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Il noto critico statunitense Harold Bloom ritiene che Cormac McCarthy[1] faccia parte dei magnifici quattro della narrativa americana contemporanea, assieme a Don De Lillo, Thomas Pynchon e Philip Roth[2]. Leggendo i suoi romanzi, a noi sono venuti in mente William Faulkener e Flannery O’ Connor sia per la forza descrittiva, l’ambiente e la violenza delle avventure narrate, sia per la presenza dei temi esistenziali. In realtà, negli sfondi dei suoi romanzi, abitati da personaggi di ogni tipo e pieni di violenza, di miseria e di orrore, non è difficile intravedere l’eterna lotta tra il bene e il male, la vita e la morte, Dio e il nulla, la libertà e la fatalità.
Le storie che Cormac McCarthy racconta affascinano il lettore per la forza di rappresentazione, per il ritmo cinematografico delle scene e per gli sfondi del western, ma inquietano anche per i gravi interrogativi che pongono. La sua bibliografia[3] non è vasta, ma originale e solcata di pensiero forte. Per metterne in evidenza lo stile, e soprattutto per rintracciare le idee di fondo che la caratterizzano, analizzeremo il romanzo La strada e il testo teatrale Sunset Limited, che sono anche le sue opere più recenti.
La strada[4] è uno dei romanzi più desolati e allucinanti del nostro primo decennio. Ci fa assistere a un mondo postapocalittico, devastato da un cataclisma universale. Un uomo e un bambino[5], suo figlio, arrancano su una strada senza origine e senza fine, trascinando un carrello con qualcosa da mangiare, alcune coperte e un telo di plastica per ripararsi dal freddo. L’uomo porta al fianco una pistola con due soli colpi. «Freddo e silenzio. Le ceneri del mondo defunto trasportate qua e là nel nulla da lugubri venti terreni. Trascinate, sparpagliate e trascinate di nuovo. Ogni cosa sganciata dal proprio ancoraggio. Sospesa nell’aria cinerea» (p. 9). Dove sorgeva una città, ora non c’è segno di vita. Tenendo il bambino al fianco, l’uomo è diretto verso il sud, nella speranza di trovare un po’ di calore. Dormono dove capita, mangiano quanto riescono a trovare nelle case bruciate e deserte. È freddo, sempre più freddo.
Certe scoperte sono terrificanti. «Nel granaio tre corpi appesi alle travi del tetto, rinsecchiti e polverosi fra pallide lame di luce» (p. 13). Bande di predoni hanno massacrato le persone che incontravano, talvolta cibandosi delle loro carni. Alla fame, al freddo e alla cenere si aggiunge la paura di imbattersi in queste bande. Con l’andare dei giorni, il bambino diventa scheletrico e l’uomo sente che i suoi polmoni sono stanchi di funzionare. «L’uomo stava cominciando a tossire ma non gli restava il fiato per farlo […]. Proseguì barcollando per altri sette, ottocento metri, poi si inginocchiò e posò il bambino sulle foglie e la cenere. Gli ripulì il viso dal sangue e lo abbracciò. Va tutto bene, disse. Va tutto bene» (p. 52). Anche il loro parlare diventa stanco, si riduce a battute secche. Ecco come colloquiano: «Tu pensi che stiamo per morire, vero? [È il bambino che domanda] Non lo so. Ti dico che non stiamo per morire. Ok. Però non mi credi. Non lo so. Perché pensi che stiamo per morire? Non lo so. Piantala con questo non lo so. Ok. Perché pensi che stiamo per morire? Non abbiamo niente da mangiare. Qualcosa troveremo. Ok. Secondo te per quanto tempo si può stare senza mangiare? Non lo so. Ma secondo te per quanto? Forse qualche giorno. E poi cosa succede? Si cade per terra morti stecchiti? Sì» (p. 77).
«Dobbiamo andare avanti», dice l’uomo. Andare, andare. Dove? Come? Perché? Gli interrogativi svaniscono nella polvere e nel freddo. S’imbattono in un vecchio, seduto sulla cenere. «Aveva l’aria di un mucchio di stracci caduto da un carretto» (p. 124). Dà l’impressione di un essere da cui l’umanità è venuta meno. Vorrebbe essere morto. «Quando ce ne saremo andati tutti — dice —, qui resterà solo la morte, e anche lei avrà i giorni contati. Vagherà per la strada senza niente da fare e nessuno a cui farlo. Dirà: Dove sono finiti tutti? Ecco come andrà. E che c’è di male? (p. 131 s).
