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Alle 7,30 di venerdì 5 marzo 2021 il volo Alitalia con a bordo papa Francesco, i membri del seguito e i giornalisti è decollato alla volta di Baghdad, dove è atterrato alle 14,00 ora locale.
Il Pontefice, durante l’Udienza generale del 3 marzo, alla vigilia della partenza, aveva affermato: «Da tempo desidero incontrare quel popolo che ha tanto sofferto; incontrare quella Chiesa martire nella terra di Abramo. Insieme con gli altri leader religiosi, faremo anche un altro passo avanti nella fratellanza tra i credenti». E concludeva: «Il popolo iracheno ci aspetta», e certamente «non si può deludere un popolo per la seconda volta».
Perché, in effetti, il 33° viaggio apostolico di Francesco realizza un desiderio che era già di san Giovanni Paolo II. Nei suoi pellegrinaggi giubilari del 2000 papa Wojtyła si recò prima sul Sinai, e il mese dopo in Terra Santa, sul monte Nebo e a Gerusalemme. La sua volontà era di preparare questi due pellegrinaggi insieme a quello a Ur dei Caldei, in Iraq. Il viaggio era già pronto a dicembre del 1999, ma non fu possibile realizzarlo: erano contrari gli Stati Uniti che, guidati da Bill Clinton, temevano che la presenza del Papa avrebbe rafforzato Saddam Hussein; ma divenne contrario alla fine anche lo stesso Saddam.
Papa Wojtyła poi alzò la sua voce contro la seconda spedizione militare occidentale nel Paese, la guerra-lampo del 2003, conclusasi con il rovesciamento del governo di Saddam. Ma non venne ascoltato. E da allora il Paese è piombato in una spirale di violenza ulteriormente aggravata dal gruppo fondamentalista «Stato islamico in Iraq e nel Levante» (Is), vortice dal quale anche solo pensare la visita di un Papa sarebbe sembrato un miraggio.
Importanza geopolitica e tensioni nell’Iraq di oggi
I piani che si intrecciano nell’itinerario di Francesco sono molteplici e si comprendono solamente se si valuta che cosa sia oggi l’Iraq, ma anche quale sia la sua importanza per la storia dell’umanità, oltre che delle religioni[1]. Luogo ideale dell’Eden biblico, è terra di forti tensioni e ferite aperte, uno di quei tipici luoghi che Francesco vuole toccare con mano con una presenza che è testimonianza e gesto di guarigione. La fertilità per i due grandi fiumi che l’attraversano, il Tigri e l’Eufrate, e le ricchezze petrolifere sono state all’origine di grandi benedizioni, di guerre e di sofferenze, delle quali la nostra rivista ha dato conto costantemente.
La Mesopotamia è stata la culla di grandi civiltà antiche: i Sumeri, i Babilonesi, gli Assiri. Qui si ebbe la prima codificazione scritta di leggi con il Codice di Hammurabi. Qui è nata la fede di Abramo, e qui hanno predicato e si pensa che siano sepolti vari profeti: Ezechiele, Giona, Naum. Qui è fiorita la prima evangelizzazione attribuita all’apostolo Tommaso, e qui si è sviluppata la Chiesa d’Oriente, che estese la sua feconda presenza lungo il Golfo Persico fino all’India, all’Afghanistan e all’antica Cina. Qui l’islam fece una delle sue prime conquiste e conobbe la divisione tra sunniti e sciiti[2]. Qui sono nati grandi opere teologiche, grandi santi, scrittori sacri ed eresie. Già parte dell’Impero ottomano e, dopo il crollo di quest’ultimo, affidato nel 1920 dalla Società delle Nazioni all’amministrazione britannica con il Trattato di Sèvres[3], l’Iraq divenne una monarchia indipendente nel 1932 e una Repubblica il 14 luglio 1958.
Questa terra è anche intrisa del sangue di innumerevoli conflitti recenti, in particolare le due Guerre del Golfo nel 1991 e nel 2003, e di una storia che grava sulle spalle delle popolazioni che oggi la abitano. Dopo poco più di un anno, tempo in cui era stato sottoposto a una autorità provvisoria della coalizione, nel 2004 l’Iraq è tornato a essere uno Stato indipendente e sovrano, e il 15 ottobre 2005 un referendum ha approvato la nuova Costituzione, che ha istituito uno Stato parlamentare federale in cui viene concessa una forte autonomia ai governatorati. La Costituzione afferma che «lo Stato garantisce la protezione dell’individuo dalla coercizione intellettuale, politica e religiosa» e «ogni individuo deve godere della libertà intellettuale, di coscienza e di fede» (articoli 37/2 e 42).
Il lento e difficile processo di normalizzazione nel Paese ha subìto un brusco arresto nel 2014 con l’ascesa del cosiddetto «Stato islamico». L’allora premier Haydar al-‘Abadi dichiarò ufficialmente vinta la guerra contro questo gruppo il 9 dicembre 2017.
Oggi la stabilità politica del Paese è resa fragile dalla ripresa delle iniziative delle milizie dello Stato Islamico e di diversi attentati contro i civili, come l’attacco del 21 gennaio 2021 in un mercato a Baghdad, che ha provocato 35 vittime e 100 feriti, e le ingerenze di potenze straniere, come la Turchia – protagonista in questi ultimi mesi di diverse incursioni in territorio iracheno contro i curdi – e l’Iran. Con l’inasprirsi dei rapporti tra Teheran e gli Stati Uniti, soprattutto dopo l’uccisione, il 3 gennaio 2020, del generale iraniano Qasem Soleimani all’aeroporto internazionale di Baghdad, è infatti cresciuto l’attivismo delle milizie filoiraniane nel Paese[4].
