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Il Medio Oriente dopo il Trattato di Sykes-Picot
Il Trattato segreto di Sykes-Picot del maggio 1916[1], con il quale la Francia e l’Inghilterra si sarebbero spartiti, in caso di vittoria, l’Impero ottomano, perse in gran parte il suo significato già un anno dopo la sua firma, quando fatti nuovi vennero a modificare la composizione stessa dello schieramento alleato, nonché gli obiettivi specifici perseguiti dai suoi membri[2]. In realtà, molte sue disposizioni divennero lettera morta, e soprattutto per gli inglesi risultò evidente la necessità di «ricontrattare» tra le potenze dell’Intesa un nuovo modus vivendi in Medio Oriente. Ciò fu fatto non senza difficoltà in un lasso di tempo piuttosto lungo, che va dall’armistizio di Mudros (30 ottobre 1918), con il quale il sultano-califfo Maometto VI firmava la resa, fino al Trattato di Losanna, concluso il 24 luglio 1923. Con questo ultimo Trattato, alla luce degli accordi precedenti – quelli di Sanremo e di Sèvres –, che avevano già smembrato l’Impero ottomano[3], veniva formalizzata l’istituzione dei «mandati» per il Levante e la Mesopotamia, affidati alle due potenze europee vincitrici del conflitto. In tal modo si cercò di sistemare e di chiudere la difficile «Questione orientale» dal punto di vista del diritto internazionale[4].
Va ricordato che i colonialisti europei, attraverso questi accordi (che sostanzialmente consistevano nel tracciare confini e barriere), esportarono in Medio Oriente – e in Africa – il modello dello Stato-nazione in una regione alla quale esso era estraneo, in quanto mancante di confini chiari dal punto di vista geografico, etnico-culturale e religioso: per secoli, in questo vasto territorio, le persone, le merci e le idee si erano spostate liberamente, senza ostacoli. Il Medio Oriente, formalmente, rientrava in gran parte nel multietnico Impero ottomano, ma di fatto «è sempre stato una mescolanza di popoli – scrive il politologo palestinese Iyad el-Baghadadi –, per cui le sue varie componenti non potevano essere separate senza che si operasse una drastica pulizia etnica»[5].
Alla fine della guerra – cioè al momento dell’armistizio di Mudros –, l’esercito inglese occupava la Palestina, il Libano, la Siria, la Cilicia, le province di Bassora e di Baghdad, e subito dopo quella di Mosul: in tutto il Levante e nella Mesopotamia erano presenti soldati e guarnigioni di Sua Maestà britannica. Questo stato di cose indusse il governo inglese a chiedere a quello di Parigi di rivedere le clausole del Trattato di Sykes-Picot, in modo da spingerlo a rinunciare alla «protezione» di gran parte del territorio siriano, che in quel momento era sottoposto al comando di Faysal[6]. Perché – si chiedevano i comandanti inglesi – i francesi, che erano totalmente assenti dal teatro di guerra in quelle regioni, avrebbero dovuto beneficiare, in base ad accordi presi nel 1916, della parte economicamente più sviluppata dell’Impero ottomano?
Su questo punto dell’accordo la Francia fu irremovibile: il massimo che Lloyd George riuscì a «strappare» a Clemenceau fu la Palestina e la ricca provincia di Mosul. L’Inghilterra in quel momento aveva bisogno che il fronte alleato rimanesse compatto, soprattutto per la sistemazione delle difficili questioni europee. Il primo ministro inglese disse chiaramente ai sostenitori della «linea dura» su tale materia che per lui l’amicizia con la Francia valeva «cento Sirie», e nel novembre 1919, contravvenendo agli accordi presi con gli hascemiti della Mecca, diede ordine alle truppe inglesi di ritirarsi dalla Siria, dal Libano e dalla Cilicia, lasciando il passo a quelle francesi. Questa decisione fu avvertita in Medio Oriente come un vero e proprio tradimento della «perfida Albione» nei confronti della causa nazionale araba, di cui gli hascemiti si erano fatti propugnatori, avendo guadagnato nel frattempo il sostegno dei ceti medi e della borghesia delle maggiori città mediorientali[7].
