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Cormac McCarthy è deceduto «per cause naturali»[1] lo scorso 13 giugno, presso la sua abitazione a Santa Fe (New Mexico), alla soglia dei 90 anni. L’ultima fatica letteraria su cui aveva lungamente lavorato – il dittico formato dai romanzi Il passeggero e Stella Maris (2022) – assume così il duplice valore di epitome letteraria e di testamento spirituale. L’opera, di grande complessità strutturale e filosofica, ha disorientato i lettori, che l’hanno avvicinata sull’eco mondiale suscitata dalla morte dell’autore. Non è, in effetti, il miglior punto di partenza, e forse solo quanti hanno seguito McCarthy fin qui possono apprezzarne lo spessore di autobiografia intellettuale[2].
Più volte proposto dai media per il Nobel per la Letteratura, McCarthy si è invece distinto per riservatezza ed estrema parsimonia nel concedere interviste, accrescendo attorno a sé una certa aura di leggenda. Il successo lo aveva raggiunto solo alla quinta opera, grazie all’appassionata divulgazione di critici come Harold Bloom[3], ed era stato amplificato dal Premio Pulitzer per La strada, quasi un Vangelo del terzo millennio[4]. Il plauso congiunto di critica e pubblico è giustificato dalla capacità di riprendere e rivitalizzare in piena postmodernità generi letterari ben definiti, persino pop – il western, l’avventura sul fiume, l’on the road, il picaresco, il noir, la distopia –, innervandovi una dirompente tensione metafisica che dilata fino al loro estremo limite le maglie della forma-romanzo, senza tuttavia rinunciare al gusto per la narrazione.
Questo spiega in parte il peculiare rapporto di McCarthy con il cinema. Sebbene dai suoi romanzi siano stati tratti numerosi film, e lui stesso abbia firmato una sceneggiatura originale per una pellicola[5], raramente le trasposizioni sul grande schermo hanno convinto. Forse perché nelle sue opere, nonostante il ritmo epico e l’elevata carica di azione, il vero motore è ben altro, e irrappresentabile: le grandi domande metafisiche. Che cos’è un uomo? Perché c’è il male? Qual è il nostro posto sulla terra? C’è un Dio? Sono gli interrogativi che ritroviamo negli autori dichiaratamente più cari a McCarthy – Hermann Melville, Fëdor Dostoevskij, William Faulkner, Flannery O’Connor[6] –, ed è sorprendente che, dopo la cosiddetta «fine delle grandi narrazioni», qualcuno sia tornato a porle al centro con tanta ostinata, implacabile insistenza. Il lettore di McCarthy non è mai rassicurato da risposte preconfezionate che, in ogni caso, saranno conquistate a caro prezzo. In questo contributo vorremmo fornire a chi si avvicina ai romanzi di McCarthy alcune chiavi di lettura per addentrarsi nel suo universo simbolico.
Squarciare le vene delle realtà
«Nel mondo attuale – sosteneva José Bergamín, anticipando un noto passo delle Città invisibili di Calvino – l’uomo, piuttosto che interrogarsi sull’Inferno, sembra preferire, semplicemente, di adattarvisi, di renderselo più o meno confortevole fin da ora, negando più o meno esplicitamente la possibilità di un suo prolungarsi al di là della morte»[7]. L’interrogativo che innesca l’opera di McCarthy fin dal suo esordio (Il guardiano del frutteto, 1965[8]) è proprio quello sulla presenza del male nel mondo. Già nella seconda opera, tuttavia, McCarthy si sposta da un piano ermeneutico socio-psicologico a uno dichiaratamente mitico e metafisico. Ne Il buio fuori (1968) l’autore sceglie di rappresentare, tra le tante modalità attraverso cui il male si manifesta, quella che ritiene più evidente, perché più difficile da negare, spiegare e in qualche modo rimuovere: il male come violenza fine a sé stessa, insensata e priva di tornaconto. Qui è simbolizzata in tre individui circonfusi da un’aura di «ingannevole santità», una «terribile trinità», che pare «scaturire dalla terra stessa» per commettere ogni genere di efferatezza[9].