Non si devono neppure dimenticare le difficili condizioni economiche e la mancanza di prospettive sociali per i più giovani. Secondo le stime del Fondo monetario internazionale solo quest’anno l’Iraq ridurrà la sua economia dell’11%, con una povertà che rasenterà il 40%.
La presenza dei cristiani e la loro fuga
Il peso dei conflitti è caduto anche sulle spalle dei cristiani – comunità sopravvissute a secoli di adattamenti –, che hanno resistito a convivenze non facili, a pressioni autoritarie, discriminazioni e anche a persecuzioni e la cui presenza nel corso degli ultimi 100 anni è drammaticamente diminuita.
Ricordiamo che la presenza cristiana in Mesopotamia risale alle origini stesse del cristianesimo, come testimoniano anche gli Atti degli Apostoli. Secondo la tradizione, infatti, il cristianesimo fu diffuso in queste terre nel I secolo dalla predicazione di san Tommaso Apostolo e dei suoi discepoli, e si estese all’Asia orientale. La vita di questa comunità è suddivisa oggi tra caldei, siriaci, armeni, latini, melchiti, ortodossi e protestanti.
Alla vigilia della seconda Guerra del Golfo, i cristiani in Iraq erano stimati tra 1 e 1,4 milioni (6% della popolazione). Da allora la loro presenza si è ridotta drasticamente fino a scendere, secondo le stime più recenti, a circa l’1,5%, cioè tra le 300.000 e 400.000 persone. L’occupazione da parte dell’Is della Piana di Ninive, culla storica del cristianesimo mesopotamico, ha letteralmente svuotato della presenza cristiana questa regione. Più di 100.000 cristiani sono stati costretti ad abbandonare le loro case insieme ad altre minoranze perseguitate, come gli yazidi. Molte di queste famiglie hanno trovato rifugio nel Kurdistan iracheno. Oltre 60 chiese sono state danneggiate o distrutte.
Il grande sforzo di solidarietà profuso dalla comunità cattolica internazionale ha permesso il rientro di oltre il 45% delle famiglie originariamente residenti nella Piana di Ninive e che erano state cacciate dalla violenza islamista. Tuttavia permangono le difficoltà e la paura, che scoraggiano il ritorno di molte persone. Tra le maggiori cause di timore vi sono la violenta attività delle milizie locali e la possibilità di un ritorno dello Stato Islamico.
Per questo ricostruire la fiducia è fondamentale e va esclusa la creazione di «enclave cristiane», come pure va evitato il settarismo etnico[5]: «È necessario che i cristiani, rinvigoriti nella fede, non debbano comportarsi come una minoranza che si affanna a raggiungere la storia che apparentemente li ha lasciati indietro, ma devono ripartire dal concetto di patria comune, di cittadinanza senza connotazioni e dalla Carta dei diritti dell’uomo, dal bene collettivo e da una organizzazione moderna e razionale»[6].
Per una nuova cittadinanza: il discorso alle autorità
Dopo il suo arrivo a Baghdad e l’accoglienza e i saluti del primo ministro, papa Francesco si è recato al Palazzo presidenziale per la cerimonia ufficiale di benvenuto da parte del Presidente della Repubblica, Barham Ahmed Salih Qassim. Dopo un dialogo privato e lo scambio dei doni, ha avuto luogo l’incontro con le autorità politiche e religiose, il Corpo diplomatico, gli imprenditori e i rappresentanti della società e della cultura: in tutto circa 150 persone.
Il Presidente, nel suo saluto, ha apprezzato «la dimensione storica, religiosa e umana» della visita di Francesco. E ha proseguito: «Gli iracheni esprimono la loro fierezza per la Sua presenza, Santità, come un loro grande e caro ospite, nonostante le raccomandazioni di posticipare la visita a causa delle circostanze eccezionali che il mondo sta attraversando a motivo dell’epidemia, e malgrado le condizioni difficili che il nostro Paese ferito sta attraversando. Superare tutte queste circostanze raddoppia in realtà il valore della visita nella considerazione degli iracheni».
Dopo il saluto del Presidente il Papa ha pronunciato il suo discorso, nel quale ha definito l’Iraq «culla della civiltà strettamente legata, attraverso il Patriarca Abramo e numerosi profeti, alla storia della salvezza e alle grandi tradizioni religiose dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam». Queste parole iniziali hanno posto il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato ad Abu Dhabi[7] il 4 febbraio, come riferimento chiaro, con l’auspicio che si possa «camminare insieme, come fratelli e sorelle», nella convinzione che «i veri insegnamenti delle religioni invitano a restare ancorati ai valori della pace», ma anche «della reciproca conoscenza, della fratellanza umana e della convivenza comune». Questo il fulcro del messaggio che Francesco ha voluto consegnare al Paese: essere uniti, «superare rivalità e contrapposizioni», considerando «la diversità religiosa, culturale ed etnica, che ha caratterizzato la società irachena per millenni», come una «preziosa risorsa», che richiede un «sano pluralismo».