L’articolo 22 del Trattato della Società delle Nazioni
La Conferenza di pace che si aprì a Versailles[8] non trattò direttamente la complicata questione mediorientale, che fu demandata a un’altra sede più appropriata. Oltre a occuparsi della nuova sistemazione dell’Europa post-bellica, essa fissò alcuni princìpi, con lo scopo di rifondare su basi più solide l’ordine internazionale. Su richiesta degli Stati Uniti, più interessati ai problemi della sicurezza mondiale che a quelli europei, si acconsentì alla creazione della Società delle Nazioni quale struttura permanente al cui interno risolvere pacificamente, con le armi della diplomazia – e rigettando la prassi degli accordi segreti –, le controversie internazionali.
La nuova struttura però nacque già indebolita, perché a essa non furono ammesse né la Germania, considerata responsabile della guerra mondiale, che aveva causato oltre 10 milioni di morti, né le nuove Repubbliche socialiste nate dalla Rivoluzione d’ottobre. Ma, soprattutto, a essa non parteciparono coloro che ne erano stati i maggiori ispiratori, cioè gli Stati Uniti d’America, a causa dell’opposizione che il partito repubblicano fece in Senato alla ratifica del Trattato di pace. L’atto istitutivo della Società delle Nazioni – o Patto della Società delle Nazioni – fu annesso al Trattato di pace che fu firmato a Versailles il 28 giugno 1919.
Nel Patto della Società delle Nazioni, all’articolo 22, fu istituito il regime dei «mandati» in luogo degli antichi protettorati a «tutela» dei territori mediorientali – in particolare le regioni del Levante e della Mesopotamia –, che prima della guerra facevano parte dell’Impero ottomano e che, recitava il testo, «non sono ancora in grado di reggersi autonomamente nelle difficili condizioni del mondo moderno». Al fine di assicurare lo sviluppo di tali regioni si affidava a una «potenza mandataria» il compito di guidare quei popoli verso l’autonomia politica ed economica, fino al momento in cui sarebbero stati in grado di «reggersi autonomamente». Subito dopo si specificava che «i desiderata delle comunità devono essere tenuti in massima considerazione nella scelta della potenza mandataria»[9].
Il Supremo consiglio alleato, riunitosi a Sanremo nell’aprile del 1920, decise di nominare come potenze mandatarie la Francia e l’Inghilterra, le quali erano tenute a rispondere del loro operato davanti alla Società delle Nazioni e ai suoi organi di controllo. Nonostante alcune importanti modifiche, la nuova «spartizione» del Medio Oriente fu sostanzialmente operata sulla base dei criteri fissati anni prima dalle due potenze europee nel Trattato di Sykes-Picot. La Francia ebbe il mandato per i territori oggi comprendenti la Siria e il Libano; l’Inghilterra, invece, per quelli che oggi sono la Palestina, Israele, la Giordania e l’Iraq. Queste realtà politico-statuali fino a quel momento non erano mai esistite sulla carta geografica del Medio Oriente, ma furono artificiosamente create dalle potenze mandatarie e ricevettero l’indipendenza gradualmente, e sempre in seguito a laboriosi negoziati[10].
Il sistema dei mandati era fondato sul cosiddetto «principio di civilizzazione», su cui si reggeva il progetto imperialista delle potenze coloniali, e a cui faceva riferimento il suddetto articolo 22 del Patto, il quale affermava che il benessere e lo sviluppo di questi popoli è «il sacro dovere» delle nazioni civilizzate. In tal modo, mentre da un lato si cancellavano dalla carta geografica dell’Europa centrale antichi imperi multinazionali e multietnici, dall’altro veniva rafforzato e rivitalizzato, attraverso la creazione del sistema dei mandati, il «vecchio sistema coloniale», che sarebbe durato ancora fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Inoltre, sulla base dell’accordo, le potenze mandatarie avevano la facoltà di intervenire, pure pesantemente, sugli affari interni delle province loro affidate, anche modificandone l’ordinamento politico-amministrativo.