L’orizzonte cupo che grava sui successivi romanzi di McCarthy deriva dalla scelta di raccontare senza compiacimento una galleria di assassini assolutamente irrazionali, per comporre uno «stato d’inferno» che non è possibile ignorare e con il quale non si può patteggiare. Lester Ballard, protagonista di Figlio di Dio (1973) è a suo modo il più umano di questi personaggi. In seguito a una serie di incidenti che ne minano il precario equilibrio psichico e lo privano delle sue misere proprietà, Ballard si trasforma nel prototipo del serial-killer. Si rifugia nei boschi, uccide e indossa abiti e scalpi delle proprie vittime, ne trascina i cadaveri nelle grotte dove vive, ricomponendoli «in atteggiamento di riposo», quasi «santi nelle catacombe»[10]. Forse un sostituto della comunità che lo ha esiliato? Anche la necrofilia rappresenta, pur nel suo completo stravolgimento, l’ineliminabile necessità di mantenere un contatto con i propri simili umani. Ballard, che è ancora capace di versare lacrime davanti alla bellezza del mondo e di rispecchiarsi nel volto di un bambino intravisto sull’autobus, si riunirà infine al consorzio umano.
Nel giovane assassino coincidono gli opposti abissi dell’essere umano: è «un figlio di Dio come voi» o rappresenta l’«avvento futuro di mostri ancora peggiori»[11]? Provocatoriamente, la domanda viene posta mentre un gruppo di giovani medici dissezionano il cadavere di Ballard con meno rispetto di quanto egli abbia mai riservato alle proprie vittime.
Se per Ballard è ancora possibile provare un qualche senso di pena, i killer dei successivi romanzi saranno creature d’imparagonabile crudeltà. Appaiono dal nulla, esseri senza passato né futuro, che hanno volutamente rimosso ogni legame con la razza umana, verso la quale si rapportano come spietati predatori. Meridiano di sangue (1985) è stato definito «il romanzo più sanguinoso mai scritto»[12]. Qui, a capo di una banda di cacciatori di scalpi, troviamo il glabro giudice Holden – quasi una fusione tra il capitano Achab e l’odiata Balena Bianca –, che ci viene descritto attraverso un climax d’indizi che sfocia apertamente nel diabolico. Anton Chirugh, il «profeta della distruzione» di Non è un paese per vecchi (2005), uccide le proprie vittime con il pistone ad aria compressa adoperato nei macelli per il bestiame. La glaciale Malkina (The counselor – Il procuratore, 2013) giustifica lo sterminio alle proprie spalle con una dichiarazione d’amore verso la purezza delle bestie cacciatrici. Le bande di cannibali che popolano il mondo post-apocalittico di La strada (2006) non sono che l’anonima produzione di massa di queste figure.
A nessuno di loro nasce il dubbio che possano essere – o tornare a essere – «figli di Dio». La loro scelta di campo è definitiva e irredimibile, dunque infernale: agenti di un male ultraterreno, sprezzatori dell’umano, blasfeme epifanie del mysterium iniquitatis nella storia. «L’esistenza di Satana spiega un mucchio di cose che altrimenti non si possono spiegare», osserva un attonito sceriffo[13]. Per McCarthy, dunque, il male non è soltanto absentia boni, ma una forza disgregante attiva, secondo un assunto di derivazione biblica piuttosto che filosofica. Sull’esistenza di Satana tornerà a interrogarsi anche nel suo ultimo romanzo, Stella Maris, citando ripetutamente alcuni passaggi da Ortodossia dello scrittore inglese Gilbert K. Chesterton.
McCarthy pare inoltre condividere la lezione di Flannery O’Connor, per la quale, «a garanzia del nostro senso del mistero, occorre un senso del male che veda il diavolo come uno spirito reale, spirito che va costretto a dichiararsi, e non semplicemente come un male indefinito, bensì con una personalità specifica per ogni occasione»[14].