Questo discorso ha indicato con chiarezza due strade per costruire una società civile irachena sana. La prima è interna: la cittadinanza. «Si dia spazio – ha detto Francesco – a tutti i cittadini che vogliono costruire insieme questo Paese, nel dialogo, nel confronto franco e sincero, costruttivo. A chi si impegna per la riconciliazione e, per il bene comune, è disposto a mettere da parte i propri interessi. In questi anni l’Iraq ha cercato di mettere le basi per una società democratica. È indispensabile in tal senso assicurare la partecipazione di tutti i gruppi politici, sociali e religiosi e garantire i diritti fondamentali di tutti i cittadini. Nessuno sia considerato cittadino di seconda classe».
La seconda è esterna all’Iraq: l’impegno della comunità internazionale. Questa «ha un ruolo decisivo da svolgere nella promozione della pace in questa terra e in tutto il Medio Oriente». Le sfide «richiedono una cooperazione su scala globale al fine di affrontare anche le disuguaglianze economiche e le tensioni regionali che mettono a rischio la stabilità di queste terre […] senza imporre interessi politici e ideologici». In questo senso serve impegno per la ricostruzione e l’assistenza ai rifugiati e agli sfollati interni. Siamo, quindi, agli antipodi della visione colonialista che ha dominato nella valutazione di che cosa sarebbe dovuto essere il Medio Oriente. Non c’è di mezzo alcuna «missione civilizzatrice», ma il desiderio che l’Iraq possa essere aiutato a essere se stesso e ad autodeterminarsi in maniera quanto più possibile armonica.
Le Chiese dell’Iraq, fili colorati di un unico tappeto
Il Papa ha quindi lasciato il Palazzo intorno alle 16,15 per recarsi nella cattedrale di Sayidat al-Nejat (Nostra Signora della Salvezza), sede dell’arcieparchia siro-cattolica di Baghdad, una delle più grandi chiese della città. Essa è stata bersaglio di due attacchi terroristici, di cui uno, il 31 ottobre 2010, a opera del sedicente «Stato Islamico», in cui sono morte 48 persone – tra cui due sacerdoti –, e ne sono state ferite circa 70. La chiesa, progettata dall’architetto polacco Kafka in stile moderno, rappresenta una nave che sostiene i credenti, come la barca che portava Gesù e i suoi discepoli nella tempesta. Dopo l’attacco del 2010, la chiesa è stata ristrutturata, e per le vittime è stato eretto un memoriale.
Nella cattedrale si sono raccolte un centinaio di persone tra vescovi, sacerdoti, religiosi, seminaristi e catechisti[8]. Il patriarca, card. Louis Raphaël Sako, salutando il Pontefice, ha parlato di una «visita coraggiosa», che «ci sprona a continuare nella vita con fede e costanza, a consolidare le nostre relazioni fraterne vicendevoli tra cristiani e con i nostri compatrioti musulmani, che amiamo come fratelli».
Dopo i saluti il Papa ha pronunciato un discorso nel quale ha ricordato innanzitutto la «presenza ininterrotta dalla Chiesa in queste terre fin dai primi tempi», ma anche con la consapevolezza delle difficoltà, che hanno «portato a sfollamenti interni e alla migrazione di molti, soprattutto cristiani, in altre parti del mondo». Occorre vincere il «virus dello scoraggiamento» con il «vaccino» della «speranza», ha detto.
Il Pontefice ha poi proposto «l’immagine familiare di un tappeto. Le diverse Chiese presenti in Iraq, ognuna con il suo secolare patrimonio storico, liturgico e spirituale, sono come tanti singoli fili colorati che, intrecciati insieme, compongono un unico bellissimo tappeto, che non solo attesta la nostra fraternità, ma rimanda anche alla sua fonte. Perché Dio stesso è l’artista che ha ideato questo tappeto, che lo tesse con pazienza e lo rammenda con cura, volendoci sempre tra noi ben intrecciati, come suoi figli e figlie».
Najaf: il Papa nella città santa sciita
La mattina di sabato, alle 7,45, è decollato il volo Iraqi Airways che ha portato il Pontefice da Baghdad a Najaf, dove è stato accolto dal governatore. Najaf è una città dell’Iraq centrale, situata a circa 160 km a sud di Baghdad. Principale centro religioso sciita iracheno, è meta di pellegrinaggio per gli sciiti di tutto il mondo, perché ospita la tomba di una delle figure più riverite dell’islam, Ali ibn Abi Talib, noto anche come Imām ʿAlī, cugino e genero di Maometto e primo imam degli sciiti.
Dopo l’atterraggio il Papa si è recato alla Residenza del Grande Ayatollah Sayyid Ali al-Husayni al-Sistani che si trova all’interno della moschea dell’Imām ʿAlī, percorrendo le viuzze per accedervi. L’interpretazione delle fonti islamiche sostenuta da al-Sistani predica l’astensione delle autorità religiose dall’attività politica diretta; in questo senso si contrappone all’interpretazione dell’ayatollah Khomeini che si impose in Iran[9]. Nel 2004, al-Sistani sostenne le libere elezioni in Iraq, dando così un contributo importante alla pianificazione del primo governo democratico nel Paese, mentre nel 2014 ha invitato gli iracheni a unirsi per lottare contro il sedicente «Stato Islamico».
Dopo l’intervento militare a guida Usa che nel 2003 aveva abbattuto il regime baathista, una fatwa proclamata dall’ayatollah al-Sistani aveva richiamato tutti i musulmani sciiti a tutelare e non maltrattare i membri delle comunità di fede minoritarie, compresi i cristiani, che non andavano identificati come «quinte colonne» delle forze militari straniere[10]. Nei luoghi della visita papale sono apparsi molti manifesti di benvenuto con le immagini di Francesco e di al-Sistani e con un famoso detto dell’Imām ʿAlī: «Le persone sono di due tipi: o sono tuoi fratelli nella fede o tuoi simili nell’umanità».
