: La Guerre Allemande et le Catholicisme», in Stimmen der Zeit 89 (1915) 490.
[32]. Su questo argomento, cfr F. Traniello, «Guerra, Stato, Nazione negli scritti di Padre Rosa apparsi sulla “Civiltà Cattolica” (1914-18)», in G. Rossini (ed.), Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale, Roma, 5 Lune, 1963, 661-677.
[33]. Cfr E. Rosa, Visione cattolica della guerra, Roma, Rassegna Internazionale, 1920.
[34]. Su quest’ultimo argomento, cfr Y. de la Brière, «La guerre et la doctrine catholique», in Études 141 (1914) 202-211.
[35]. Cfr «I cattolici e la confusione dei partiti nella guerra», in Civ. Catt. 1916 III 645.
[36]. Cfr «Guerra e civiltà», ivi 1915 II 517-529; «Il “ripetuto grido di pace” contro il “suicidio dell’Europa civile”», ivi 1916 I 644-648; «“Il suicidio dell’Europa civile”. Sue cagioni e suoi complici», ivi 1916 II 3-16.
[37]. Cfr «Guerra e civiltà», ivi 1915 II 517-529; 1915 III 646 s; 1915 IV 513-527; 1916 IV 513 s.
[38]. Cfr «Dopo un triennio di follia. Pensieri di buon senso», ivi 1917 III 289-300.
[39]. Cfr «Principii cattolici e rivoluzioni di partiti nella guerra», ivi 1917 II 5-20; si vedano le parti depennate dalla censura in E. Rosa, Visione cattolica della guerra, cit., 227 s.
[40]. Cfr Civ. Catt. 1915 III 134; 1916 III 648 s; 1917 II 17.
[41]. Cfr ivi 1915 III 134; 1917 II 17; E. Rosa, Visione cattolica della guerra, cit., 25 s; 227 s.
[42]. Cfr «I moniti della guerra e gli insegnamenti dell’enciclica», in Civ. Catt. 1915 I 8-24.
[43]. Ivi 1915 IV 392; cfr anche ivi 1916 IV 520.
[44]. Cfr «Nazionalismo e amor di patria secondo la dottrina cattolica», ivi 1915 I 129-144; «L’armistizio degli eserciti e le rivoluzioni dei popoli», ivi 1918 IV 452-468.
[45]. Cfr ivi 1917 II 455-457.
[46]. Cfr ivi 1914 III 499 s; 1915 II 13; 18.
[47]. Cfr ivi 1917 I 515 s.
[48]. Cfr ivi 1916 II 528.
[49]. Cfr ivi 1915 III 134 (si trova in E. Rosa, Visione cattolica della guerra, cit., 25).
[50]. Cfr «Dopo un triennio di “follia”. Pensieri di buon senso», in Civ. Catt. 1917 III 298.
[51]. Cfr «La parola del Papa e le voci della stampa», ivi 1915 III 646.
[52]. Su questo argomento, cfr J. Ernesti, Benedikt XV. Papst zwischen den Fronten, Freiburg/Bsg., Herder, 2016.
[53]. Cfr «I moniti della guerra e gli insegnamenti dell’enciclica», in Civ. Catt. 1915 I 8-24; «L’opera e la dottrina di pace del S. Padre Benedetto XV», ivi 1915 II 257-268; «Note di guerra», ivi 1915 III 129-148; «Benedetto XV e il suo nuovo messaggio di pace», ivi 385-396; «La parola del papa e le voci della stampa», ivi 641-653; «Il “ripetuto grido di pace” contro il “suicidio dell’Europa civile”», ivi 1916 I 644-648; «“Il suicidio dell’Europa civile”. Sue cagioni e suoi complici», ivi 1916 II 3-16; «Il papa e il congresso della pace nella stampa liberale», ivi 513-528; «La parola dei politici e l’opera pacifica del papa», ivi 1916 IV 513-527; «La forza del diritto proclamata dal papa contro il diritto della forza», ivi 648-653.
[54]. Cfr «Le note di guerra e i discorsi di pace», ivi 1917 I 395.
[55]. Cfr J. Ernesti, Benedikt XV…,cit., 124-139.
[56]. Cfr «Il pregiudizio anticlericale nella guerra e l’articolo 15 nel parlamento italiano», in Civ. Catt. 1918 II 3-16.
[57]. Cfr «L’appello del Papa per la pace e le prime risposte dei governi belligeranti», ivi 1917 IV 4.
[58]. Su questo argomento, cfr «Le “giuste aspirazioni dei popoli”», ivi 1918 I 481-492; II 193-201; 490-502.
[59]. Cfr «I discorsi degli statisti alleati e l’appello di pace del Papa», ivi 1918 I 193-200; 289-303.
[60]. Ivi, 303.
[61]. Cfr F. Ehrle, «Die päpstliche Friedensnote an die Häupter der kriegführenden Völker vom 1. August 1917», in Stimmen der Zeit 94 (1917) 1-28.
[62]. Cfr ivi, 25.
[63]. Ivi, 27.
[64]. Su queste proteste, cfr J. Ernesti, Benedikt XV…,cit., 145.
[65]. Cfr P. Dudon, «Le pape et la guerre», in Études 142 (1915) 289-311.
[66]. Cfr Y. de la Brière, «L’offre de Médiation diplomatique de Benoît XV», in Études 152 (1917) 641-659.
[67]. Ivi, 649.
[68]. Cfr «La conferenza della pace e i timori di nuove guerre», in Civ. Catt. 1919 I 177-191; «L’ipocrisia della politica e il fallimento del congresso della pace», ivi 1919 III 3-15.
[69]. P. Dudon, «L’Allemagne vue par deux Ambassadeurs Americains», in Études 159 (1919) 580.
[70]. Benedetto XV, Esortazione apostolica Allorché fummo chiamati, in AAS VII (1915) 367.