Tale esplicazione chiama in gioco la responsabilità, e dunque la libertà, del protagonista (e del lettore), costretto a un’inequivoca presa di posizione tra la codarda passività della connivenza e il coraggio disilluso del combattimento. «Disilluso», perché chi accetta lo scontro frontale sa che non ne uscirà indenne. Raramente chi si oppone a questi killer scampa alla morte, cioè al limite umano, incrinatura nell’invincibile armatura dell’autosufficienza che, proprio perché apre l’uomo alla possibilità dell’invocazione, lo distingue dal suo disumano avversario. La sola vittoria possibile non è dunque decisa dal «salvare la propria vita» quanto dalla disposizione a «mettere a rischio la propria anima»[15].
Nelle pagine di McCarthy la violenza non risulta fine a sé stessa, ma serve quale espediente per squarciare le vene delle realtà e veder scorrere fuori dalla giugulare del mondo la sostanza delle cose. Quasi una manifestazione metaforica di quella sete di conoscenza che lo ha accompagnato per la vita intera. Come già per la narrativa di O’Connor, la violenza è adottata quale strumento affinché anche l’uomo riveli «i tratti insopprimibili della sua personalità: tutto ciò che dovrà portare con sé nell’eternità»[16]. A questa visione McCarthy aderisce integralmente. Per mettere alla prova le cose, ricorda un suo personaggio, è necessario farle sanguinare: «le vergini, i tori, gli uomini. E in definitiva Dio stesso»[17].
Attraverso le frontiere della vita
«Tuttavia lui proseguì. Dicendosi che era solo di passaggio»[18]: inseguiti e inseguitori, fuggiaschi e vagabondi, ciechi e mendicanti, farabutti e predicatori, i personaggi di McCarthy non conoscono riposo, incarnazione contemporanea dell’homo viator, metafora di un’esistenza umana incamminata verso l’appuntamento con il destino che viene loro incontro.
Da Suttree (1969) alla «Trilogia della Frontiera» (1992-98) fino a La strada e Il passeggero (2022) individuiamo alcune significative variazioni nell’immagine della strada. Suttree e La strada, in particolare, possono essere considerate due autobiografie antitetiche. Suttree, il più voluminoso tra i romanzi di McCarthy, narra con raffinata eleganza e fine umorismo i vagabondaggi di Cornelius «Buddy» Suttree, alcolista ex carcerato che, abbandonati moglie e un bambino di cui non riesce a ricordare il volto, cerca un qualche equilibrio guadagnandosi da vivere come pescatore a Knoxville, nel Tennessee. Ammazza il tempo in una baracca lungo il fiume tra espedienti, «cameratismo da condannati», sbronze e risse con i compagni della bidonville, una quasi-paternità verso un adolescente sgangherato, occasionali storie di sesso e nostalgie d’amore autentico: la vita di un fuggitivo terrorizzato dalla morte. «Devo andare» è l’imperativo interiore che lo costringe a non restare mai troppo a lungo in alcun luogo, tuffandosi a capofitto in un groviglio di sentieri senza destinazione.
Se Suttree contiene, per ammissione dell’autore, numerosi episodi di gioventù, potrebbe apparire strano sostenere che la sua opera più autobiografica sia quella parabola distopica che è La strada. Qui solo, tuttavia, la vita privata di McCarthy è esibita fin dalla dedica in apertura – unica nell’intero corpus – al figlio John Francis. Due anni dopo l’uscita del romanzo, McCarthy ha inoltre spiegato di considerare John coautore del romanzo, perché numerosi dei dialoghi presenti sono la trascrizione delle conversazioni con il figlio allora bambino[19]. Il risultato è una prosa sorvegliata, essenziale, persino lapidaria. Protagonisti di La strada sono un uomo e un bambino, barboni ben più cenciosi di Cornelius Suttree, costretti ad aggirarsi in un mondo ridotto a baraccopoli universale.