Dalle poche immagini che abbiamo dell’incontro possiamo notare l’austerità della casa del leader sciita: una stanza spoglia, con due lunghi e stretti divani. In questo clima essenziale il colloquio è stato molto cordiale: mai l’Ayatollah ha ricevuto capi di Stato e mai si è alzato in piedi, mentre in questo caso lo ha fatto più volte. L’incontro è durato circa 45 minuti, e i due leader – così come hanno riferito i rispettivi comunicati – hanno parlato dell’importanza della collaborazione fra le comunità religiose e del consolidamento dei valori di armonia, coesistenza pacifica e solidarietà umana, basati sulla promozione dei diritti e del rispetto reciproco tra i seguaci di diverse religioni e tendenze intellettuali. E questo perché si possa contribuire al bene del Paese e dell’intera umanità. Francesco nell’udienza generale del 10 marzo ha definito l’incontro come «indimenticabile». Mohammad Ali Abtahi, vicepresidente durante la presidenza di Mohammad Khatami, in un tweet ha definito l’incontro «una delle svolte storiche delle religioni divine»[11].
Le implicazioni geopolitiche: un cambio di paradigma
Il viaggio di Francesco accende i fari su Najaf, «città santa» sciita e apre una prospettiva importante anche a favore del dialogo intra-islamico, proponendo l’attualità di Abramo, il patriarca comune ai tre monoteismi, nella riconciliazione.
Durante la conferenza stampa sul volo di ritorno a Roma, Francesco ha ricordato, a proposito dell’islam e delle sue tensioni interne: «Pensiamo a noi cristiani, alla guerra dei Trent’anni, alla notte di San Bartolomeo, per fare un esempio. Pensiamo a questo. Come fra noi cambia la mentalità». Il riferimento parallelo fra le tensioni del cristianesimo tra cattolici e protestanti nel XVII secolo e quelle islamiche è interessante. Allora fu guerra per il desiderio dei prìncipi tedeschi di porre un freno alle aspirazioni del nuovo imperatore asburgico che, con l’aiuto spagnolo, voleva privarli del diritto di determinare la religione dei propri regni (cuius regio eius religio). Si concluse con la pace di Vestfalia (1648), che inaugurò un nuovo ordine internazionale, che prevedeva che gli Stati si riconoscessero tra loro in quanto Stati, al di là della fede dei loro sovrani. E questo pose fine al lungo periodo di guerre di religione, tanto che i successivi conflitti in Europa ebbero esclusivamente carattere politico. Il messaggio della visita ad al-Sistani è il riconoscimento pacifico di un islam «plurale», e più in generale degli Stati come soggetti plurali, premessa per garantire a tutti la cittadinanza. Il primo ministro al-Kadhimi ha recepito il messaggio e ha proclamato il 6 marzo giornata nazionale della tolleranza e della coesistenza.
L’incontro che il Papa auspica non è – come in altri accordi – funzionale a essere uniti contro qualcuno. La pace che Najaf – e subito dopo Ur, come vedremo – fa intuire che non è «contro» e non è binaria (buoni contro cattivi), ma è profondamente rispettosa e inclusiva.
Un cambio di paradigma radicale rispetto alla vita di un Paese che ha vissuto 40 anni di sofferenza e lotte, ma anche rispetto a equilibri più ad ampio raggio. Infatti, Francesco si insinua – distruggendole – nelle narrative consolidate e nelle strategie geopolitiche che vedono attivi in quella terra tutti i grandi attori mondiali: Stati Uniti e Russia, ma anche Francia e Regno Unito (cristiani), Arabia Saudita e Turchia (sunniti), Iran e le milizie filoiraniane (sciiti), e adesso anche Cina.
La prima è la narrativa consolidata che tanto male ha fatto: i cristiani sono le quinte colonne dell’Occidente, come gli sciiti dell’Iran e i sunniti dell’Arabia Saudita.
La seconda è la narrativa religiosa di un conflitto permanente tra sunniti e sciiti, con la prevalenza, in casa sciita, dello sciismo teocratico di marca khomeinista: molti oggi hanno scoperto che lo sciismo è plurale, ed esiste quello tradizionale, che è proprio quello di al-Sistani.
La terza è la complessa visione geopolitica che ha come focus Baghdad, nutrita di ideologia apocalittica[12]. Infatti, gli interessi dell’islam politico – sia sunnita sia sciita – si intrecciano a scapito della religione, e anzi usandola.
Nel suo discorso di benvenuto, il Presidente iracheno ha sintetizzato bene il senso della visita del Pontefice, lanciando la proposta di un «simposio permanente per il dialogo, sotto la supervisione dei delegati del Vaticano, di Najaf, di al-Azhar, di Zaytuna e dei principali centri religiosi che ricercano la storia comune e multiforme alla luce degli oggetti sacri e del patrimonio cuneiforme».
Citando Najaf e al-Azhar, insieme alla Santa Sede, il Presidente ha auspicato un’armonia tra l’islam sunnita e quello sciita che scompagina narrative e geopolitiche consolidate. Si tratta di un processo vitale del quale il Papa si è fatto enzima già con la sua stessa presenza sul suolo iracheno. Presenza che non era riuscito a garantire san Giovanni Paolo II per i veti incrociati, ma che avrebbe, forse, risparmiato molto sangue a quella terra martoriata. È necessario, comunque, precisare che la lettura geopolitica del viaggio di Francesco ha senso solamente se si considera l’autorità morale e spirituale del Pontefice, l’unica in grado di comporre i pezzi di un puzzle molto complesso.