Dopo mesi di strada, arrivano al mare del sud. «Guardavano quel mare triste che sciabordava ai loro piedi. Freddo. Deserto. Senza uccelli» (p. 164). «Il bambino si strinse la coperta attorno alle spalle e guardò verso la spiaggia grigia e deserta […]. Non so cosa ci stiamo a fare qui, disse» (p. 186). E si rimettono sulla strada, «lerci, conciosi, senza speranza». L’uomo non cessa di sputare sangue, e avverte l’approssimarsi della morte. Dà la pistola al bambino e lo prega di allontanarsi. Non vuole che lo veda morire. Il bambino si allontana, poi torna, si mette a dormire vicino al padre, tenendolo abbracciato. «Ma quando al mattino si svegliò il padre era freddo e rigido. Rimase lì seduto per tanto tempo a piangere, poi si alzò e s’incamminò nel bosco verso la strada. Quando tornò, si inginocchiò accanto al padre e gli tenne la mano gelata e disse e continuò a ripetere il suo nome». (p. 213).
Dopo tre giorni, sulla strada apparve un uomo, barbuto, con una cicatrice sulla guancia, forse reduce da antichi scontri. «Dov’è l’uomo con cui stavi? È morto. Era tuo padre? Sì. Era il mio papà. Mi dispiace. Non so cosa fare. Penso che dovresti venire con me» (p. 214). A casa dello sconosciuto è accolto con affetto e gioia. Ci sono una donna e due bambini. La vita ricomincia.
Validità letteraria e messaggio del romanzo
Sotto l’aspetto letterario, La strada è un romanzo di notevole valore, ben costruito, avvincente. Lo stile è scarno e preciso. Con poche battute l’Autore ti introduce in un mondo spettrale, te ne fa sentire l’odore, te ne mostra l’orrore, ti aggancia all’avventura di un uomo e del suo bambino sì da renderti partecipe del loro drammatico andare. La strada si trasforma in una sequenza di scene che ti mettono addosso l’orrore di quanto ti fanno vedere. Gli squarci di poesia, che illuminano alcune scene, accentuano il contrasto tra realtà e sogno. Qualche specimen? «Di giorno il sole esiliato gira intorno alla terra come una madre in lutto con una lanterna in mano» (p. 26); «Quando non ti resta nient’altro imbastisci cerimoniali sul nulla e soffiaci sopra» (p. 57); «La sconfinata desolazione, idropica e gelidamente terrena. Il silenzio» (p. 208).
Che cosa Cormac McCarthy ha voluto dirci con La strada? L’interrogativo è sfuggito alla critica superficiale, attenta agli eventi e alla forma. Per una risposta corretta e convincente, occorre prendere le mosse da un’affermazione nella seconda pagina: «Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Disse: Se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato» (p. 4). L’uomo sa che il bambino è la sua garanzia, cioè che rappresenta quanto egli profondamente spera. E ciò perché il bambino è «il verbo di Dio», di Dio che parla negli innocenti. Lungo tutto il romanzo il bambino rappresenta la benevolenza, la comprensione, la condivisione. Cioè l’amore.
Quando incontrano un poveraccio, ingobbito e malfermo, che «se ne stava lì seduto in silenzio, chino sui propri stracci», il bambino lo guarda e prega il padre di aiutarlo. «No, non lo possiamo aiutare». Tirandogli la giacca, il bambino insiste, ma invano. «Proseguirono. Il bambino piangeva. Si voltava in continuazione» (p. 39). La scena si ripete più volte: l’uomo preoccupato della vita del bambino e della propria, il bambino sempre aperto ad aiutare, facendo proprie le sofferenze degli altri. Quando un morto di fame riesce a portarsi via il loro carrello, è raggiunto, e minacciato e abbandonato, nudo, sulla strada. «Papà, aveva solo fame. Adesso morirà […]. L’uomo si accovacciò e guardò il bambino. Anche io ho paura, disse. Lo capisci? Anche io ho paura. Il bambino non rispose. Rimase seduto lì a capo chino, scosso dai singhiozzi. Non tocca a te preoccuparti di tutto. Il bambino disse qualcosa che l’uomo non capì. Cosa?, disse. Il bambino alzò gli occhi, il viso sporco e bagnato. Sì, invece, disse. Tocca a me» (p. 197). Allontanandosi, l’uomo afferma che non aveva intenzione di ammazzarlo. Nella notte il bambino non riesce a dormire. L’uomo lo sente dire: «Però l’abbiamo ammazzato lo stesso» (p. 198).