Le loro due figure camminano nel nulla di un inanimato «mare di rifiuti», eppure hanno una mèta: il sud, il mare temperato, la speranza di sopravvivere – forse – a un altro inverno. Se il titolo evoca subito un’intera tradizione letteraria che va da Jack London a Jack Kerouac, «la strada» è al tempo stesso un modo di stare al mondo, un percorso etico dal quale non è ammesso deviare, se si vuole conservare la propria umanità.
Nel mondo spietato dell’homo homini lupus, la strada significa attenersi a una sola quanto rivoluzionaria regola: non cibarsi delle altre persone, non diminuire le vite altrui per accrescere la propria. Essere buoni risulta così un punto di arrivo che non si conquista con le proprie forze, perché, nonostante il protagonista sia mantenuto in vita dalla responsabilità verso suo figlio, al tempo stesso sarà il bambino – «calice d’oro, buono per contenere un dio»[20] – a prendersi cura dell’uomo, stimolandone gli atteggiamenti atrofizzati da un mondo dominato dal terrore: lo stupore, il ringraziamento, la pietas, la preghiera, la fiducia negli altri, la condivisione.
Tra Suttree e La strada, McCarthy scrive i romanzi di formazione della «Trilogia della Frontiera», composta da Cavalli selvaggi (1992), Oltre il confine (1994) e Città della pianura (1998). Le avventure dei cowboy John Grady e Billy Parham a cavallo del confine tra Texas e Nuovo Messico costituiscono un grandioso affresco sulla spinta che conduce l’uomo a lasciare la propria casa per necessità materiale o per anelito di libertà, nel desiderio di costruire il futuro senza mai guardarsi indietro o nell’illusione di riscattare il passato senza mai guardarsi avanti. La Trilogia sviluppa, tra gli altri temi, una lunga meditazione sul rapporto tra realtà e rappresentazione, concludendosi con una decisa adesione alla letteratura in quanto testimonianza tipologica della vita. Anche il vagabondo solitario come «tronco senza radici né rami» mantiene infatti un legame con il resto del genere umano, poiché «tutti gli uomini sono uno e non vi è un’altra storia da raccontare»[21].
Depositario di una verità più grande di sé stesso, l’uomo può percorrere la propria strada come ignaro testimone del mistero che arde nel fondo delle cose. Ogni storia e ogni dettaglio risultano tuttavia necessari; pertanto nessun uomo merita disprezzo in quanto tipo dei suoi simili. L’atteggiamento da assumere è precisamente quello opposto: l’apprezzamento, il ringraziamento. Qualcosa di simile alla preghiera? «Questa tua vita non è un ritratto del mondo. È il mondo stesso, e non è fatta di ossa o di sogni o di tempo, ma di devozione»[22], recitano le pagine conclusive della Trilogia. E ancora, in una sorta di magna charta che potremmo a ragione intitolare Ecce homo: «La morte di ogni uomo fa le veci di quella di ogni altro. E poiché la morte non viene per tutti, non c’è altro modo di placarne la paura se non amando l’uomo che fa le nostre veci. Non stiamo ad aspettare che la sua storia venga scritta. È passato di qui molto tempo fa. Quell’uomo che è tutti gli uomini, e che sta sul banco degli imputati al nostro posto, finché non arriva il nostro momento e tocca a noi starci al posto suo. Lo ami, quell’uomo? Onori il cammino che ha intrapreso? Sei pronto ad ascoltare ciò che ti narrerà?»[23].
Di generazione in generazione
Nella notte senza confini che avvolge la prateria addormentata, la fiamma di un bivacco perfora la tenebra come stella solitaria in un cielo capovolto. Insieme al viaggio, l’immagine del fuoco è la più persistente nella narrativa di McCarthy. Poiché el compartir es la ley del camino, come ricorda uno degli indimenticabili messicani della Trilogia, niente meglio del fuoco racchiude in sé la coincidenza tra civiltà e ospitalità, la condivisione come fondamento della comunità umana, pur con le sue mille ambiguità (il fuoco può segnalare la propria presenza al nemico) e contraddizioni (attorno al fuoco ci si può anche uccidere). Ma è pur sempre una fiamma che riscalda, asciuga, cuoce, raduna gli uomini, allontana le bestie selvatiche e soprattutto infrange l’imperscrutabilità delle tenebre: metafora, quest’ultima, quasi assillante. Fuori del perimetro di luce donato dal fuoco vi è il mondo inumano dei predatori e dei messaggeri del buio che vi si aggirano senza dare né chiedere aiuto, monadi ingenerate e incapaci di generare.