Ur, cantiere del futuro: la memoria di Abramo e la sapienza evangelica
Alla fine dell’incontro con il leader sciita, il Papa si è recato all’aeroporto per trasferirsi all’aeroporto di Nassiriya e da lì a Ur dei Caldei, che è stata la capitale di un Impero – quello sumerico – che alla fine del III millennio a.C. dominava su tutta la Mesopotamia.
La posizione di Ur tra i fiumi Tigri ed Eufrate ne facilitò lo sviluppo commerciale e il predominio politico. È la città da dove Terach, padre di Abramo, prese «suo figlio, e Lot, figlio di Aran, figlio cioè di suo figlio, e Sarài sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nella terra di Canaan. Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono» (Gen 11,31).
Il 25 gennaio del 2020 Francesco aveva ricevuto il presidente iracheno, Barham Salih, e in quella occasione, proprio al momento dello scambio di doni, aveva espresso il desiderio che il Presidente dell’Iraq gli portasse «una carta di identità» che attestasse «Papa Francesco figlio del figlio del figlio del figlio… di Abramo». In qualche modo con questa visita il Papa ha ricevuto tale carta d’identità e ha invitato gli iracheni a chiederla simbolicamente[13].
Infatti, proprio a Ur è stato realizzato un incontro interreligioso con letture dalla Bibbia e dal Corano e l’ascolto di testimonianze. Erano rappresentate le religioni professate sul suolo iracheno[14]. La piana assolata e desertica, con lo ziggurat sullo sfondo e gli antichi scavi, ha fatto da scenario a un evento di grande intensità spirituale. Tra le testimonianze, quella di una signora di religione sabea-mandea che ha parlato dell’unità del popolo iracheno: «Il nostro sangue si è mischiato, insieme abbiamo provato l’amarezza dell’embargo, abbiamo la stessa identità». E ha proseguito: «La visita di Sua Santità in Iraq significa che la Mesopotamia è ancora rispettata e apprezzata. La Sua visita significa un trionfo di virtù, è un simbolo di apprezzamento per gli iracheni».
Il Papa ha tenuto un discorso e ha recitato con gli altri la «Preghiera dei figli di Abramo». Il suo discorso a Ur è stato uno dei principali del viaggio, e merita una riflessione ulteriore. Francesco ha ribadito la centralità del patriarca Abramo. «Questo luogo benedetto – ha detto – ci riporta alle origini, alle sorgenti dell’opera di Dio, alla nascita delle nostre religioni». Da qui l’appello a uno sguardo superiore: «Dio chiese ad Abramo di alzare lo sguardo al cielo e di contarvi le stelle (cfr Gen 15,5). In quelle stelle vide la promessa della sua discendenza, vide noi. E oggi noi, ebrei, cristiani e musulmani, insieme con i fratelli e le sorelle di altre religioni, onoriamo il padre Abramo facendo come lui: guardiamo il cielo e camminiamo sulla terra». Questo «guardare il cielo», dove «le stelle brillano insieme», significa percepire un «messaggio di unità»: «L’Altissimo sopra di noi ci invita a non separarci mai dal fratello che sta accanto a noi. L’Oltre di Dio ci rimanda all’altro del fratello». Per questo terrorismo e odio non possono essere abbinati alla religione: «il terrorismo abusa della religione».
Il Papa ha espresso la consapevolezza che anche nei momenti bui del terrore «sono brillate delle stelle». «Penso – ha detto – ai giovani volontari musulmani di Mosul, che hanno aiutato a risistemare chiese e monasteri, costruendo amicizie fraterne sulle macerie dell’odio, e a cristiani e musulmani che oggi restaurano insieme moschee e chiese». Da Ur, dunque, sale un forte messaggio di unità, l’appello a «remare insieme dalla stessa parte», perché isolarsi porta solo a costruire muri.
Ma c’è anche un invito a «camminare sulla terra», dopo aver guardato il cielo. Ciascuno deve «uscire», come fece Abramo, il quale, chiamato da Dio, «dovette lasciare terra, casa e parentela. Ma, rinunciando alla sua famiglia, divenne padre di una famiglia di popoli». Abramo diventa modello di una società, di un modo di fare politica, di impegno per ricostruire un Paese. È un invito a «lasciare quei legami e attaccamenti» che ci chiudono nei «nostri gruppi» e ci impediscono «di vedere negli altri dei fratelli». «Da dove può cominciare allora il cammino della pace?», si è chiesto il Papa. La sua risposta indica con chiarezza la strada: «Dalla rinuncia ad avere nemici. Chi ha il coraggio di guardare le stelle, chi crede in Dio, non ha nemici da combattere. Ha un solo nemico da affrontare, che sta alla porta del cuore e bussa per entrare: è l’inimicizia. Mentre alcuni cercano di avere nemici più che di essere amici, mentre tanti cercano il proprio utile a discapito di altri, chi guarda le stelle delle promesse, chi segue le vie di Dio non può essere contro qualcuno, ma per tutti». Altrimenti il «“si salvi chi può” si tradurrà rapidamente nel “tutti contro tutti”».