«Noi portiamo il fuoco»
Nel romanzo, l’amore si può definire anche solidarietà, amorevole partecipazione alle necessità degli altri, negazione dell’egoismo, relazione tra le persone. L’uomo ha una forte relazione con il bambino, e ciò lo fa vivere e lottare per la sopravvivenza. «Io ho il dovere di proteggerti. Dio mi ha assegnato questo compito. Chiunque ti tocchi, io lo ammazzo. Capito?». La sua capacità, però, di aiutare gli altri e di condividerne la sofferenza è scarsa, talvolta nulla. Si direbbe che la fame e il freddo abbiano spento in lui il senso della solidarietà, o che lo abbiano molto indebolito.
«Ce la caveremo, vero, papà? Sì. Ce la caveremo. E non ci succederà niente di male. Esatto. perché noi portiamo il fuoco. Sì. Perché noi portiamo il fuoco» (p. 64). Portare il fuoco significa portare la bontà, essere i buoni. I cattivi mangiano le persone, i buoni no, «perché noi siamo buoni. E portiamo il fuoco» (p. 99). L’uomo sente l’imperativo della bontà, ma fa fatica a viverla. «[I buoni] non si arrendono mai» (p. 105), afferma, ma gli capita più volte di arrendersi.
Il bambino non si arrende, neanche alla morte del padre, perché incarna la bontà. E la bontà ha sempre la meglio (cfr p. 213). Lo sperimenta anche quando, morto il padre, è accolto nella casa dell’uomo sconosciuto. «La donna lo vide lo abbracciò e lo tenne stretto. Oh, gli disse, come sono contenta di vederti. Ogni tanto la donna gli parlava di Dio. Lui ci provava a parlare con Dio, ma la cosa migliore era parlare con il padre e infatti ci parlava e non lo dimenticava mai. La donna diceva che andava bene così. Diceva che il respiro di Dio è sempre il respiro di Dio, anche se passa da un uomo all’altro in eterno» (p. 217). Ricordare e parlare col padre defunto è espressione di amore, dunque di Dio, che è amore e che vive in ogni uomo.
Ha un senso la vita? Un valore?
Il romanzo è strutturato anche di ricordi. Uno dei più pungenti per il nostro uomo è quello della moglie, specialmente quando il bambino gli confessa che vorrebbe essere morto per vivere sempre con la mamma. Convinta che, dopo il cataclisma, si era diventati «dei morti viventi in un film dell’orrore», lei aveva deciso il suicidio. In lei i sentimenti si erano atrofizzati. Era arrivata ad affermare che, se non fosse stato per lui, suo marito, si sarebbe portato nella morte anche il bambino. Sarebbe stata «la cosa più giusta» (p. 44). Preferibile finirla che trovarsi in balìa dei banditi. Alla protesta dell’uomo che non l’avrebbe mai abbandonata, lei replica di avere un nuovo amante, la morte. In lei si è fatto il deserto: di sentimenti, di speranza. «Quanto a me, spero solo di raggiungere il nulla eterno, e lo spero con tutto il cuore» (p. 45). E scompare dalla scena.
Il suicidio della donna pone un grave problema: ha un senso la vita? Ha valore? Il dilagare della desolazione farebbe pensare che il romanzo dia una risposta negativa. No, la vita non ha né senso né valore. Ma a una lettura più attenta ci è dato cogliere alcune luci che rischiarano gli sfondi. La vita può avere senso e valore se è sorretta da rapporti di solidarietà, o meglio, di amore con tutti, senza preclusioni. All’uomo capita di sentirsi svuotato di tutto: «Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri». Poi guarda il bambino che dorme. «Ecco, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te» (p. 42). Nel figlio trova il senso e la forza di vivere e di raggiungere il mare del sud.