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I protagonisti hanno invece un forte quanto conflittuale legame con chi li ha preceduti: non solo il padre, ma anche la generazione precedente, gli immancabili e autorevoli «vecchi» chiamati spesso a supplire. Ne è un esempio calzante Granellen, nonna del protagonista di Il passeggero, orfano di entrambi i genitori, morti di cancro per lo stretto contatto con il luogo dove si creerà il nuovo «frutto proibito»: il Progetto Manhattan per lo sviluppo della prima bomba atomica.
Granellen, personaggio positivo a tutto tondo, cresciuto non alla scuola della scienza ma della sapienza biblica, sembra essere l’unica in grado di comprendere gli spettri che agitano suo nipote[24]. I «vecchi» appaiono come anello di congiunzione con l’aurea epoca degli Avi, custodi di un ordine forse smarrito, che si fatica a trasmettere a un mondo per loro sempre più incomprensibile. Così lo sceriffo Bell – nel romanzo intitolato, appunto, Non è un paese per vecchi – vive uno schiacciante complesso di colpa e nostalgia nei confronti degli uomini di legge che lo hanno preceduto: «Non sono un uomo del passato, come molti credono. Mi piacerebbe, ma non è così. Sono un uomo del presente». Un presente nel quale l’ultima parola di speranza è rappresentata dal sogno del nonno che lo precede a cavallo, portando una torcia per accendere un fuoco e attenderlo, nonostante il buio e il freddo.
L’immagine del fuoco trasmesso da una generazione all’altra diventa fondamentale in La strada, quasi una parola chiave identificativa dei «buoni»: portatori del fuoco sono l’uomo e il bambino; portatori del fuoco sono pure la famiglia che appare nel finale, tutti accomunati dall’atto di fede nella bontà del generare e dare alla vita. Il fuoco è qualcosa dentro di noi, ma che al tempo stesso si riceve, e va mantenuto acceso perché sia visibile all’esterno e ravvivato anche negli altri.
È quanto avviene in Sunset Limited (2006)[25], «romanzo in forma drammatica» e per lungo tempo l’unico di McCarthy privo di vagabondaggi, ambientato in una stanza – una casa! –, quasi fosse un punto d’arrivo. Intorno a un tavolo si fronteggiano il Bianco e il Nero, in una discussione dove in palio c’è il significato della vita, quasi una partita a scacchi di bergmaniana memoria. Il Bianco ha deciso di farla finita e ha appena tentato di gettarsi sotto un convoglio; il Nero lo ha salvato e ora tenta di rinvigorirne il fuoco vitale, perché anche nel Bianco riconosce la presenza di «una luce buona. Una luce vera». In Sunset Limited, per la prima volta, McCarthy non si appella al Demiurgo imperscrutabile dei suoi precedenti romanzi, ma nomina apertamente Gesù. Un Gesù che, va detto subito, si radica nella sua antropologia tipologica («Non c’è verso che Gesù sia un uomo senza che un uomo sia Gesù») e nella conseguente devozione all’umanità. E al tempo stesso il suo Gesù è qualcuno che promette qualcosa che supera le possibilità umane: «Lui ha detto che si poteva avere la vita eterna. La vita. Averla oggi. Tenerla in mano. E poterla vedere. Emana una luce. Ha anche un certo peso. Non tanto. Ed è calda a toccarla. Appena appena. Ed è eterna. E tu la puoi avere. Oggi»[26].