E ha concluso così il suo discorso a Ur: «Noi, fratelli e sorelle di diverse religioni, ci siamo trovati qui, a casa, e da qui, insieme, vogliamo impegnarci perché si realizzi il sogno di Dio: che la famiglia umana diventi ospitale e accogliente verso tutti i suoi figli; che, guardando il medesimo cielo, cammini in pace sulla stessa terra». Ur non è più soltanto un simbolo del passato, ma il cantiere del futuro. Il riconoscimento di una comunanza di destino condivisa da tutti può toccare le corde intime di tanti iracheni. Ma non solo: l’essere oggi sulle orme di Abramo «sia segno di benedizione e di speranza per l’Iraq, per il Medio Oriente e per il mondo intero». E per questo «abbiamo bisogno di fare insieme qualcosa di buono e di concreto».
Il Papa poi è andato all’aeroporto di Nassirya per tornare a Baghdad e raggiungere la Nunziatura.
Alle 17,30 il Pontefice si è recato nella cattedrale caldea di San Giuseppe, dalla struttura in cemento armato, sormontata da un tetto spiovente e decorata da vetrate colorate. Qui ha celebrato la Messa in rito caldeo. Ha pronunciato la sua omelia, nella quale ha parlato di tre temi, tre parole chiave: «sapienza, testimonianza e promesse».
La sapienza è stata coltivata in queste terre da tempi antichissimi. Qui Francesco ha tradotto in termini di «sapienza» ciò che aveva detto al mattino, certificando il cambio di paradigma e fondandolo spiritualmente con il linguaggio delle Beatitudini evangeliche. La sapienza biblica è un «capovolgimento totale» rispetto alla sapienza umana. Il libro della Sapienza, infatti, ribalta la prospettiva comune, affermando che «gli ultimi meritano misericordia, ma i potenti saranno vagliati con rigore» (Sap 6,6). Il Vangelo chiama beati «i poveri, quelli che piangono, i perseguitati». La testimonianza è la via per incarnare questa sapienza di Gesù che si manifesta nelle Beatitudini. La ricompensa è quella contenuta nelle promesse divine. Come fu per Abramo: «Dio gli promette una grande discendenza, ma lui e Sara sono anziani e senza figli. Proprio nella loro anzianità paziente e fiduciosa Dio opera meraviglie e dona loro un figlio».
Da qui il Pontefice è rientrato in Nunziatura per la cena e il riposo.
Erbil, Mosul, Qaraqosh: la bellezza della diversità contro il fanatismo
Domenica 7 marzo, alle 7,15 papa Francesco è decollato alla volta di Erbil, che è la capitale e la più grande città della regione autonoma del Kurdistan iracheno, situata a nord-est del Paese ed è stata riconosciuta ufficialmente con l’introduzione della nuova Costituzione adottata nel 2005. Il 12 gennaio 2018 e il 18 febbraio 2020 il Papa aveva incontrato il primo ministro del governo regionale del Kurdistan iracheno, Masrour Barzani, che lo aveva invitato a visitare la regione. Al momento, in Kurdistan si trovano oltre un milione di rifugiati, e la regione è diventata un approdo per diverse minoranze.
Erbil è considerata una delle città più antiche del mondo, il cui primo insediamento urbano risalirebbe almeno al XXIII secolo a.C. Ha visto insediarsi Sumeri, Assiri, Babilonesi, Sasanidi, Medi, Romani, Abbasidi e Ottomani. La città, oltre ai rifugiati siriani, ha accolto nei suoi campi profughi circa 540.000 sfollati iracheni, giunti qui dal resto del Paese per sfuggire al sedicente «Stato Islamico».
Dopo i saluti ufficiali il Papa si è trasferito in elicottero alla volta di Mosul. Fondata nel VII secolo a.C., come parte dell’Impero assiro, nel corso di 2500 anni, Mosul ha rappresentato l’identità pluralistica dell’Iraq, grazie alla coesistenza, tra le mura della Città Vecchia, di vari gruppi etnici, linguistici e religiosi, fino a quando non è stata occupata per tre anni dalle truppe dell’autoproclamato «Stato Islamico», fra il giugno 2014 e il luglio 2017. La città è stata sottoposta a una sistematica devastazione. Si stima che circa mezzo milione di persone, tra cui molti cristiani, siano fuggite da Mosul, che nel 2004 contava oltre 1.800.000 abitanti. La furia distruttrice ha colpito chiese, ma anche reperti archeologici e un patrimonio di manoscritti e libri.
Il Papa si è recato a Hosh al-Bieaa, piazza delle 4 chiese (siro-cattolica, armeno-apostolica, siro-ortodossa e caldea), distrutte tra il 2014 e il 2017 prima dai militanti dell’Isis e poi dai bombardamenti della coalizione. Qui alle 10,00 si è svolta una preghiera di suffragio per le vittime della guerra, accompagnata da testimonianze di un musulmano sunnita e di una suora. Nel suo saluto, prima della preghiera, Francesco ha voluto ricordare le parole di una testimonianza ascoltata: «La vera identità di questa città è quella della convivenza armoniosa tra persone di origini e culture diverse». Da qui la convinzione che «la fraternità è più forte del fratricidio». La fratellanza è stata resa visibile nel discorso di Francesco dalla citazione dei due simboli che testimoniano l’eterno desiderio dell’umanità di avvicinarsi a Dio: la moschea Al-Nouri con il suo minareto Al Hadba e la chiesa di Nostra Signora dell’orologio. Prima di partire, Francesco ha visitato le rovine intorno alla piazza e si è fermato a pregare davanti alle rovine della Chiesa siro-cattolica.