Anche il bambino riesce a vivere perché sostenuto dall’amore. Vuole vivere non soltanto per stare accanto al padre, ma anche perché deve «portare il fuoco». Portare soltanto il fuoco della giustizia e della bontà? Un episodio fugace suggerisce un traguardo più alto. I due si rifugiano in una casa abbandonata e riescono a scovare cibo e bevande. Mangiano, e il bambino suggerisce di ringraziare i signori della casa, forse morti. E così dice, sembrando «smarrito»: «Cari signori, grazie per le cose da mangiare e tutto il resto. Sappiamo che le avevate messe da parte per voi, e se voi ci foste ancora noi non mangeremmo niente, neanche se stessimo morendo di fame, e ci dispiace che non siate riusciti a mangiare queste cose ma speriamo che siate sani e salvi in Paradiso vicino a Dio» (p. 111 s).
Chi è questo bambino che augura il Paradiso ai morti e aiuta i disgraziati forse perché «crede in Dio?» (p. 132). L’uomo a volte pensa che il bambino sia «un alieno. Un essere venuto da un pianeta che non esisteva più» (p. 117). Altre volte, guardandolo dormire, scoppiando in un pianto incontrollabile, gli pareva «che [quanto gli accadeva] avesse a che fare con la bellezza o la bontà» (p. 99). In realtà, il bambino ci appare come il simbolo di un altro mondo. Il mondo di Dio?
Il nome di Dio nel romanzo ricorre più volte, ma la sua esistenza è incerta, ambigua, inconsistente. Forse Dio è la nostra aspirazione alla bontà e all’amore. Ma il bambino, elevato a simbolo, crede in un Dio che è in Paradiso e ci accoglie in Paradiso.
L’ultima parola del romanzo è «mistero». Anche Dio. Ci muoviamo e viviamo nel mistero.
«Un romanzo in forma drammatica»
«Romanzo in forma drammatica» è definito il volumetto Sunset Limited[6]; più esatto definirlo testo teatrale inquietante, tormentato, acerbo. Inquietante, perché pone il lettore (e lo spettatore) dinanzi a problemi gravi, pressanti, ineludibili, come il senso della vita, l’incombenza del male, Dio o il nulla, vita o morte, il fastidio degli altri. Tormentato, perché questi problemi ti stanno addosso, ti disorientano, ti costringono a scelte radicali, ti mettono dinanzi al tuo io del quale ti sfugge la verità. Acerbo, sia per il linguaggio fitto di espressioni gergali sia per la crudezza degli episodi e di certe domande che restano senza risposta. Comunque sia, è un lavoro che merita attenzione, punta sull’essenziale, coinvolge il lettore (o lo spettatore), sì da indurlo a pensare e a decidersi.
«Quando arriva il Sunset Limited a centotrenta all’ora»
Il sipario si apre sulla cucina di una casa popolare di New York: un tavolo, due sedie e due uomini di mezza età impegnati in un dialogo scandito da interrogativi e battute pungenti, dai risvolti drammatici e profondi. Ascoltandoli, vien da pensare a Dostoevskij, e anche a Rabelais. I due non hanno nomi: uno è chiamato Nero, l’atro Bianco, in riferimento al colore della loro pelle. Si conoscono da qualche ora, e in circostanze drammatiche. Nero attendeva il treno per recarsi al lavoro quando ha scorto Bianco, pronto a fare «un bel tuffo» sui binari per farsi stritolare dal Sunset Limited in arrivo «a centotrenta all’ora». Riesce a strapparlo alle rotaie e a portarlo a casa sua. Eccoli, seduti attorno al tavolo, sul quale c’è la Bibbia, impegnati in un colloquio nel quale si esaurisce l’azione drammatica. Ascoltiamone qualche battuta.
