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«Educazione» e «azione educativa» sono due termini correlati e per molte persone probabilmente anche sinonimi; ma non è così. Riteniamo un grave errore associarli e restringere l’istituzione docente alla sua spazio-temporalità, assecondando tale associazione spontanea: tra l’altro, perché così la «scuola» finisce con l’addossarsi tutto il peso e la responsabilità della diseducazione delle persone e delle collettività alle quali per secoli ha prestato i suoi servizi[1].
Ci pare invece che l’espressione «azione educativa» – usata al posto di «educazione» – possa includere meglio le molteplici prassi alle quali desideriamo riferirci in questo articolo. Il fatto di non essere grande conoscitore della teoria pedagogica e di non lavorare in una istituzione non impedisce infatti a nessuno di essere un eccellente educatore nella quotidianità delle relazioni più svariate: sportive, ludiche, religiose, politiche, economiche, culturali, familiari, commerciali e così via. In questo senso, sono attori educativi tutti coloro che svolgono in qualche modo un servizio che accompagna e incoraggia l’umanizzazione di persone e collettività.
Il «Patto educativo globale»
Possiamo leggere in un simile allargamento dell’orizzonte educativo una delle grandi intuizioni di papa Francesco, nel momento in cui propone di ricostruire un «Patto educativo globale» (Global Compact on Education).
Usando il termine «patto», il Papa si riferisce all’urgenza di ricomporre qualcosa che si è rotto, che si è separato, che è entrato in conflitto. Egli guarda alla necessità impellente di generare e rafforzare un’alleanza – che un tempo esisteva, sia pure tacitamente – tra la famiglia, la società civile e i responsabili pubblici, in favore del futuro delle giovani generazioni, dei bambini, di coloro che verranno.
Ma il Papa sa bene che questo nuovo patto dovrà essere contratto e attuato al di fuori dei muri delle istituzioni educative, sebbene esse debbano farne parte in quanto attori sociali: è un patto che deve nascere nelle strade, nelle associazioni di quartiere e di interesse, nei campi, nelle fabbriche, nei municipi, nelle imprese, nei circoli e così via, ossia lì dove operano le persone; infatti, tutti siamo «educabili».
Il progetto educativo comune
L’azione, la conseguenza, il prodotto, l’intenzionalità più grande dell’atto educativo è il creare. Educare è creare: non c’è niente che possa descrivere meglio l’azione educativa. La persona che educa fa da «levatrice» alla più autentica novità: dà la possibilità di vivere a ciò che si genera ed è in gestazione nell’intimo della persona e delle collettività, ossia a ciò che ognuno nella sua singolarità – e ogni collettività con le sue differenze (di tradizioni, di lingua, di religione) – può apportare alla creazione di un mondo migliore. Non crediamo che possa esserci un contributo umanizzante più importante di questo: in definitiva, siamo stati fatti come «co-creatori»; siamo stati generati capaci di un «di più». Educare significa partecipare alla ri-creazione continua dell’opera del Creatore.
Sant’Ignazio di Loyola lo esprime in modo significativo nel «Principio e Fondamento» degli Esercizi spirituali, quando ci invita a considerare che l’essere umano «è creato», impiegando un verbo al presente: non afferma che l’essere umano «fu» creato. E a partire da quel principio e fondamento comincia a dedurre una serie di conseguenze esistenziali: ogni persona è creata di continuo, si fa in ogni istante, si rifà in ogni azione, in ogni decisione. In ogni creazione l’uomo plasma ed esprime quanto di più profondo possiede nel suo essere.
Un uomo realmente umanizzato è l’espressione più compiuta non solo del desiderio di Dio, ma anche dell’opera che svolgiamo tutti noi che vogliamo affermare la nostra azione educativa, ovunque e comunque. Perciò è così grave negare alle persone il diritto all’educazione: infatti, si preclude loro la possibilità di essere ciò che ciascun essere umano – e tutti come società – è chiamato a essere, ciò che ci costituisce come esseri singolari, ciò che Dio «vuole» (anche questo verbo è al presente) che ciascuno di noi sia. «Io sono» (Es 3,14b) vuole che l’essere umano sia.
