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Il rapporto tra la vita e la letteratura è sempre stato inquieto e complesso. Si potrebbe scrivere una vera e propria storia di questa relazione, che è stata ora affermata ora negata, ora desiderata, ora respinta. L’ultima poesia del poeta statunitense Raymond Carver[1] può aiutarci a comprendere come la letteratura non può non avere a che fare con le nostre più profonde aspettative.
E hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto? / Sì / E cos’è che volevi? / Potermi dire amato, sentirmi / amato sulla terra[2]. Carver scrive questa poesia, dal titolo Ultimo frammento, poco prima di morire. È una sorta di testamento. Le risposte alla domanda dei primi versi possono essere molteplici e sfumate, ma la domanda è in sé drammatica, cioè mette in gioco la libertà. L’esperienza creativa non può eluderla, se vuole essere se stessa. Ogni opera letteraria degna di questo nome deve confrontarsi con la domanda posta dai versi di Carver.
Jean Cocteau scrisse a Jacques Maritain: «La letteratura è impossibile, bisogna uscirne, ed è inutile cercare di tirarsene fuori con la letteratura perché solo l’amore e la Fede ci consentono di uscire da noi stessi»[3]. Ma per andare dove? Pier Vittorio Tondelli[4], scrittore scomparso nel 1991 a soli 36 anni per Aids, scrisse tra i suoi ultimi appunti: «La letteratura non salva, mai». Sono parole che ricordano drammaticamente anche gli ultimi versi di Clemente Rebora: Lungi da me la scappatoia dell’arte / per fuggir la stretta via che salva!
L’arte costituirebbe dunque una scappatoia. Sarebbe una forma di tragica consolazione, che confina con la percezione leopardiana dell’infinita vanità del tutto. È Stéphane Mallarmé a mettere in relazione la tristezza della carne con la vanità della lettura di tutti i libri: La chair est triste, hélas! Et j’ai lu tous les livres («La carne è triste, ahimè! E ho letto tutti i libri»). Che farsene di parole scarse, e forse senza sole, come le definiva Sandro Penna, o di qualche storta sillaba e secca come un ramo, secondo quanto scriveva Montale? È tutta qui la poesia, la letteratura?
Per rispondere, accostiamoci a Marcel Proust. A suo giudizio, infatti, la letteratura è una forma di «ritiro», in cui, nella solitudine, si fanno «tacere le parole», le nostre e quelle degli altri, con le quali giudichiamo le cose e la vita «senza essere noi stessi»[5]. Ma questo ritiro non è forse anche un «ritrarsi» dalla vita? In effetti, all’interno dello spazio aperto dal libro, Proust notava come i suoi pomeriggi dedicati alla lettura contenessero «più avvenimenti drammatici di quanti non ne contenga, spesso, un’intera vita»[6]. Erano gli avvenimenti che si susseguivano nel libro che stava leggendo. Sorgono quindi altre due domande interessanti: la vita contiene meno vita della letteratura? La letteratura è più vita della vita stessa?
Sembra in effetti che la letteratura sostituisca la vita o che almeno riesca a rimpiazzare momenti di tedio, trasformandoli in minuti, ore, giorni di pura avventura[7]. In realtà la letteratura non serve a sostituire la vita. Semmai è vero che ci sono aspetti della vita che spesso noi conosciamo solo nella lettura[8]. La grandezza dell’arte vera infatti è quella «di ritrovare, di riafferrare, di farci conoscere quella realtà lontani dalla quale viviamo, […] quella realtà che rischieremmo di morire senza aver conosciuta e che è, molto semplicemente, la nostra vita»[9]. Dunque, in sintesi: l’arte ci fa conoscere la vita, al di là della conoscenza convenzionale che di essa abbiamo. Ma allora, come la letteratura ci fa conoscere la vita?
Qui, in estrema sintesi, proveremo a rispondere a questa domanda attraverso sette immagini pertinenti all’esperienza letteraria, capaci di fare luce sull’esperienza creativa: la camera oscura, l’idraulica, la digestione, lo scoppio, il fuoco, la montagna, la conchiglia. Sono semplici suggestioni di un elenco che potrebbe essere infinito.