Da Mosul il Papa si è recato in elicottero a Qaraqosh, la principale città cristiana del Paese, con oltre 50.000 abitanti, di cui il 90% cristiani. Nell’estate del 2014 essa venne invasa dai miliziani del sedicente «Stato Islamico». Decine di migliaia di cristiani hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni, trovando riparo per lo più nel Kurdistan iracheno. Le associazioni internazionali hanno cercato di portare avanti la ricostruzione di ciò che è andato distrutto, come la chiesa cristiana più grande del Paese, al-Tahira al-Kubra, la cattedrale dell’Immacolata Concezione, dove il Papa è giunto intorno alle 12,00. Fa impressione vedere le immagini di questa chiesa distrutta e data alle fiamme e confrontarle con l’attuale chiesa restaurata. Il clima è stato di grande festa, come per una risurrezione.
Qui il Papa ha tenuto un discorso e poi ha recitato l’Angelus. Anche questa è stata un’occasione propizia per esaltare la diversità: «La bellezza non è monocromatica, ma risplende per la varietà e le differenze», che invece «il potere distruttivo della violenza» vuole annullare. Il fanatismo è monocromatico. Allora questo è il tempo di ricostruire, avendo davanti agli occhi l’esempio dei padri e delle madri nella fede, che hanno lasciato una «grande eredità spirituale». Francesco ha riproposto qui la sua ferma convinzione per cui, quando gli anziani e i giovani si incontrano, «gli anziani sognano, sognano un futuro per i giovani; e i giovani possono raccogliere questi sogni e profetizzare, portarli avanti». Occorre mantenere i legami per custodire le radici e andare avanti.
Terminato l’incontro, il Papa è andato al Seminario di St. Peter di Erbil, l’unico oggi operativo in Iraq, per un rapido pranzo. Nel pomeriggio si è recato allo stadio «Franso Hariri», che alle 16,30 ha percorso con la papamobile senza protezioni particolari, e poi ha celebrato la Messa. Nell’omelia ha parlato della sapienza di Gesù, che «ci libera da un modo di intendere la fede, la famiglia, la comunità che divide, che contrappone, che esclude, affinché possiamo costruire una Chiesa e una società aperte a tutti e sollecite verso i nostri fratelli e sorelle più bisognosi. E nello stesso tempo ci rafforza, perché sappiamo resistere alla tentazione di cercare vendetta, che fa sprofondare in una spirale di ritorsioni senza fine». E Francesco ha concluso: «Oggi, posso vedere e toccare con mano che la Chiesa in Iraq è viva, che Cristo vive e opera in questo suo popolo santo e fedele».
Alla fine il Papa ha pronunciato un messaggio di ringraziamento per la sua visita, dicendo: «In questi giorni passati in mezzo a voi, ho sentito voci di dolore e di angoscia, ma ho sentito anche voci di speranza e di consolazione». Dopo la Messa Francesco si è recato all’aeroporto di Erbil per far rientro a Baghdad.
Al mattino di lunedì 8 marzo, dopo la Messa celebrata in forma privata, il Pontefice si è congedato dalla Nunziatura e si è diretto all’aeroporto di Baghdad, dove è stato accolto dal Presidente della Repubblica e dalla sua consorte, con i quali ha avuto un incontro privato di alcuni minuti prima di decollare alle 9,40 alla volta dell’aeroporto di Roma Ciampino, dove è atterrato alle 12,30.
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Il Pontefice, nell’Udienza generale del 10 marzo, ha detto di aver «sentito forte il senso penitenziale di questo pellegrinaggio». Si è avvicinato a quel popolo martoriato prendendo su di sé, «a nome della Chiesa Cattolica, la croce che loro portano da anni». Con il suo viaggio in Iraq, è tornato fisicamente al luogo di origine dell’arca di Noè, alla Mesopotamia. L’arca riappare nel luogo nel quale è stata concepita per spaccare il mare ghiacciato dell’odio e della divisione, per spegnere ogni focolaio di pensiero apocalittico spurio, che vede solo «martiri» e «apostati» là dove invece siamo tutti fratelli. Francesco ha evocato dall’Iraq un nuovo umanesimo, quello che in Fratelli tutti (n. 8) aveva descritto così: «Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!». La fratellanza non si affida a patti interessati a equilibri di potere o economici, ma solamente all’umanità più vera e autentica: è l’arca che può salvarci dal diluvio.
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[1]. Cfr F. Filoni, «Dove è nata la fede di Abramo», in Oss. Rom., 10 dicembre 2020.
[2]. Cfr G. Sale, Isis, Islam e cristiani d’Oriente, Milano, Jaca Book, 2016, 69-128.
[3]. Cfr Id., «I Trattati che fecero il Medio Oriente», in Civ. Catt. 2020 II 141-151.
[4]. Una di queste milizie ha rivendicato l’attacco con razzi alla base militare della coalizione internazionale a guida Usa a Erbil, il 15 febbraio scorso, che ha provocato una vittima e almeno 9 feriti. Il 20 febbraio la grande base aerea di Balad, nel triangolo sunnita a 80 km a nord della capitale, è stata colpita da 4 razzi. Il 25 febbraio gli Stati Uniti hanno bombardato la Siria, nella zona orientale, al confine con l’Iraq, prendendo di mira infrastrutture delle milizie appoggiate dall’Iran. Sono 17 i combattenti filo-iraniani morti nel raid americano. Il Pentagono spiega che il raid è avvenuto in risposta all’attacco missilistico in Iraq dello scorso 15 febbraio.