Cittadinanza globale
L’espressione «cittadinanza globale», che ha assunto un ruolo sempre più importante nell’ambito delle proposte pedagogiche delle nostre istituzioni, merita una riflessione approfondita. Non possiamo accontentarci di educare coloro che adesso raggiungiamo con i nostri link, che incontriamo sia sugli schermi digitali sia nelle classi scolastiche, e aiutarli a diventare «cittadini globali» in quanto riescono ad acquisire un tipo di istruzione che offre ad essi possibilità linguistiche, formative, politiche, economiche, culturali ecc., mentre queste possibilità vengono di fatto precluse al resto della popolazione.
Chi mette la cittadinanza globale al centro della propria azione educativa non sta obbedendo in primo luogo a un’istanza pedagogica, ma piuttosto a un’istanza etica e politica, e con ciò pone in discussione i fondamenti antropologici e sociologici in cui si inscrive e si inserisce l’attuale sistema istituzionale educativo. Non c’è dubbio che sta a noi offrire un’istruzione di buona qualità e fare in modo che tutti coloro che passano attraverso le nostre istituzioni e i nostri progetti educativi debbano sviluppare in sé e nelle loro collettività – secondo un patto che va oltre qualsiasi tipo di interesse personale, familiare o di settore – le conoscenze e le virtù che rendono loro possibile essere cittadini globali, come attestano i nostri documenti. Ma il concetto di cittadinanza globale va ampliato e arricchito, perché nessuno può o potrà essere un vero cittadino globale se non siamo o non possiamo essere tutti effettivi cittadini di questo mondo. Dove c’è anche soltanto una persona o un gruppo umano che viene disumanizzato, sfruttato, oppresso, escluso in ragione delle sue scelte, del suo colore, della sua storia o della sua cultura, siamo tutti disumanizzati[2].
Pertanto crediamo che la potente nozione di «cittadinanza globale» debba cambiare campo di applicazione rispetto all’uso che se n’è fatto finora, e che si debba lavorare affinché tutti gli esseri umani abbiano i loro diritti, abbiano voce e siano ascoltati; con ciò dimostreremo di essere concretamente impegnati in un lavoro educativo che permetta a tutti gli esseri umani di esercitare il diritto a costruire le società che essi – secondo le loro culture – vogliono, sperano e di cui hanno bisogno. Altrimenti quella nozione rischia di essere stravolta da una prassi che riproduce ciò che afferma di combattere – l’esclusione, e con essa la violenza –, e si fa un vuoto discorso autogiustificativo.
Il mondo è la nostra scuola
Uno dei primi seguaci di sant’Ignazio, il p. Jerónimo Nadal, nel 1561, riassunse la missione dei gesuiti nell’espressione «il mondo è la nostra casa». Con una parafrasi, oggi potremmo dire che «il mondo è la scuola, e la scuola è il mondo». Questo concetto è in sintonia con quanto afferma papa Francesco quando insiste su una Chiesa in uscita, fuori dalle sacrestie, fuori dai chiostri, dai muri, dal campus istituzionale. Egli pertanto ci invita a svolgere in tutte le nostre attività un’azione educativa sempre più consapevole, critica, intelligente, creativa, in cui il mondo si fa scuola.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Il centro educativo, indipendentemente dalle sue dimensioni, dev’essere sempre consapevole del fatto che il suo ruolo istituzionale è soltanto un aiuto, una goccia d’acqua nella serie di azioni o interazioni educative che una persona – o una collettività – sviluppa giorno dopo giorno; ma deve anche tener presente che la sua azione educativa ha per oggetto e per missione la trasformazione della realtà stessa in cui la persona è inserita; per questo non è affidabile una scuola che ripete sé stessa, che non critica e trasforma sé stessa.
La sfida è grande e non sempre viene superata, perché l’endogamia istituzionale è molto forte, e non sempre è consapevole. Si tratta di trasformare l’azione educativa in una pratica – anche istituzionalizzata – nella quale il centro si colloca al di fuori.
