Negli scritti e nei discorsi di papa Francesco spicca un forte invito alla sinodalità. Egli inoltre ha tentato di modellarne un’immagine con i Sinodi sull’Amazzonia e sulla famiglia. In questo articolo, dopo una rapida rassegna del significato della collegialità e della lunga storia della sinodalità, vorremmo mostrare che abbiamo bisogno di un immaginario collettivo quale base su cui costruire. Oggi infatti ci manca quello che Charles Taylor ha definito un nuovo «immaginario sociale».
Fra le tante questioni che il Concilio Vaticano II ha fatto oggetto di acceso dibattito, forse nessuna lo è stata più della collegialità episcopale. Lo storico della Chiesa John O’Malley ha affermato: «Al Concilio la collegialità episcopale ha fatto da parafulmine. Nessuna sezione, in nessun altro documento, è stata più contestata o sottoposta a un esame più minuzioso di quanto non sia accaduto al capitolo 3 della Lumen gentium. Perfino dopo che il Concilio approvò a stragrande maggioranza quel capitolo, la questione non si esaurì, ma tornò in extremis con la famosa Nota praevia allegata al decreto “per mandato dell’autorità superiore”. L’opposizione feroce e inesorabile alla collegialità da parte di una piccola, ma potente, minoranza del Concilio […] mostra che c’era in gioco qualcosa di importante, qualcosa di più che un aggiornamento o uno sviluppo»[1].
Qual è il significato della collegialità episcopale? Che cosa l’ha resa così controversa? Perché è sorta?
Significato della collegialità episcopale
I vescovi e i teologi presenti al Vaticano II erano ben consapevoli che il Concilio Vaticano I (1869-70) aveva vagliato l’autorità del Papa, ma non aveva avuto il tempo di occuparsi della posizione dei vescovi nella Chiesa o nei confronti dello stesso Pontefice. Per quasi un secolo quel lavoro rimasto incompiuto aveva lasciato in eredità alla Chiesa un’ecclesiologia molto squilibrata. Era chiaro che tale problema andava affrontato. Era altrettanto evidente che la questione sarebbe stata problematica. In effetti, il dibattito sull’uso della lingua volgare nella liturgia, nella prima sessione del Vaticano II (ottobre 1962), determinò che le decisioni riguardo all’uso dell’inglese, del francese, del giapponese eccetera andavano prese a livello locale soltanto da quelle che i padri definirono le «competenti assemblee episcopali territoriali» (Sacrosanctum Concilium [SC], n. 22), ovvero i vescovi dei Paesi o delle regioni in cui veniva parlata ogni determinata lingua. Ma quale tipo di organismo avrebbe preso decisioni del genere, o come avrebbe funzionato, non lo si sarebbe chiarito fino alla discussione sul documento dedicato alla Chiesa, la Lumen gentium (LG).
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