La fede di McCarthy è rivolta sempre a una trascendenza incarnata, a messaggeri del fuoco o delle tenebre che danno loro volto e sostanza, ma al tempo stesso ne travalicano le singole forme. Per il Premio Pulitzer – convinto assertore di una giustizia retributiva, in quanto solo le decisioni personali hanno la capacità di attuare nel reale i mondi del possibile – la religione è innanzitutto un atto di responsabilità verso i propri fratelli («Bisogna amare i propri fratelli, altrimenti si muore»[27]). Una «religione dei vivi» che non deve debilitare la coscienza sostituendosi a essa, ma rafforzarla in preparazione degli inevitabili scontri con le forze disgreganti della comunità.
Questioni di vita e di morte
«Non mi interessa scrivere storie brevi. Qualunque cosa che non ti occupi anni interi della vita e non ti spinga al suicidio mi sembra che sia qualcosa che non vale la pena», aveva dichiarato McCarthy in una rara intervista al Wall Street Journal[28]. Anche Rolling Stones, in visita al Santa Fe Institute, dove lo scrittore è stato ospite e fiduciario per quasi 40 anni, lo sorprese mentre intavolava una discussione sul suicidio con alcuni biologi[29].
Il suicidio ricorre di rado nei romanzi di McCarthy, ma viene fatto in maniera significativa. Suicida è la moglie del protagonista di La strada («Quanto a me, spero solo di raggiungere il nulla eterno»[30]); suicida è il Bianco, il «professore delle tenebre», che incontriamo in Sunset Limited («Adesso mi resta solo la speranza del nulla»[31]). Per entrambi non si tratta dell’esito di una patologia depressiva, ma di una conclusione necessaria a cui si è giunti attraverso un pensiero febbrile, l’insonnia della ragione. Alla luce dell’antropologia tipologica fin qui osservata, anche il suicidio assume rilevanza universale, come ben osservava Chesterton: «L’uomo che uccide sé stesso, uccide tutti gli uomini; per quanto lo riguarda, cancella il mondo»[32].
Il «caso serio» del suicidio è al centro del dittico che McCarthy ci ha consegnato alla fine della propria vita. Il passeggero e Stella Maris raccontano la storia dei fratelli Bobby e Alicia Western – fisico di formazione lui, lei precoce quanto vertiginoso genio matematico –, figli di uno scienziato che lavorava allo sviluppo del primo ordigno atomico. A legarli c’è inoltre il più antico dei tabù, una passione reciproca che porta Bobby a fuggire dalla sorella minore. Per dimenticarla, egli lascia la carriera universitaria e si getta in lavori sempre più pericolosi, tra cui le corse automobilistiche. Il passeggero si apre con il rinvenimento del corpo senza vita di Alicia, la quale – apprenderemo in Stella Maris, che si svolge 10 anni prima – non trovava più ragioni di vita dopo che un incidente stradale aveva sprofondato Bobby in un coma irreversibile. Svanisce così nel rimpianto, per Alicia, la sola speranza di gioia in un mondo che ritiene riservare solo infelicità «innata e collettiva»[33]. Bobby, che a dispetto di ogni calcolo probabilistico (chiamiamolo pure «miracolo») si risveglierà dal coma, dovrà fare i conti con la morte della sorella e una vita di rimorsi. Scendendo passo dopo passo i gradini di un’estrema spoliazione esistenziale[34], Bobby accetterà coraggiosamente di vivere i propri giorni in una sorta di mistica espiazione. Lo lasceremo durante la Settimana Santa, in attesa della sua domenica di Risurrezione, mentre prega senza sapere chi o cosa, ultimo pagano sulla terra animato dalla speranza di rincontrare la sorella dopo, o nella morte.
Stella Maris sembra riallacciarsi strutturalmente e tematicamente proprio a Sunset Limited. Anch’esso si svolge in una sola stanza, per quanto sia quella di un centro psichiatrico, e non prevede altra azione drammatica che l’alternarsi delle voci di Alicia Western e del dottor Cohen. Alicia si è infatti ricoverata per la terza volta, perché affetta da schizofrenia paranoide con allucinazioni visive e auditive[35].