[5]. Il 30 gennaio 2013, appena eletto, il Patriarca caldeo Sako lanciò subito l’allarme riguardo ai cristiani che rischiano anche loro di essere contagiati dal settarismo: «Adesso purtroppo si sente qualcuno che dice: sono più armeno che cristiano, più assiro che cristiano, più caldeo che cristiano… In questo modo si spegne il cristianesimo. Noi, come vescovi, dobbiamo essere vigilanti contro queste forme malate di vivere la propria identità».
[6]. F. Filoni, «Dove è nata la fede di Abramo», cit. Su questo punto l’attuale premier Mustafa Abdellatif Mshatat, conosciuto come al-Kadhimi, ha manifestato appoggio e sostegno concreto nel cercare di fermare l’esodo, anche compiendo gesti altamente simbolici, come quello di dichiarare il Natale giorno festivo pubblico in tutto il Paese.
[7]. La nostra rivista ha pubblicato vari approfondimenti sul Documento, che poi ha raccolto nel volume Fratellanza, Roma, La Civiltà Cattolica, 2020, della collana «Accènti», pubblicato con la sponsorizzazione dell’Higher Commitee for Human Fraternity: cfr https://www.laciviltacattolica.it/prodotto/fratellanza
[8]. L’Assemblea dei vescovi cattolici di Iraq riunisce i vescovi della Chiesa caldea (5 arcieparchie – di cui quella di Baghdad propria del Patriarca – e 4 eparchie suffraganee), della Chiesa siro-cattolica (due arcieparchie, una eparchia e un esarcato patriarcale), della Chiesa armeno-cattolica (arcieparchia di Baghdad degli armeni), della Chiesa melchita (facente capo all’esarcato patriarcale dell’Iraq) e della Chiesa latina (arcidiocesi di Baghdad dei latini). A presiederla è Sua Beatitudine Louis Raphaël Sako, patriarca di Babilonia dei caldei. L’arcivescovo di Baghdad dei latini è anche membro della Conferenza dei vescovi latini delle Regioni arabe. Nel Paese ci sono in tutto 19 vescovi, 153 sacerdoti (tra diocesani e religiosi), 20 diaconi permanenti, 365 suore, 32 seminaristi e 632 catechisti. Cfr F. Filoni, La Chiesa nella terra di Abramo. Dalla diocesi di Babilonia dei latini alla nunziatura apostolica in Iraq, Milano, Rizzoli, 2006; Id., La Chiesa in Iraq. Storia, sviluppo e missione, dagli inizi ai nostri giorni, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2015.
[9]. Cfr R. Cristiano, Tra lo scià e Khomeini. ‘Ali Shari’ati: un’utopia soppressa, Roma, Jouvence, 2006. Riccardo Cristiano è uno dei più fini interpreti del significato e dell’impatto del viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq. È possibile leggere il suo pensiero in varie pubblicazioni – raggiungibili sulla rete prima – durante e dopo il viaggio del Papa.
[10]. Ricordiamo che nel 2005, alla morte di Giovanni Paolo II, l’ayatollah al-Sistani aveva spedito un telegramma al Segretario di Stato vaticano, cardinale Angelo Sodano, e all’allora Nunzio apostolico in Iraq, arcivescovo Fernando Filoni, per esprimere il cordoglio «a tutti i cattolici» per la morte del Papa, ricordando che «egli ha trasmesso il messaggio della pace e a ha promosso il dialogo interreligioso. Egli è stato un Papa molto rispettoso di tutte le religioni».
[11]. In un’intervista che ha preceduto il viaggio, Sayyed Jawad Mohammed Taqi al-Khoei – segretario generale dell’Istituto al-Khoei di Najaf e della famiglia del maestro di al-Sistani – ha affermato: «Non consideriamo il Papa solo come il leader dei cristiani cattolici, ma come un simbolo di pace e moderazione. La visita di Papa Francesco in Iraq non è solo per i cristiani, ma è per tutti coloro che ovunque lavorano per la pace».
[12]. Cfr A. Spadaro, «Sfida all’apocalisse», in Civ. Catt. 2020 I 11-26; Id. «Oltre l’apocalisse. Ripartire da Baghdad», ivi 2021 I 56-58.
[13]. Ricordiamo che nel 2017 Francesco, ricevendo in udienza le Sovraintendenze irachene per sciiti, sunniti, cristiani, yazidi, sabei/mandei, disse: «Abbiamo un padre comune sulla terra: Abramo, e da quella prima “uscita” di Abramo, noi veniamo, fino ad oggi, tutti insieme. Noi siamo fratelli e, come fratelli, tutti diversi e tutti uguali, come le dita di una mano: cinque sono le dita, tutte dita, ma tutte diverse»: cfr https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2017/03/29/0196/00454.html
[14]. Alcuni si sono meravigliati dell’assenza degli ebrei. Il motivo è legato al fatto che l’incontro interreligioso si è limitato alla partecipazione di cittadini iracheni. Purtroppo, da lunghi anni la presenza della comunità ebraica in Iraq è ridotta al minimo. È comunque da rilevare che papa Francesco nel suo discorso a Ur ha chiaramente affermato: «Oggi noi, ebrei, cristiani e musulmani, insieme con i fratelli e le sorelle di altre religioni, onoriamo il padre Abramo facendo come lui: guardiamo il cielo e camminiamo sulla terra».