La camera oscura
Un romanzo, scrive Proust, è «una sorta di strumento ottico», che consente al lettore di «sviluppare» ciò che forse, senza il libro, non avrebbe osservato dentro di sé[10]. Il ruolo della lettura è fotografico: gli uomini spesso non vedono la loro vita, e così il loro passato diviene ingombro di tante lastre fotografiche che rimangono inutili perché l’intelligenza non le ha «sviluppate»[11]. La letteratura invece è come un laboratorio fotografico, nel quale è possibile elaborare le immagini della vita perché svelino i loro contorni e le loro sfumature. Ecco, dunque, a che cosa «serve» fondamentalmente la letteratura: a sviluppare le immagini della vita, a salvare la nostra esistenza dall’incomprensibilità.
Possiamo chiederci: come è possibile? La letteratura non mi parla della mia vita, ma di storie di altri. Appunto: la passione per la lettura richiede delle condizioni, vi è uno «straniamento», per il quale il mondo in cui ci si immerge nella lettura non è più il nostro, il solito: la Yourcenar e i suoi lettori entrano nel tempo di Adriano, come i lettori di Kafka si muovono verso l’irraggiungibile Castello, e i lettori di Carroll entrano nel Paese delle meraviglie…
Tuttavia, è proprio a partire dalla cripta del testo letterario e dai suoi sotterranei che è possibile rimettere in questione sia la nostra percezione comune delle cose sia la nostra personale esistenza in un gioco di immagini, interpretazioni e significati colti con maggiore chiarezza. Ecco allora la via per comprendere la virtù paradossale della lettura: «quella di astrarci dal mondo per trovargli un senso»[12], entrare in un mondo diverso rispetto a quello della nostra vita per discernere il senso proprio del nostro mondo.
Ma per sviluppare le immagini della vita è necessaria una capacità di «visione». Lo scrittore è chiamato ad avere una visione «anagogica» del mondo, cioè capace di intuire più livelli di realtà in un’immagine o in una situazione. Egli vede prima in superficie, ma la sua angolazione visiva è tale che comincia a vedere prima di arrivare alla superficie e continua a vedere dopo averla oltrepassata. Sa andare in profondità. E per far questo è necessario forse a certain grain of stupidity (Flannery O’Connor), «un granello di stupidità», quello che serve a tenere gli occhi imbambolati sul reale, pazientemente, uno sguardo che non si accontenta della superficie e dell’occhiata rapida e fugace[13].
L’idraulica
Si chiedeva il critico francese Charles Du Bos: «Senza la letteratura, cosa sarebbe la vita?». La risposta che ci offre sembra eccessiva e tuttavia resta appropriata nella sua ispirazione fondamentale. Eccola: «Non sarebbe altro che una cascata da cui tanti di noi sono sommersi, talmente insensata che noi, incapaci di interpretare, ci limitiamo a subire. Di fronte a tale cascata, la letteratura assolve le funzioni dell’idraulica: capta, raccoglie, convoglia e solleva le acque»[14].
In poche parole: senza la letteratura, la vita rischierebbe di essere come «allagata» dall’esperienza. La letteratura, rimanendo nella metafora, incontra l’uomo, il lettore, sotto il pelo dell’acqua che è quel prosaico e scialbo significato letterale, quella «letteralità» che «uccide», come ricorda san Paolo (cfr 2 Cor 3,6). La vita letteralizzata è quella ridotta al senso comune, all’apparenza, alla banalità illuministica della superficie.
La digestione
Alla lettura è stato spesso associato un ruolo di elaborazione «digestiva» del testo: la ruminatio della mucca ne è il modello, si potrebbe dire, ricordando, come fa ad esempio il gesuita Michel de Certeau, anche gli autori della grande tradizione spirituale, quali Guillaume de Saint-Thierry e Jean-Joseph Surin. Proprio Surin parla di «stomaco dell’anima». Si potrebbe elaborare una vera e propria «fisiologia della lettura digestiva»[15]. Proseguendo su questa linea, si può dire anche che la lettura è uno «stomaco per digerire la realtà», come aveva scritto Tondelli. In altri termini, possiamo parlare di «assimilazione». La letteratura è quel linguaggio capace di trasformare in sé il mondo e le esperienze[16].
La letteratura dice la nostra presenza nel mondo, la interpreta e la «digerisce», cogliendo ciò che va oltre la superficie del vissuto per discernere in essa significati e tensioni fondamentali. Da ciò comprendiamo che l’esperienza della poesia non è mai di «evasione».