Di fatto, gli inglesi suddivisero il mandato della Palestina separando la Giordania, mentre crearono l’Iraq accorpando tre province dell’ex Impero ottomano: quelle di Baghdad, di Bassora e di Mosul. I francesi invece separarono la parte a maggioranza cristiana da tutto il resto, creando il Libano. La Siria dapprima fu suddivisa in quattro piccoli Stati su base etnico-religiosa (sunniti, sciiti, curdi e alauiti); successivamente, a partire dal 1927, divenne una Repubblica, modellata secondo i princìpi del costituzionalismo europeo, sebbene la Carta costituzionale redatta dall’Assemblea nazionale siriana non fosse accettata dalla Francia, che nel 1932 ne impose al Paese una propria. Inoltre, contrariamente a quanto stabilito dall’articolo 22 del Patto della Società delle Nazioni, le potenze mandatarie, nella gestione dei loro interessi «coloniali», non tennero in nessun conto il punto di vista delle comunità, in particolare delle classi medie e della nuova intellighenzia, che da tempo era stata conquistata alle idee del nazionalismo arabo[11].
Il principe Faysal alla Conferenza di pace di Parigi
Alla Conferenza di pace di Parigi, che si svolse nella prima metà del 1919, partecipò anche il principe Faysal, governatore della «grande Siria», con l’intento di far valere le ragioni della nazione araba. In particolare, egli era interessato a consolidare la sua posizione in Siria e a chiedere agli inglesi il rispetto dell’accordo da essi concluso nel 1916 con il padre, lo sceicco della Mecca al-Husayn ibn Ali. Nel gennaio egli presentò al Consiglio Supremo della Conferenza di pace un voluminoso memorandum nel quale esponeva le ragioni della creazione di uno Stato arabo autonomo nel Levante, omogeneo per lingua e per cultura e in quel momento sottoposto al controllo dell’Inghilterra. Chiedeva in particolare l’immediata e completa indipendenza per la «grande Siria» e per la provincia occidentale dell’Hijaz, mentre accettava, ma solo temporaneamente, l’intervento europeo in Palestina e in Mesopotamia, dove l’Inghilterra aveva mostrato interesse per i giacimenti petroliferi della regione di Mosul.
Per rendere più credibile la sua proposta, Faysal firmò con il capo del movimento sionista Chaim Weizmann un accordo, in base al quale accettava la Dichiarazione Balfour sulla creazione di un «focolare nazionale» per gli ebrei in Palestina. In calce al documento aggiunse che, se le potenze europee avessero operato la benché minima modifica «riguardo alle richieste hascemite per un regno arabo»[12], egli non avrebbe rispettato nessuna clausola dell’accordo. In realtà, come riconoscerà in seguito, egli era già in quel momento determinato a rendere non operativo l’accordo e a contrastare la nascita di uno Stato ebraico in un territorio arabo.
La prospettiva di uno Stato arabo unificato nel cuore del Medio Oriente non era vista con favore dalle potenze europee. La presenza di Faysal a Parigi era considerata dalla Francia, e soprattutto dall’Inghilterra, oltremodo imbarazzante, anche perché le richieste del principe hascemita si opponevano radicalmente agli accordi presi dalle due potenze nel maggio 1916 – e poi rivisti – in merito alla spartizione del Medio Oriente ottomano. La delegazione statunitense propose agli alleati una dignitosa via d’uscita in linea con lo spirito della Conferenza di pace e il principio wilsoniano di autodeterminazione dei popoli, cioè la nomina di una Commissione internazionale d’inchiesta con l’incarico di verificare sul luogo le reali aspirazioni del popolo arabo. Su incarico del governo americano, fu così creata la Commissione King-Crane, alla quale, però, non parteciparono né gli inglesi né i francesi, e questo rappresentò un elemento di debolezza della stessa Commissione[13].