Nero: Tu leggi tanti bei libri. Bianco: Ci provo, sì. Nero: Ma non hai letto il migliore di tutti. Come mai? Bianco: Devo andare. Nero: No, non devi andare, professore. Resta qui a farmi compagnia. Bianco: Lei ha paura che io torni alla stazione. Nero: Potresti, Resta qui con me, invece […]. Bianco: Le posso chiedere una cosa? Nero: Certo. Bianco: Dove stava, esattamente? Io non l’ho proprio vista. Nero: Vuoi dire quando hai fatto quel bel tuffo? Bianco: Sì. Nero: Ero lì al binario. Bianco: Al binario? Nero: Sì. Bianco: Be’, io non l’ho vista. Nero: Ero lì fermo al binario. Pensavo ai fatti miei. Ed ecco che arrivi tu. A tutta birra. Bianco: Mi ero guardato attorno per essere sicuro che non ci fosse nessuno. E non c’era anima viva in giro. Nero: No. Soltanto io […]. Pensi che un angelone nero grande e grosso sia stato mandato giù dal cielo per acchiappare il tuo bel culetto bianco all’ultimo secondo e salvarti da una brutta fine? […]. Bianco: Io non ho mai parlato di angeli. Negli angeli non ci credo neanche […]. Nero: E in che cosa credi? […]. Bianco: Forse non credo in niente. Credo nel Sunset Limited» (p. 17-22).
Crede cioè nel suicidio. Il colloquio continua e si sposta sul versante della fede e dell’incredulità, più precisamente su Dio e sul nulla. I due personaggi assurgono a simbolo dell’uomo del nostro tempo.
Un negro campagnolo e un bianco professore universitario
Chi sono i due protagonisti? Nero così si presenta: «Io sono solo un negro campagnolo deficiente della Louisiana» (p. 61), e specifica: «Ero un cadavere ambulante. Così morto che non sapevo manco stendermi nella tomba» (p. 12). I suoi sono tutti morti. Solo, senza guida e senza affetto, si è dato all’alcool, sempre in mezzo ai guai, sette anni di carcere duro, omicida e galera. Dopo una rissa, finita a coltellate, si sveglia in infermeria. «Mi avevano operato. Avevo la milza tagliata in due […]. Mentre stavo steso sul letto, sento una voce. Forte e chiara, che più non si può. E la voce dice: Se non fosse per la grazia del Signore, tu non saresti qui». Intorno a lui non c’è nessuno. «Cioè, qualcuno c’era ma era inutile che mi guardavo intorno per vedere chi aveva parlato» (p. 39). Nessun dubbio: gli ha parlato il Signore, e lui non riesce a comprendere perché lo abbia fatto. «Se ero io non lo facevo» (p. 41). Ma Lui gli ha parlato. «E alla fine l’ho detto e basta; ho detto: Ti prego aiutami. E lui mi ha aiutato» (p. 87).
La voce di Gesù gli ha cambiato la vita. È diventato un cristiano evangelico, fedele lettore della Bibbia ai cui insegnamenti ispira la sua condotta. Trova che affidarsi a Dio sia la cosa più bella, gli dà pace, lo fortifica nel superare le difficoltà. Lo esalta il fatto che per Gesù non ci sono razze, si è tutti fratelli, muniti di una fede che fa «stare la gente con i piedi fermi per terra quando passa il Sunset Limited […] e scodellare benedizioni invece che insulti sulla testa degli sconosciuti» (p. 77). Crede nella Bibbia, ma in qualche cosa non concorda con essa: per esempio, sul peccato originale. Pensa che la gente, in partenza, sia buona. «Secondo me il male è qualcosa che ci tiriamo addosso noi, da soli. Soprattutto desiderando quello che non ci spetta» (p. 54).
Bianco è l’antitesi di Nero. Ateo assoluto, non crede nella felicità, non nella civiltà («la civiltà occidentale è andata definitivamente in fumo nelle ciminiere di Dachau», p. 22), tanto meno nella bontà degli uomini. Anch’egli però crede, e in due oggetti precisi: «nell’egemonia dell’intelletto» ed «egemonia del Sunset Limited», cioè del suicidio (cfr p. 77 s). È solo, senza famiglia e senza amici. È professore universitario, ma detesta i colleghi, «perché — dichiara — sono simili a me e io detesto me stesso» (p. 67). Ha letto quattromila libri, ma non la Bibbia. Non crede nella felicità, «è contraria alla condizione umana» (p. 43), ridicola, non esiste, esiste solo «la sofferenza e il destino umano [che] sono la stessa cosa. L’una è la descrizione dell’altro» (p. 44).