Chi scrive prende posto nell’universo e, a partire da questa posizione, in modo realistico, fantastico, utopico o satirico elabora il proprio mondo, reinterpretandolo, amandolo o contestandolo, digerendolo, assimilandolo.
Lo scoppio
Iris, una bella poesia di William Carlos Williams[17] – forse il primo grande vero poeta americano nel senso pieno del termine, cioè non semplicemente post-britannico – prende il suo avvio da una esplosione: Uno scoppio d’iris così / scesi per la / colazione / esplorammo tutte le / stanze in cerca / di / quel profumo dolcissimo e da / prima non riuscimmo a / scoprirne la / sorgente poi un azzurro come / di mare ci / colse / in sussulto improvviso di tra / gli squillanti / petali[18].
La poesia prende il suo avvio con uno scoppio. La pagina, appena aperta, «esplode» agli occhi del lettore, proponendogli un’immagine deflagrante. Come e dove il poeta coglie questa immagine, che nell’originale ha in sé anche un suono iniziale esplosivo di onomatopea (a burst…)? Non lo sappiamo, però possiamo facilmente intuire che si tratti di una visione puntuale ma intensissima, da occhi spalancati, capaci di cogliere i petali dell’iris come trombe squillanti (trumpeting). Williams, in questi versi, coglie ed esprime tutta la potenza deflagrante del reale.
È possibile accostare a Iris un’altra poesia esplosiva, cioè Costrizione del poeta messinese Bartolo Cattafi[19], un autore che sembra riassumere in sé tutta la parabola del Novecento poetico: Siamo ora costretti al concreto / a una crosta di terra / a una sosta d’insetto / nel divampante segreto del papavero. I suoni dei primi tre versi (str tt cr cr st rr st tt) dicono tutto lo scricchiolìo della posizione precaria dell’uomo sulla Terra. Tuttavia, l’ultimo verso fa esplodere questa posizione, circoscrivendola in una fiammata: il divampante segreto del papavero (pam pa pa).
Anche questa poesia testimonia uno sguardo capace di cogliere la potenza dirompente del reale. Ecco dunque delineata la quarta immagine che ci aiuta a capire come la letteratura ci fa conoscere la vita: l’immagine di una esplosione. Le due poesie sono esplosive e, scoppiando, comunicano una nuova conoscenza del reale. Colgono un’immagine, e questa, nell’osservazione, esplode: il papavero «divampa», l’iris «scoppia». È questa dinamica esplosiva la vera utilità di un’opera d’arte, anche letteraria.
Siamo agli antipodi di ciò che scriveva Montale nel suo celebre verso Non domandarci la formula che mondi possa aprirti e invece vicinissimi al poeta gesuita inglese Gerard Manley Hopkins[20], il quale, col suo occhio d’aquila, nella poesia God’s Grandeur coglie come vive in fondo alle cose la freschezza più cara (There lives the dearest freshness deep down things). Il poeta non solo coglie la sostanza del reale, del «mondo», ma assiste anche alla sua espansione, alla sua «dichiarazione», per usare ancora un termine di Montale. Se un romanzo, un racconto o una poesia non dichiarano un mondo e non lo spalancano con un botto davanti al lettore – non importa se in modo realista o surrealista – non fanno compiere al lettore una vera esperienza, non fanno conoscere nulla: sono vuoto e noia. Anche Montale ha visto un «croco», coglie la sua grazia, ma l’esplosione fallisce, resta il silenzio, la grazia rimane sorda. Rimane la polvere: Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo / nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari e risplenda come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato.
L’opera letteraria che non apre mondi può ridursi solo a polvere, e cioè a tre cose: a ideologia, a sentimentalismo o a «esperimento» linguistico. Polvere, appunto.
Il fuoco
Invece la poesia non è polvere, ma fuoco. La parola «poetica», cioè letteraria, creativa, brucia ma non si consuma, rivelando una presenza permanente che la abita. Quando la parola è davvero «poetica» – cioè creativa –, diviene come un biblico roveto ardente. Quando è letta, diventa attiva nel lettore, comunica la sua potenza espressiva, ma non si disperde, non si infiacchisce nella lettura: è un fuoco che il suo ardore rigenera (Mario Luzi[21]). E soprattutto non «divora» il lettore annullandolo, assimilandolo a se stessa. Il fuoco prodotto da selci brucia e consuma in sé. L’esperienza della letteratura invece è generata da un «altro fuoco», che infiamma ma proprio per questo potenzia.