Per Faysal, quella soluzione corrispondeva a una mezza vittoria: egli infatti poteva ritornare in patria con l’allettante promessa dell’imminente arrivo di una Commissione incaricata di verificare la situazione politico-economica del Paese, e non a mani vuote, cosa che avrebbe depotenziato la sua leadership e rimesso in discussione le sue pretese al trono siriano, contestato da diverse grandi famiglie locali. È stato fatto notare che la presenza della Commissione King-Crane nella «grande Siria» «innescò un acceso nazionalismo che, per la prima volta, riuscì a coinvolgere settori molto ampi della popolazione locale»[14].
Dopo aver mobilitato l’opinione pubblica, prendendo accordi con i capi tribù e i notabili delle città, Faysal si adoperò per la convocazione di un’assemblea rappresentativa, con l’incarico di redigere una relazione o un «manifesto» delle aspirazioni nazionali degli arabi, e ciò prima ancora che la Commissione arrivasse. In quelle regioni, considerate periferiche dagli ottomani, ciò accadeva per la prima volta. Nella nomina dei delegati, si seguì la procedura elettorale ottomana, cioè si invitava ciascuna etnia, città o movimento organizzato a inviare un proprio rappresentante a Damasco. Alla fine furono selezionati 100 delegati, scelti tra le famiglie più importanti della Siria, ma non tutti motivati allo stesso modo: infatti, solo 60 parteciparono alla redazione del manifesto.
La Commissione lavorò per sei settimane, viaggiando per il Paese e ascoltando diverse persone, gruppi e rappresentanti di comunità locali, dopodiché, nell’agosto del 1919, si ritirò a Istanbul per redigere una relazione finale. Nelle sue conclusioni essa avallò senza riserve le indicazioni ricevute dal «manifesto» presentato dal Congresso di Damasco, e cioè che per il bene della nazione araba sarebbe stato opportuno creare, nel territorio della «grande Siria», uno Stato unitario e indiviso, con il principe Faysal come monarca costituzionale. Si suggeriva inoltre che, nel caso si decidesse di sottoporre il Paese al controllo di una potenza fiduciaria – secondo le indicazioni ricevute dal Congresso –, dovevano essere preferiti gli Stati Uniti d’America o, in alternativa, l’Inghilterra, ma non la Francia, considerata potenza non gradita.
Sulla questione ebraica, la Commissione King-Crane sottolineava che le promesse della Dichiarazione Balfour circa la creazione di una national home per gli ebrei in Palestina risultavano incompatibili con i «diritti civili e religiosi delle comunità arabe in Palestina». Si denunciava, inoltre, la pratica dell’espropriazione di terreni, operata in vario modo dalle organizzazioni sioniste a danno dei residenti arabi, e si affermava che il 72% delle petizioni ricevute nella «grande Siria» erano contrarie al programma sionista[15].
A fine agosto del 1919, la Commissione presentò il rapporto alla delegazione americana a Parigi. Dopo essere stato ricevuto dalla segreteria della Conferenza, il rapporto fu semplicemente archiviato, senza mai essere stato discusso. Lo sviluppo successivo della situazione in tali regioni dimostrò la falsità delle promesse degli occidentali e l’inutilità delle procedure che erano state attivate su richiesta della Conferenza di pace. In effetti, subito dopo, la Francia e l’Inghilterra pattuirono un nuovo assetto del Medio Oriente, non tenendo affatto conto delle aspirazioni nazionali degli arabi.
Per non rompere l’alleanza con la Francia, l’Inghilterra dichiarò che a partire dall’1 novembre del 1919 avrebbe ritirato le sue truppe dalla Siria e dal Libano, lasciando quindi in quelle regioni campo libero alle truppe francesi. Londra consigliò a Faysal di raggiungere un accordo con Parigi, ma egli non riuscì a tenere sotto controllo le turbolenze dei suoi seguaci, che lo costrinsero a una politica provocatoria nei confronti dei francesi. Il Congresso nazionale siriano, prima di una prevedibile occupazione militare, preparò una dichiarazione di indipendenza nazionale, che fu proclamata l’8 marzo del 1920 e che, inoltre, riconosceva Faysal come re di Siria, Palestina e Libano.