La presentazione di sé la offre egli stesso nelle ultime battute del suo colloquio. Queste hanno il sapore della morte intesa come assoluto annientamento. Ascoltiamolo: «Io voglio che i morti restino morti. Per sempre. E voglio essere uno di loro […]. Io non considero il mio stato mentale una visione pessimistica del mondo. Io lo considero equivalente al mondo così com’è. L’evoluzione non potrà non condurre la vita intelligente alla consapevolezza di una certa cosa sopra tutte le altre, e questa cosa è la futilità» (p. 110).
Due mondi antitetici
Bianco è immerso in un ateismo assoluto. Nessun Dio, dunque nessuna speranza, nessun motivo per vivere, nessuna vita eterna. Buio, silenzio, morte. Dio è pura illusione. Nero dice di aver sentito Dio? Bianco ribatte: «Se dovessi sentire Dio che mi parla, la autorizzo a prendermi e portarmi direttamente all’ospedale psichiatrico» (p. 88). Per Nero la voce e la presenza di Gesù sono realtà incontrovertibili, anche se misteriose. Gli hanno cambiato la vita, gli hanno dato la speranza che permette di vedere tutto con occhi nuovi, gli hanno tolto di dosso quel pesante fardello di credersi autosufficiente e lo ha convinto ad affidarsi a lui.
Nero si è arreso alla Grazia, perché ha sperimentato la sua miseria, la sua povertà morale, il suo fallimento come uomo. Bianco invece si è chiuso nella sua autosufficienza, ha optato per l’egemonia della sua intelligenza, estraniandosi a tutto il resto. «Cammini su una strada — gli dice Nero — che ti sei tracciato tu» (p. 79). La conclusione di tale chiusura in se stesso è fallimentare. Nero così gliela prospetta: «Se tutto quello che sei e tutto quello che hai e tutto quello che hai fatto alla fine ti ha portato sul fondo di una bottiglia di whiskey o ti ha regalato un bel biglietto di sola andata sul Sunset Limited, allora non mi puoi portare uno straccio di motivo al mondo per dover salvare qualcosa» (p. 96 s).
Chiuso nel proprio io, Bianco vede il mondo come «una saga fatta di stragi, avidità e follia» (p. 90). Anche per questo nega Dio. Pure Nero vede questa saga, ma sa che le cose possono cambiare, che sulla terra non ci sono soltanto elementi negativi, che Dio dona ciò che più intensamente desideriamo. Ma occorre ascoltarlo. Credere in lui. Bianco rifiuta di credere che Gesù possa «venire qui, in questa fogna, e salvare quello che tutti sanno che è insalvabile» (p. 63), Nero era «un cadavere ambulante». Gesù gli ha parlato e lo ha salvato. Come non credere in lui?
Un altro elemento distingue Bianco: vive in un vuoto di amore. Non ama e non vuole essere amato. «Io non voglio essere amato da Dio» (p. 48), replica a Nero, quando lui dice che tutti gli uomini vogliono essere amati da Dio. Afferma anche che il colmo della disperazione sarebbe per lui incontrare le persone che ha conosciuto in vita: «Se dovessi rincontrare mia madre e ricominciare tutto daccapo, ma stavolta senza la prospettiva della morte a consolarmi… Be’, quello sarebbe l’incubo finale» (p. 109 s). Suo padre, malato di cancro, moribondo, chiedeva di vederlo, e lui insensibile alla richiesta. Come può incontrare Dio una persona che si rifiuta all’amore? Quando Nero intuisce che Gesù lo ama — sì, ama anche lui, assassino e galeotto —, nella sua vita si verifica un cambiamento radicale: si dedica ad aiutare gli altri, anzi ad amarli, e ne sperimenta la capacità, trova in tutto ciò una fonte di felicità.
Quando il cuore è messo a nudo
Nelle ultime pagine, intense e drammatiche, l’aspirante suicida mette a nudo il suo cuore con parole che sanno di pietra. Spiega e legittima il suo ateismo e il suo convincimento che la scelta più intelligente che un uomo possa fare sia quella di gettarsi sotto un treno, come farà lui. E ne spiega il motivo: tutto va in frantumi, «sopra ogni gioia pende l’ombra dell’ascia. Ogni strada porta alla morte. O peggio. Ogni amicizia. Ogni amore. Tormenti, tradimenti, lutti, sofferenza, dolore, vecchiaia, umiliazioni, malattie orrende e lunghissime» (p. 111). Perché vivere?