Ecco, dunque, la necessità di scoprire senza selci l’altro fuoco, come afferma un verso di Cattafi. Il poeta messinese, infatti, nel 1964, dopo essere stato segnato dalla dolorosa perdita della madre, da una deludente vicenda amorosa – giunta dopo vari amori mercenari – e da difficoltà economiche, dovute all’incapacità di trovare un’occupazione stabile, scrive, pubblica L’ osso, l’anima, che segna la sua definitiva consacrazione poetica. Per lui è chiaro: Tutto apparve concorde con un giro / centripeto di vortice / un senso precipite d’abisso.
Tutto gira in un vortice centripeto abissale. Come venirne fuori? Esiste una «salvezza» dal vortice? La questione drammatica assume eminentemente una forte tensione di tipo conoscitivo sul senso delle cose e si riversa nella scrittura poetica. L’io sembra essere tutto concentrato su se stesso, unico punto di autoriferimento. L’io da sé solo è cieco, non riesce da solo a far chiarezza sul mondo: non vedemmo le cose, c’era buio (Autocondanna). Occorre una luce che illumini secchi e squadrati / i nostri metri di mondo.
La luce giunge improvvisa e non è frutto dello sforzo umano. Non è il fuoco di Prometeo, non è un fuoco umano. Cattafi parla chiaramente della necessità (o del desiderio) di scoprire un altro fuoco (Preistoria).
La vera esperienza estetica rafforza l’uomo, non lo annienta, come invece fa l’ideologia o la mistificazione. La parola poetica è un’invisibile fiamma (Olga Sedakova), che resta viva e lascia vivi. Anzi, produce i suoi effetti lentamente, modificando nel lettore il suo modo di vedere il mondo, la realtà, la sua stessa vita. Chi di noi, infatti, non è stato influenzato, in un modo o nell’altro, da un personaggio di un romanzo o dal verso di una poesia? Chi non si è sentito «infiammare» da una parola poetica che, come ha scritto Carver, ha legna da ardere / proprio al centro, legna da ardere intrisa / di resina? Ecco perché la poesia ha vento di fuoco, come scrive Alda Merini[22]. Ovviamente qui fiamme e fuoco hanno potenza di simbolo, per dire ciò che brucia la vita umana senza consumarla: Il mio desiderio è che in cima / al cuore scocchi la corda della parola; / ma mi trasformo in arco, sono proprio l’arco / su cui poggia la freccia ancora accesa. Sono versi di un grande poeta giapponese contemporaneo, Kikuo Takano[23], così come è possibile tradurli nella nostra lingua italiana. La parola, freccia accesa, è anche la tensione della corda che la lancia, in realtà. La parola della letteratura, dell’espressione creativa di ogni essere umano è una corda tesa, in tensione, in attesa.
La montagna
La letteratura ha un «destino», è tensione d’attesa come una freccia infuocata, ricorda una direzione, una destinazione. È l’esperienza del poeta statunitense Wallace Stevens, per il quale, in The Poem that Took the Place of a Mountain, la poesia è come una montagna. Ecco la sesta immagine. Qui il poeta parla di sé in terza persona[24]: Era là, parola per parola, / La poesia che prese il posto di un monte. / Egli ne respirava l’ossigeno, / Perfino quando il libro stava rivoltato nella polvere del tavolo. / Gli ricordava come avesse avuto bisogno / Di un luogo da raggiungere nella sua direzione, / Come egli avesse ricomposto i pini, / Spostato le rocce e trovato un sentiero / fra le nuvole, / Per giungere al punto d’osservazione giusto, / Dove egli sarebbe stato completo di una completezza inspiegata: / La roccia esatta dove le sue inesattezze / Scoprissero, alla fine, la vista che erano andate guadagnando, / Dove egli potesse coricarsi e, fissando in basso il mare, / Riconoscere la sua unica e solitaria casa.