Questa dichiarazione non fu accettata da nessuna delle potenze riunite a Parigi. I francesi, ormai decisi a intervenire militarmente, nel mese di luglio lanciarono un ultimatum, chiedendo a Faysal di accettare la protezione della Francia. Il nuovo re, mal consigliato dai suoi collaboratori – molti dei quali subito dopo lo avrebbero abbandonato al suo destino –, fece trascorrere il termine fissato senza avviare alcuna trattativa; dopodiché i francesi marciarono con il loro esercito su Damasco, ponendo fine al breve regno di Faysal, che fu espulso dalla Siria[16].
Le truppe del sovrano hascemita tentarono di bloccare l’avanzata francese presso un caravanserraglio nei pressi di Khan Maysalun. Si trattava di un piccolo esercito composto da 2.000 volontari male armati, ma molto motivati. Dopo una breve battaglia, i francesi sconfissero i siriani, e subito dopo occuparono la capitale, totalmente indifesa. Iniziava così l’occupazione coloniale della Siria – nominalmente definita «mandato» dagli accordi internazionali –, che sarebbe durata 26 anni.
Secondo lo storico del mondo arabo Eugene Rogan, la battaglia di Khan Maysalun «fu il marchio del tradimento dell’Inghilterra, che non aveva mantenuto le promesse fatte durante la guerra, il fallimento della visione del presidente statunitense Wilson sull’autodeterminazione nazionale e il trionfo degli interessi francesi e inglesi sulle speranze e sulle aspirazioni di milioni di arabi»[17]. Dopo questo fatto le potenze coloniali o mandatarie furono considerate nemiche della nazione araba, e quindi da combattere in tutti i modi e con tutti i mezzi.
Conclusione
Secondo alcuni interpreti, molti mali dell’attuale situazione mediorientale sono da ricercare nel modo in cui gli Stati del Levante e della Mesopotamia furono creati nel periodo dei «mandati», cioè non tenendo conto del fatto che ogni Paese era composto da molteplici comunità etnico-confessionali, la cui pacifica convivenza andava rispettata e garantita prima di ogni altra cosa. Gli interessi individualistici della Francia e dell’Inghilterra avevano impedito e soffocato lo sviluppo del Movimento nazionale arabo, che era sostenuto trasversalmente dalle diverse comunità e confessioni religiose che vivevano in quella vasta regione. Il movimento aveva una matrice aconfessionale, e ciò costituiva una novità per la regione mediorientale. In realtà, era nato come movimento di lotta contro l’autocrazia ottomana e sperava di ottenere la protezione delle potenze europee democratiche, in particolare dell’Inghilterra. Così invece non è stato, e la «perfida Albione» preferì sacrificare questa causa ai suoi interessi politici ed economici volti a conservare in Oriente il suo impero coloniale e, se possibile, a estenderlo. I «mandati» creati dalla Società delle Nazioni servirono quindi soprattutto a questo scopo.
In ultima analisi, come afferma il filosofo francese Edgar Morin, le grandi potenze occidentali hanno sprecato un’occasione preziosa. «Una nazione unificata araba – egli scrive – avrebbe potuto svilupparsi in senso multietnico e multiconfessionale, visto che in ognuno di quei territori avevano sempre convissuto islamici, cristiani ed ebrei. Questa nazione avrebbe potuto consolidarsi, sviluppandosi in un clima di libertà religiosa e di tolleranza»[18].
Con il tramonto definitivo del colonialismo, dopo la Seconda guerra mondiale si è andata consolidando in Medio Oriente non la forma democratica di Stato, come in quel tempo avevano auspicato le potenze europee, ma quella autoritaria-militare, oppure dinastico-patrimoniale, le cui conseguenze sul piano politico e sociale sono ancora dolorosamente visibili in molti Paesi[19]. Inoltre, la lotta per la creazione di uno Stato arabo unitario, il cosiddetto «panarabismo», a partire dagli anni Ottanta e in particolare con la crisi del socialismo arabo, è divenuta patrimonio ideale dei movimenti islamico-radicali, i quali collegano il tema della nazione araba con quello della umma.
