«La vita non è qualcosa che ci scivola addosso, ma un mistero stupefacente, che in noi provoca la poesia», ha detto papa Francesco in una recente udienza. E ha proseguito: «Quando a una persona manca quella dimensione poetica, diciamo, quando manca la poesia, la sua anima zoppica»[1]. Per questo ho pensato di contattare il regista Martin Scorsese: in lui la vita ha provocato poesia. Negli incontri che ho avuto con lui a Roma e New York abbiamo tanto parlato di vita e poesia, specialmente in occasione di un’intervista che gli feci per «La Civiltà Cattolica»[2]. Per questo adesso ho desiderato sapere come avesse vissuto questo tempo di forzata clausura dovuta al coronavirus. Quali gli echi e le risonanze? Ci siamo scambiate domande e risposte, in un dialogo non lungo, ma che è stato limato dal regista per ben sette volte, per il desiderio di essere preciso su un’esperienza che lo ha toccato profondamente.
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In questo periodo il sentimento predominante che ha associato le vite di molte persone in tutto il mondo sembra essere l’ansia. Anche tu hai dovuto affrontare quella sensazione? Come ha inciso sulla tua creatività la tua condizione interiore?
A febbraio, quando mi sono reso conto che tutto si stava fermando – una «pausa», si diceva – e che io e mia moglie avremmo dovuto metterci in quarantena e rimanere a casa per un periodo di tempo indefinito, l’ansia ha fatto la sua apparizione. Una nuova forma di ansia. L’ansia di non sapere nulla. Proprio nulla. Era tutto in sospeso, rinviato a non si sapeva quando, come in un sogno in cui corri a perdifiato, ma non arrivi mai alla meta. In una certa misura, è ancora così. Quando sarebbe finita? Quando saremmo stati in grado di uscire? Quando avremmo potuto vedere nostra figlia? E poi, quando avrei potuto girare il film che avevo pianificato con tanta cura? Presto? E in quali condizioni? Avremmo avuto problemi di location? Sarei riuscito a trovare il modo per lavorare con gli attori e la troupe? E poi una domanda precisa…
Quale?
Se non avessi potuto girare il mio film, chi ero io?
Come hai vissuto la tua «casa»? Hai scoperto cose nuove? L’ hai sentita come un rifugio o una prigione?
L’ansia è andata crescendo, e con essa la consapevolezza che avrei potuto non uscirne vivo. Soffro di asma da tutta la vita, e questo virus a quanto pare attacca i polmoni più spesso che qualsiasi altra parte del corpo. Mi sono reso conto che avrei potuto davvero tirare il mio ultimo respiro in quella stanza della mia casa che era stata un rifugio e ora era diventata una specie di fortezza, e stavo iniziando a sentirla come la mia prigione. Mi sono ritrovato solo, nella mia stanza, a vivere da un respiro all’altro…
Una condizione che è rimasta?
Poi, qualcosa… è arrivato. Si è posato su di me e dentro di me. Non so descriverlo diversamente. All’improvviso ho visto tutto da un punto di vista diverso, migliore. Sì, non sapevo ancora che cosa sarebbe successo, ma non lo sapeva nessuno. Avrei potuto ammalarmi e non lasciare mai più quella stanza, ma, se fosse accaduto, non avrei potuto farci niente. È divenuto tutto più semplice e ho provato un senso di sollievo. E questa consapevolezza mi ha riportato agli aspetti essenziali della mia vita. Ai miei amici e alle persone che amo, alle persone di cui devo prendermi cura. Alle benedizioni che ho ricevuto: ai miei figli, a ogni momento trascorso con loro, a ogni abbraccio, ogni bacio e ogni saluto… a mia moglie, e quanto sono fortunato ad aver trovato qualcuno con cui sono riuscito a crescere e a far crescere insieme una bambina e al tempo stesso… a poter fare il lavoro che amo. Ricordo che abbiamo già parlato di alcune di queste emozioni e percezioni quando mi hai intervistato all’epoca dell’uscita di Silence.
Per me quel nostro colloquio è stato davvero importante. Te ne sono molto grato. Ricordo quelle emozioni e le cose che ci siamo dette.
Sì, ma adesso le avvertivo con maggiore urgenza, quasi mi bruciavano dentro. Infatti convivevamo improvvisamente con la consapevolezza che proprio l’aria che ci circonda, l’aria che ci sostenta avrebbe potuto ucciderci. E in me, nei miei cari e nei miei amici, quelle circostanze hanno avuto l’effetto di avvicinarci di più. Hanno spazzato via tutte le formalità, tutti gli eufemismi per «amicizia» e «comunità» che ci sono spuntati attorno sui social media e che spesso sembrano soprattutto filtri o addirittura barriere rispetto a ciò che è reale. E poi qualcosa ci è stato rivelato, ci è stato donato. Le vecchie domande abituali: «Come stai?», «Stai bene?» sono diventate immediate e cruciali. Sono diventate vitali. Abbiamo scoperto di essere davvero tutti insieme, non solo nella pandemia, ma nell’esistenza, nella vita. Siamo diventati veramente uno.