Non sappiamo se Stevens stesse vedendo una montagna, ma certo scrivere una poesia diventa per lui il vero modo di fare esperienza di una montagna, di goderne gli effetti, di conoscerla davvero. Ha scritto il teologo Karl Rahner che noi conosciamo il mondo grazie alle parole, ma che è anche vero che la cosa conosciuta, proprio grazie alla parola, «afferra» chi conosce. Così, «grazie alla parola l’oggetto conosciuto può penetrare dentro lo spazio esistenziale dell’uomo e questo ingresso segna il reale attuarsi della stessa conoscenza»[25]. Io conosco, dunque, perché grazie alla parola della poesia la cosa che conosco entra sul serio nella mia vita. Stevens conosce la montagna perché la parola della poesia conduce la montagna dentro la sua esistenza.
Scrivere una poesia, per Stevens, diviene allora come scalare un monte. E per lui questo significa avere una direzione, ricordare che c’è una meta, una exact rock, cioè una «roccia esatta», da raggiungere, nonostante tutte le nostre inesattezze. Questa è la scrittura umana, vera, ricca di senso, quella che procede affilata e dritta come una freccia e sa così persino spaccare le rocce e spostare i pini, pur di non perdere la forza della sua direzione. Una scrittura senza una «roccia esatta» da raggiungere è una macchia su carta porosa, stagno inutile e sciolto.
Ecco allora la domanda da porsi davanti a una poesia o a una narrazione: qual è la sua «roccia esatta»? Dove sta andando? Dove mi porta? Quale meta mi indica? E con quale forza? Con quale sguardo? Lo scrittore autentico sa spostare le rocce e trovare sentieri tra le nuvole per guadagnare la vista giusta, il giusto punto di osservazione dove si ottiene una pienezza, una completezza che, dice Stevens, resta inspiegabile. «Affacciandoci» dalla vera poesia possiamo guardare in basso e riconoscere la nostra vita.
La conchiglia
Le parole non sono identiche le une alle altre, non hanno lo stesso peso specifico, anche all’interno della stessa lingua, come fossero oggetti interscambiabili. Ogni loro classificazione è variabile, instabile, mobile. La differenza fondamentale – secondo Karl Rahner – è tra parole che sono come «farfalle morte, infilzate nelle vetrine dei vocabolari»[26] e parole viventi, che esistono da sempre e che, «quasi per miracolo, rinascono continuamente»[27]. Una distinzione più sottile riguarda le parole che riescono a chiarire i dettagli, il particolare, e le parole che fanno «brillare il tutto nella sua unità»[28]. Le prime danno conoscenza, le seconde sapienza. Ci sono parole, dunque, che attraverso l’indicazione di una cosa sola «lasciano trasparire la infinita gamma della realtà, simili a conchiglie dentro le quali risuona il vasto mare dell’infinità. Sono esse che ci illuminano e non noi ad illuminarle. Esse esercitano un potere su di noi, perché sono doni di Dio e non invenzioni umane, anche se è grazie alla tradizione degli uomini, che sono potute giungere fino a noi»[29].
La conchiglia (Muschel) è l’efficace simbolo per dire l’infinità presente nella finitudine della parola. Questa immagine ci aiuta a comprendere meglio la forma di conoscenza, di rapporto tra intelligenza e sensibilità. L’intuizione sensibile guida non alla definizione delle cose, cioè alla conoscenza scientifica, ma verso una intensa evocazione, verso una conoscenza simbolica e dunque più «oscura». Ci sono parole chiare e parole oscure. Le prime sono senza mistero, superficiali, sufficienti per la mente. Le seconde sono oscure perché «evocano il mistero luminosissimo delle cose»[30]. Sono queste le parole della poesia, le parole-conchiglia, opposte a quelle «farfalla infilzata».
Le parole–conchiglia sono simili a quelle di Adamo. In esse si avverte l’eco del primo giorno della creazione[31]. È vero che la realtà esiste anche se non è conosciuta e affermata, ma questa realtà riceve «intensità esistenziale» quando perviene alla parola: è ciò che ci comunica Adamo che nomina la creazione. Il poeta è colui che in modo denso e ricco prosegue l’opera di Adamo: «Il poeta non è un uomo che dice con superflua ricchezza di immagini e con fare compiaciuto, mediante le rime e con un profluvio di parolette sentimentali, ciò che altri – i filosofi e gli scienziati – hanno detto in un modo più chiaro, più oggettivo e più comprensibile»[32].