Nonostante i sette capitoli di Stella Maris documentino altrettante sedute psichiatriche, a differenza del Nero di Sunset Limited, il dottor Cohen non riesce a portare argomenti esistenzialmente rilevanti per convincere Alicia a non uccidersi: la sua figura sembra più che altro un espediente letterario per ritmare quello che è, di fatto, un lungo monologo. Ed è forse questo immane senso di solitudine a giustificare, più delle fini argomentazioni filosofiche illustrate, perché Alicia si suiciderà. Lei lo farà nel giorno di Natale, a ridosso del suo stesso compleanno.
Ha senso chiedersi se McCarthy parteggi per il Nero o per il Bianco, per Bobby o per Alicia? Non rappresentano entrambi parti sostanziali della sua interiorità, alle quali ha dato pari possibilità di esporre le proprie ragioni? Propria di McCarthy è la radicalità della visione, il rifiuto di una vita senza domande, quietamente adagiata su sé stessa: non si sostituisce al lettore nella scelta della risposta, ma lo pungola, spingendolo a esplicitare le proprie convinzioni fino alle estreme conseguenze per decidere da che parte stare[36].
Certo è che McCarthy non smette di tendere la mano a entrambe le parti. E se Sunset Limited si conclude con la presa d’atto di un’inconciliabile divaricazione di strade – il Bianco lascia la stanza –, Stella Maris si chiude con un gesto di commiato che al tempo stesso esprime il desiderio di non essere abbandonata, anche se «il tempo è scaduto»[37]. Nella struggente scena finale, Alicia chiede al dottor Cohen – l’unico psichiatra che l’ha fatta sentire ascoltata e con il quale è riuscita a stringere una sorta di rapporto – di stringerle la mano. È un avvicinamento inedito, che infrange la fissità del set psichiatrico e sfiora come una carezza l’impenetrabile solipsismo in cui Alicia è rinchiusa. Una scena che evoca un’altra stretta di mano che McCarthy ci aveva raccontato molti anni prima: «Alla fine disse che nessuno può comprendere la propria vita finché non è terminata, ma a quel punto com’è possibile fare ammenda? Soltanto la grazia di Dio ci lega a questo filo di vita. Strinse la mano del prete nella propria e gli disse di guardare le loro mani unite e di osservare come si somigliavano. Questa carne non è che un memento, eppure dice il vero. Alla fine, la strada di ciascuno è la strada di tutti»[38].
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L’annuncio è stato dato dall’editore Penguin Random House e confermato dal figlio John McCarthy: cfr https://global.penguinrandomhouse.com/announcements/author-cormac-mccarthy-dies-at-89 ↑
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Nonostante in ogni suo romanzo si avverta un fitto sottotesto filosofico, solo ne Il passeggero e Stella Maris McCarthy cita esplicitamente le opinioni dei pensatori da lui frequentati (A. Schopenauer, I. Kant, B. Pascal, S. Freud, C. G. Jung, G. K. Chesterton, D. Czepko), insieme a fisici e filosofi della matematica (su tutti, L. Wittgenstein, K. Gödel e A. Grothendieck). McCarthy ha trattato alcune questioni di filosofia del linguaggio nel suo unico saggio «The Keluké Problem. Where did language come from?», in Nautilus Magazine, 17 aprile 2017, a cui si fa cenno proprio in C. McCarthy, Stella Maris, New York, Knopf, 2022, 175. ↑
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Bloom non manca inoltre di accostare Cormac McCarthy a Flannery O’Connor circa l’uso della violenza nelle rispettive pagine letterarie. Cfr H. Bloom, Il genio. Il senso dell’eccellenza attraverso le vite di cento individui non comuni, Milano, Rizzoli, 2002, 667 s. ↑
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Cfr F. Castelli, «Cormac McCarthy: portare il fuoco», in Civ. Catt. 2014 II 224-235. ↑
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The Counselor – Il Procuratore (2013) di Ridley Scott, con Michael Fassbender, Cameron Diaz, Brad Pitt, Penélope Cruz e Javier Bardem. Cfr C. McCarthy, The counselor – Il procuratore, Torino, Einaudi, 2013. ↑
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Cfr R. B. Woodward, «Cormac McCarthy’s Venomous Fiction», in The New York Times, 19 aprile 1992. ↑
