
Promosso da alcuni intellettuali cinesi, il «confucianesimo meritocratico» si presenta come una terza via tra il liberalismo occidentale e il modello leninista: nell’interesse di tutti, il potere dovrebbe essere esercitato da un’élite superiormente istruita e moralmente aperta al bene più universale. Per quanto attraente sia la proposta, essa ignora sia le lezioni della storia sia la voce che emana dalle coscienze individuali. Come descritto dai suoi responsabili, il sistema cinese è una meritocrazia il cui funzionamento «scientifico» evidenzia per contrasto l’irrazionalità dei movimenti populisti che oggi attraversano l’Occidente, i quali dimostrerebbero che le elezioni multipartitiche e la libertà di informazione alterano irrimediabilmente la qualità della governance. Allo stesso tempo, l’aridità tecnocratica di tale visione è compensata dalla progressiva costruzione di una religione civile portatrice di un sogno comune[1].
La «soluzione meritocratica» è naturalmente radicata nella tradizione cinese, sia intellettuale sia amministrativa: delineata dalla dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.), che adotta il confucianesimo come dottrina ufficiale dell’Impero, trova la sua espressione nel sistema degli esami imperiali istituito nel 605 e abolito solo nel 1905[2]. Sun Yat-sen tentò di darle una nuova espressione, ma è l’attuale regime che, a partire dagli anni Ottanta, ne offre una
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