Il centro educativo è indubbiamente un elemento fondamentale dell’umanizzazione della società, ma è molto fragile. Per questo – e qui riprendiamo un’altra intuizione di papa Francesco – l’azione educativa – e anche la scuola – di cui abbiamo bisogno deve realizzarsi per strada, senza muri, senza cancelli, deve affrontare la realtà. Questo è chiaramente un impegno arduo, perché fa scomodare, solleva interrogativi, mette in discussione le pratiche, cambia i piani. L’azione educativa, sia essa istituzionale o informale, dev’essere consapevole che la sua priorità fondamentale consiste nell’umanizzazione della persona e delle società al di sopra di qualsiasi interesse di gruppo, politico, economico o ideologico. Deve restare aperta alla realtà della società in cui è inserita, coglierne le potenzialità, le sfide e le carenze. La scuola deve impegnarsi a trasformare le società, le consorterie, le culture, e deve farlo insieme ad altri che a loro volta conducono azioni socio-educative altrettanto valide, a cominciare da chi è più vicino agli studenti.
Per questo, una delle sfide fondamentali di qualsiasi azione o progetto educativo sta nel generare un modello istituzionale che sia davvero rivoluzionario, creativo, duttile, autocritico, ricreato di continuo; uno spazio e un tempo in perenne conversione, aperti, sempre in uscita verso la realtà di un mondo che è la scuola principale. Pertanto, questo lavoro pedagogico dev’essere svolto in dialogo, concertazione e alleanza con tutti gli attori dell’umanizzazione delle persone e delle comunità: i genitori, come pure gli attori della politica; i professori, non meno degli attori ludici ed estetici; le biblioteche e le reti sociali, e tanti altri.
Il mondo non è buono se non è buono per tutti
In una società sempre più globalizzata e consapevole della dignità inalienabile di ogni essere umano, offrire un’educazione di buon livello a pochi privilegiati – qualunque sia la loro classe sociale – costituisce una contraddizione in termini etici, politici e filosofici. Da questa consapevolezza e preoccupazione fondamentale nasce l’impegno per un lavoro collettivo, alla ricerca di ogni possibile alleanza, interna ed esterna, in nome del diritto universale a un’educazione di qualità: questo è l’obiettivo del «Patto educativo globale». Nella Conferenza dei provinciali della Compagnia di Gesù dell’America Latina e dei Caraibi (Cpal) questo proposito ha preso forma nel progetto «Diritto universale a un’educazione di qualità», che fa parte del «Progetto apostolico comune» della Cpal del 2022-2027.
Stiamo lavorando e dedicando energie a un sogno: che insieme a molte altre persone, al di dentro e al di fuori della Compagnia di Gesù, possiamo far sì che l’educazione di qualità sia un diritto riconosciuto da tutti in questa regione e nel mondo intero. Un diritto non solo riconosciuto nelle intenzioni e nelle dichiarazioni, ma tradotto in pratica, effettivo, verificabile. Nessuno deve rimanere senza la possibilità di godere del diritto a un’educazione di qualità.
Il nostro intento è che tutti i servizi apostolici della Compagnia di Gesù in America Latina, indipendentemente dalla loro realtà di essere o no istituzioni dedicate all’esercizio pedagogico – quindi anche progetti di radiocomunicazione, missioni indigene, lavori con migranti, case di esercizi, parrocchie, centri di ricerca e di promozione sociale ecc. – si impegnino a operare, con molti altri, al di dentro e al di fuori della Compagnia e della Chiesa, per il diritto universale a un’educazione di qualità. E che lo facciano motivati e orientati dall’ampia rete educativa dell’America Latina, ciascuno nella sua situazione, con la propria esperienza e i propri strumenti,
Per riuscirvi, abbiamo bisogno di un «rinnovamento della mente» (Rm 12,2) che ci renda capaci di aprirci a collaborare con altre istituzioni, reti, settori; con altre Congregazioni e Chiese; con l’istruzione pubblica e i suoi esponenti; con tutti gli attori sociali privati e pubblici che sono soggetti di «azioni educative».
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[1]. Il fallimento delle nostre società in termini di uguali opportunità, riconoscimento ed esercizio dei diritti; di riproduzione dei meccanismi di segregazione e divisione sociale; di moltiplicazione delle disparità e della miseria; di corruzione a vari livelli ecc. è una chiara riprova del fallimento del sistema educativo e dell’azione educativa delle istituzioni che lo rappresentano.
[2]. Non possiamo continuare a fornire un’istruzione di qualità pensando solo a pochi, perché in questo caso non creeremo un mondo più umano, ma uno meno umano: riprodurremo quelle stesse disuguaglianze che ci hanno condotti a interrogarci sulle ragioni per cui il presente sistema deve essere cambiato.