Dopo questa desolata litania, la voce del professore («professore delle tenebre», si autodefinisce) assume un tono più pacato. Rivolge parole affettuose a Nero, e chiede di andar via. Prima di andarsene, fa una confessione che lascia perplessi: «Lei [Nero] dice che io voglio l’amore di Dio. Non è vero. Forse voglio il perdono, ma non ho nessuno a cui chiederlo. E non posso tornare indietro. Non posso rimettere le cose a posto. Magari una volta. Ma adesso no. Adesso mi resta solo la speranza del nulla. E a quella mi aggrappo. Ora mi apra la porta. Per favore» (p. 114). Ammissione di una sconfitta? Rimpianto di una realtà rinnegata? Nero, in ginocchio, piange. E si lamenta con Gesù: «Se volevi che lo aiutavo, perché non mi hai dato le parole giuste? A lui gliele hai date. E a me? Non fa niente. Non fa niente. Anche se non mi parli mai più lo sai che mantengo la tua parola. Lo sai. Lo sai che sono capace» (p. 115).
La scelta suicida di Bianco è comprensibile. Quando nella nostra vita si fa il deserto — deserto di Dio, di speranza, di amore —, l’anima s’inaridisce e si affaccia sul vuoto. Di vuoto e di secchezza non si vive, e si opta per la morte, anzi per l’annientamento. Comprensibile pertanto la scelta di Bianco, ma non accettabile. La sua filosofia è unilaterale e monca. Si fonda sulle proprie discutibili esperienze e non raggiunge le aspirazioni universali, essenziali e insopprimibili del nostro animo. Il dio che egli nega non è il Dio della rivelazione cristiana, ma un dio costruito dalla sua mente, dunque un idolo da abbattere.
Dunque, il nulla o Dio? La morte o la vita? Cormac McCarthy pone l’interrogativo, ma non risponde. Lascia che il lettore (o lo spettatore) riscopra la drammaticità della sua libertà, e si decida.
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[1]. Cormac McCarthy è nato (1933) e cresciuto nel Tennesee. Arruolato nell’esercito nel 1963, vi è rimasto quattro anni, due dei quali in Alaska. Ha frequentato l’Università del Tennesee a varie riprese, senza laurearsi. Grazie a due borse di studio, ha visitato l’Europa, soffermandosi soprattutto in Irlanda. Ritornato nel Tennesee, a Louisville, si è dedicato all’attività letteraria, riscuotendo vasta notorietà e importanti riconoscimenti. Attualmente vive nel Texas con la terza moglie e il figlio John.
[2]. Cfr la Repubblica, 19 aprile 2011, nella pagina culturale.
[3]. Ricordiamo, in ordine cronologico, i romanzi: Il guardiano del frutteto (1965), Il buio fuori (1968), Figlio di Dio (1973. Il titolo non inganni: non si riferisce al Figlio di Dio del cristianesimo, ma a uno straccio d’uomo del quale si narra la degradazione), Suttree (1979. Da alcuni è ritenuto «l’opus magnum» di McCarthy), Meridiano di sangue (1985), Trilogia della frontiera, che comprende Cavalli selvaggi (1992), Oltre il confine (1994), Città della pianura (1998). In traduzione italiana sono stati pubblicati tutti presso Einaudi.
[4]. C. McCarthy, La strada, Torino, Einaudi, 2007. Il romanzo ha vinto il Premio Pulitzer per la narrativa nel 2007, e nel 2009 è stato tradotto in film con il titolo The Road (La strada).
[5]. Sono i protagonisti del romanzo, senza nome. Sono indicati, anche nel nostro articolo, semplicemente con l’uomo e il bambino.
[6]. C. McCarthy, Sunset Limited, Torino, Einaudi, 2006. Il lavoro è stato rappresentato all’Arena del Sole di Bologna, il 19 novembre 2010, e a Milano presso il Teatro Sala Fontana, nel gennaio 2013. Nel 2011 è stato realizzato un film televisivo omonimo, scritto dallo stesso McCarthy.