
Tutto comincia con una malattia, una grave polmonite interstiziale che Annalena Benini vive negandola fino quasi all’ultimo respiro, fino a un passo dall’irreparabile: «Mi serviva quell’influenza per riposarmi, stare a letto, dormire, non allattare mio figlio, non fare niente». C’è in lei un bisogno di solitudine, di ricerca. La malattia sembra il sintomo, la somatizzazione di questa necessità che la ritrae dai flussi della vita.
Due Annalena
I suoi gesti a casa sono mossi dalla certezza di essere invisibile: «Mi sono alzata e sono andata in cucina perché sapevo che la casa era vuota e io non volevo vedere nessuno». Non riesce a coincidere con sé e con i suoi affetti, Annalena. Il marito si preoccupa, seppure con totale rispetto, ma lei fugge. Alla fine in ospedale ci arriva e si salva. E quello diventa il luogo di un peculiare esercizio dello spirito.
La copertina del libro.
L’infermiera che il primo giorno l’aveva aiutata a spogliarsi le ha anche tolto dal collo una collanina d’argento, l’ha messa sul comodino accanto al letto. Era fatta di piccole sfere, e lei l’ha usata quasi ogni notte come un rosario: al buio prendeva in mano la collanina fredda e parlava con Dio («Non saprei come altro chiamarlo
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