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J. Bergamín, Frontiere infernali della poesia, Milano, Anabasi, 1993, 10. ↑
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Cfr C. McCarthy, Il guardiano del frutteto, Torino, Einaudi, 2002. ↑
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Cfr Id., Il buio fuori, ivi, 1997, 3; 109; 195. ↑
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Cfr Id., Figlio di Dio, ivi, 2000, 167. ↑
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Ivi, 5 e 166. ↑
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J. Yardley, «In All Its Gory», in The Washington Post, 13 marzo 1985. ↑
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C. McCarthy, Non è un paese per vecchi, Torino, Einaudi, 2006, 176. ↑
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F. O’Connor, «Sulla propria opera», in Id., Nel territorio del diavolo, Roma – Napoli, Theoria, 1993, 88 s. ↑
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C. McCarthy, Non è un paese per vecchi, cit., 4. ↑
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F. O’Connor, «Sulla propria opera», cit., 85. ↑
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C. McCarthy, Cavalli selvaggi, in «Trilogia della Frontiera», Torino, Einaudi, 2008, 225. ↑
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Id., Suttree, ivi, 2009, 161. ↑
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Cfr l’intervista di Oprah Winfrey a Cormac McCarthy, 5 gennaio 2007. Trascrizione integrale italiana: «Cormac McCarthy: “Io, mio figlio e la strada”», in Il Foglio, 7 gennaio 2007. ↑
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C. McCarthy, La strada, Torino, Einaudi, 2007, 58. ↑
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Id., Oltre il confine, ivi, 1995, 135. ↑
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Id., Città della pianura, ivi, 1999, 328. ↑
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Ivi, 330. ↑
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«Io credo nel disegno di Dio. Ho avuto momenti bui e in quei momenti bui ho avuto dubbi più bui ancora. Ma di quello non ho mai dubitato» (C. McCarthy, Il passeggero, ivi, 2023, 182). ↑
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Cfr F. Castelli, «Cormac McCarthy: portare il fuoco», cit. ↑
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C. McCarthy, Sunset Limited, Torino, Einaudi, 2008, 66. ↑
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Ivi, 101. ↑
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J. Jurgensen, «Hollywood’s Favorite Cowboy», in The Wall Street Journal, 20 novembre 2009. ↑
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D. Kushner, «“If it doesn’t concern life and death, it’s not interesting”: Cormac McCarthy’s American Odyssey», in Rolling stones, 27 dicembre 2007. ↑
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C. McCarthy, La strada, cit., 45. ↑
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Id., Sunset Limited, cit., 118. ↑
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G. K. Chesterton, Ortodossia, Casale Monferrato (Al), Piemme, 1999, 89. ↑
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C. McCarthy, Il passeggero, cit., 352. La sua posizione coincide con quella del Bianco, per il quale la felicità «è contraria alla condizione umana» (Sunset Limited, cit., 45). ↑
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Anche questo tema è ricorrente in McCarthy, tuttavia qui viene citato esplicitamente un distico del mistico slesiano Daniel Czepko, propugnatore della «via del distacco» (C. McCarthy, Il passeggero, cit., 365). ↑
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Anche qui ci pare di scorgere una coincidenza non casuale con la disanima della pazzia come trattaggiata da Chesterton in Ortodossia, cit., 15-17. ↑
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Per Alicia, credere o meno in Dio non è parte del carattere personale, ma una decisione consapevole. Cfr C. McCarthy, Stella Maris, cit., 116. ↑
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Ivi, 190. ↑
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Id., Oltre il confine, cit., 135. ↑