Colleghi questa scoperta a qualcosa del tuo passato, della tua opera?
Dopo aver girato Toro scatenato, mi sono ritrovato a riflettere su una domanda. Gli ultimi 10 anni erano stati convulsi; in quel film avevo dato tutto di me e della mia esperienza, ero esausto e mi chiedevo: «Potrò mai stare da solo in una stanza, da solo con me stesso? Potrò mai soltanto essere?». Ed ecco che, tanti anni dopo, di colpo, eccomi qui, da solo nella mia stanza, a vivere l’attimo, ogni attimo prezioso del mio essere vivo. Ovviamente è stata una situazione pesante, ma eccola.
Che cosa hai imparato da questo tempo di pandemia che vorresti comunicare a un ragazzo che proprio adesso si sta aprendo al futuro?
Come mi piacerebbe dire ai giovani, proprio ora, quanto sono fortunati a essere vivi in un momento così illuminante. Molti di noi pensano che tutto tornerà come prima, ma ovviamente non va mai così: tutto cambia sempre, e proprio questo periodo ce lo ricorda con forza. Può ispirarci a riconoscere la nostra capacità di cambiare in meglio. Di fatto è questo che sta succedendo, al momento, con le proteste di massa in tutto il mondo: i giovani stanno combattendo per migliorare le cose.
Sei riuscito a leggere libri in questo periodo? Quali? Perché? Che cosa ti hanno lasciato in cuore quelle letture? E comunque ci sono autori che, secondo te, ci aiutano a capire meglio ciò che abbiamo vissuto? E hai pensato a un film?
Durante questi mesi ho guardato molto cinema e letto molto, spesso sulla scorta di conversazioni con amici o di loro suggerimenti. È stata una circostanza preziosa. Insieme a mia moglie ho rivisto I gangsters di Robert Siodmak, che questa volta mi ha davvero commosso: forse c’entra qualcosa la presenza di Burt Lancaster, il modo in cui incarna il desiderio per le donne che ama, ma anche le tonalità molto particolari delle immagini, che fanno sembrare il film al tempo stesso realistico e onirico. Ho preso in prestito una bellissima scena de I gangsters in una piccola riflessione casalinga che ho realizzato per la trasmissione di Mary Beard sulla Bbc. Ho ripreso I fratelli Karamazov e ne ho letto alcuni passi in un festival letterario che si era trasferito online. Ho letto per la prima volta La valle dell’Eden di Steinbeck, seguendo il consiglio di uno stretto collaboratore, e sono rimasto colpito, quasi ossessionato, da due passaggi del capitolo in cui uno dei personaggi riconsidera la storia di Caino e Abele. Lui e i suoi saggi anziani ragionano su come tradurre la parola ebraica timshel e scoprono che la traduzione corretta sarebbe «tu puoi», non «tu dovrai». In altre parole, per Caino trionfare sul peccato dopo l’assassinio di suo fratello non è un destino o una promessa, ma una scelta: la sua scelta. Con un altro amico ho letto alcune storie di Kipling e ne siamo rimasti entrambi impressionati, in particolare da Loro. È un racconto molto diverso dalle storie e dalle poesie per cui è diventato famoso. Lo ha scritto dopo la morte della giovane figlia ed esprime le tragedie che avvengono nella vita in maniera così vera e sottile… mi basta ripensarci per commuovermi. E l’altra sera ho visto un film, su suggerimento di un altro amico: un ritratto firmato da Ken Burns dell’artista e maestro spirituale William Segal.
Mi sembra un itinerario, una strada dentro l’esperienza che hai fatto e che ti ha accompagnato a capire. Cosa ti ha colpito in questo ritratto di Segal?
C’è una scena in cui Segal invita, con l’esperienza della sua quiete e della sua meditazione, a puntare la nostra attenzione su ciò che è essenziale, su ciò che accade proprio ora, tra un respiro e l’altro. Essere. Respirare. Qui. Adesso. Tutto questo non è grazia?
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ASTHMA AND GRACE. Interview with Martin Scorsese
What lingering consequences does an artist experience who has been forced into cloister like existence due to the coronavirus? What are the repercussions and resonances? How does this moment affect their innermost creativity? In a long-distance conversation, the editor of La Civiltà Cattolica, Fr. Antonio Spadaro, asked questions to the great American director of Italian origin Martin Scorsese, who wanted to speak openly about this experience that had touched him deeply. He has always struggled with asthma, in search of a grace that has settled – as he says – “on me and within me”.
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[1]. Francesco, Discorso nell’Udienza generale, 24 giugno 2020.
[2]. Cfr A. Spadaro, «“Silence”. Intervista a Martin Scorsese», in Civ. Catt. 2016 IV 565-586.