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THE TREATIES THAT MADE THE MIDDLE EAST
The system of mandates, provided for by the Peace Treaty of Versailles (28 June 1919), is the foundation for the creation of the Middle Eastern States, which in the past were part of the Ottoman Empire. These States were artificially «designed» by the appointed powers and gathered a mosaic of ethnic-confessional communities, whose peaceful coexistence was not sufficiently guaranteed. The selfish interests of the great European powers – France and England – had prevented and stifled the development of the Arab national movement, which was supported transversally by the various religious communities and confessions living in that vast region. The results of these decisions still weigh painfully on the current events in the Middle East.
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[1]. Sul Trattato di Sykes-Picot, cfr G. Sale, «È la fine del Trattato di Sykes-Picot?», in Civ. Catt. 2016 III 110-124.
[2]. Infatti, nel novembre 1917 la Russia, che per prima con il Trattato di Costantinopoli aveva avanzato esigenti pretese sul territorio turco e su altre parti dell’Impero ottomano, dopo la rivoluzione bolscevica di ottobre abbandonò la «guerra imperialista» e chiese di rimanere neutrale nel conflitto. Inoltre, nell’ottobre del 1918 gli inglesi, che nel Levante avevano sbaragliato l’esercito ottomano ormai ridotto all’impotenza, consentirono alle truppe dello sceriffo della Mecca, al-Husayn ibn Ali, di entrare vincitrici in Damasco. Il generale inglese Allenby, contravvenendo alle disposizioni del Trattato di Sykes-Picot, che prevedevano l’attribuzione alla Francia di tutto il territorio della «grande Siria» (che comprendeva anche l’attuale Palestina e Giordania), consegnò il governatorato della regione al principe Faysal, terzo figlio di al-Husayn. Cosa che non fu affatto gradita dal governo di Parigi. Cfr D. Fromkin, Una pace senza pace. La caduta dell’impero ottomano e la nascita del Medio Oriente moderno, Milano, Rizzoli, 1992, 65 s.
[3]. Il Trattato di Sèvres, dell’agosto del 1920, impose al sultano Maometto VI la sottoscrizione di un accordo molto punitivo, che però il Parlamento turco rifiutò di ratificare. Esso imponeva non soltanto l’internazionalizzazione degli Stretti, ma anche la cessione alla Grecia della Tracia orientale, delle isole dell’Egeo e di Smirne con il suo entroterra. L’Armenia fu dichiarata indipendente, mentre il resto dell’Impero fu spartito dalla nuova Società delle Nazioni tra l’Inghilterra e la Francia. Il Trattato, con le sue volute lacune e ambiguità, fu interpretato dalle potenze vincitrici con massima larghezza e voracità: così, gli italiani occuparono le regioni anatoliche di Antalya e Konya prospicienti il Dodecaneso; i greci il territorio intorno a Smirne; i francesi la Cilicia; gli armeni occuparono il nordest dell’Anatolia. Ma contro questa tendenza, nel territorio che rimaneva ancora della Turchia si stava organizzando un movimento di riscossa nazionale, capeggiato da Mustafa Kemal, il quale il 22 giugno 1919 da Samsun lanciò un appello alla «disobbedienza» contro il governo di Istanbul, reo di essersi piegato a un armistizio così punitivo e umiliante, e propose la creazione di un nuovo Stato nazionale «turco» entro i «naturali confini dell’Anatolia». Cfr F. Cardini, Istanbul. Seduttrice, conquistatrice, sovrana, Bologna, il Mulino, 2014, 220.
[4]. Cfr E. Kedourie, «Il Medio Oriente 1900-1945», in C. L. Mowat (ed.), Storia del mondo moderno, vol. XII, Milano, Garzanti, 1972, 350. Il Trattato di Losanna non realizzò le aspirazioni nazionali di alcuni popoli, sulle quali si era discusso precedentemente a Sèvres: «Di uno Stato armeno indipendente nella Turchia orientale, molto più grande della piccola Repubblica Sovietica Armena, nel nuovo trattato non si faceva parola e men che meno di un Kurdistan autonomo» (E. Conze, 1919. La grande illusione, Milano, Rizzoli, 2019, 422). Cento anni dopo, come si evince dalle recenti vicende della guerra in Siria, la questione curda è ancora all’ordine del giorno della politica mondiale. Come allora, essa è difficile da risolvere secondo una prospettiva nazionalistico-indipendentista, per il fatto che questo popolo è presente in diversi Paesi mediorientali, come la Turchia, la Siria, l’Iran e l’Iraq. I curdi, il «popolo senza uno Stato», ritengono di essere stati penalizzati dalla Conferenza di pace e traditi dalle grandi potenze occidentali. In realtà, la questione storica andrebbe analizzata con maggiore precisione. Uno Stato curdo – previsto nel Trattato di Sèvres – non fu creato per vari motivi: sia per l’egoismo delle potenze vincitrici, che intendevano approfittare delle risorse dei Paesi che esse tenevano sotto mandato, sia anche perché nel frattempo si erano create divisioni tra le diverse etnie curde. In particolare, i curdi che vivevano in Turchia avevano contribuito attivamente alla creazione di un nuovo Stato, laico e repubblicano, e si sentivano cittadini turchi a pieno titolo. Tutto questo indebolì di molto le istanze di coloro che avevano chiesto la creazione di uno Stato curdo indipendente nel cuore del Medio Oriente.
[5]. I. el-Baghadadi, Il Triangolo vizioso. Tiranni, terroristi e l’Occidente, Roma – Bari, Laterza, 2019, 18.
[6]. Cfr ivi, 345; E. Kedourie, «Il Medio Oriente 1900-1945», cit., 345.
[7]. Cfr J. Barr, A Line in the Sand: Britain, France and the Struggle that Shaped the Middle East, London, Simon-Schuster, 2012, 34.
[8]. I Trattati di pace furono firmati fra il giugno 1919 e l’agosto 1920 e presero il nome dalle località intorno a Parigi dove avvenne la cerimonia della firma. Il primo e il più importante fu il Trattato di Versailles con la Germania (28 giugno 1919), al quale seguirono il Trattato di Saint-Germain-en-Laye con l’Austria (10 settembre 1919), il Trattato di Neuilly con la Bulgaria (27 novembre 1919) e il Trattato di Sèvres con la Turchia (10 agosto 1920). Cfr E. Gentile, Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un mondo, Roma – Bari, Laterza, 2014, 164; E. Conze, 1919. La grande illusione, cit.
[9] . Citato in J. L. Gelvin, Storia del Medio Oriente moderno, Torino, Einaudi, 2009, 224.
[10]. Cfr ivi, 230.
[11]. Cfr ivi, 229.
[12]. E. Rogan, Gli arabi, Milano, Bompiani, 2012, 217.
[13]. H. Mejcher, «L’Oriente arabo nel secolo XX», in U. Haarmann (ed.), Storia del mondo arabo, Torino, Einaudi, 2010, 486.
[14]. E. Rogan, Gli arabi, cit., 218.
[15]. Cfr Id., La Grande Guerra nel Medio Oriente. La caduta degli Ottomani 1914/1920, Milano, Bompiani, 2016, 612.
[16]. Cfr E. Kedourie, «Il Medio Oriente 1900-1945», cit., 350.
[17]. E. Rogan, Gli arabi, cit., 226.
[18]. E. Morin, «Il Medio Oriente libero e tollerante: torniamo al sogno di Lawrence d’Arabia», in la Repubblica, 29 novembre 2015. Cfr il libro-intervista di E. Morin – T. Ramadan, Il pericolo delle idee, Trento, Erickson, 2015.
[19]. Cfr P. Mishra, L’ età della rabbia. Una storia del presente, Milano, Mondadori, 2018, 128.