Il pericolo sempre in agguato è quello di vedere nella parola poetica solamente una felice illustrazione di ciò che potrebbe essere detto più brevemente e con più precisione e restare fissato nell’ordine del concetto. La parola-conchiglia ha il potere di dire ciò che nessun altro tipo di costruzione speculativa potrebbe giungere a esprimere.
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Allora sì, l’esperienza di Mallarmé, quella della «tristezza» della carne nonostante la lettura di «tutti i libri», è vera solamente se consideriamo la parola poetica vanità, illusione. Le immagini che abbiamo fornito danno una lettura diversa dell’esperienza letteraria. La camera oscura, l’idraulica, la digestione, lo scoppio, il fuoco, la montagna, la conchiglia sono immagini che ci aiutano a comprendere il rapporto forte tra una pagina letteraria e la nostra vita. Esso sempre e comunque rientra in quello che si potrebbe definire un «esercizio spirituale». E una spiritualità priva di immaginazione è come un cembalo che tintinna.
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“THE FLESH IS SAD, ALAS! AND I HAVE READ ALL THE BOOKS”. Seven images of literary experience
The relationship between life and literature has always been uneasy and complex. One could write a veritable history of this relationship, which has been both affirmed and denied, and desired and rejected. Stéphane Mallarmé related the sadness of the flesh to the vanity of reading every book. However, this relationship is only true if we consider the poetic word to be synonymous with vanity, and illusion. The article provides seven images that give a different reading of the literary experience: the camera obscura, hydraulics, digestion, an explosion, fire, the mountain, the shell. We then discover that the relationship between life and literature is part of what could be called a “spiritual exercise”. In addition, spirituality without imagination is like a tinkling cymbal.
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[1]. Cfr A. Spadaro, Creature di caldo sangue e nervi. La scrittura di Raymond Carver, Milano, Ares, 2020.
[2]. And did you get what / you wanted from this life, even so? / I did. / And what did you want? / To call myself beloved, to feel myself / beloved on the earth.
[3]. J. Cocteau – J. Maritain, Dialogo sulla fede, Firenze, Passigli, 1988, 56.
[4]. Cfr A. Spadaro, Lontano dentro se stessi. L’ attesa di salvezza in Pier Vittorio Tondelli, Milano, Jaca Book, 2002.
[5]. M. Proust, Contro Sainte-Beuve, Torino, Einaudi, 1991, 18 s. Addirittura ci sono casi nei quali la lettura può «reintrodurre perpetuamente una coscienza pigra nella sua vita spirituale» (Id., Del piacere di leggere, Scandicci [Fi], Passigli, 1997, 36). L’unico rischio anzi è quello che la lettura, invece di risvegliare alla vita individuale dello spirito, tenda a sostituirsi ad essa.
[6]. Id., Alla ricerca del tempo perduto. I. La strada di Swann, Milano, Mondadori, 1983, 103.
[7]. L’autore della Recherche afferma che in qualche modo i pomeriggi dedicati alla lettura appaiono come «accuratamente ripuliti dai mediocri incidenti della mia esistenza personale che avevo rimpiazzati con una vita di strane avventure e aspirazioni in un paese irrorato d’acque vive!» (ivi, 107). Ecco allora che il romanziere «scatena in noi, nello spazio di un’ora, tutte le possibili gioie e sventure che, nella vita, impiegheremmo anni interi a conoscere in minima parte» (ivi, 104 s).
[8]. Cfr ivi.
[9] . Id., Alla ricerca del tempo perduto. IV. Il tempo ritrovato, cit., 577.
[10]. Cfr ivi, 596.
[11]. Cfr ivi, 577 s.
[12]. D. Pennac, Come un romanzo, Milano, Feltrinelli, 1993, 14.
[13]. Cfr A. Spadaro, «La letteratura nel territorio del diavolo. La poetica di Flannery O’Connor», in Civ. Catt. 2001 IV 36-45.
[14]. Ch. Du Bos, Che cos’è la letteratura? Quattro lezioni americane, Rimini Panozzo, 1996, 13.
[15]. M. de Certeau, Il parlare angelico. Figure per una poetica della lingua (Secoli XVI e XVII), Firenze, Olschki, 1989, 139 s.
[16]. Cfr J.-C. Renard, «Poesia, fede e teologia», in Concilium 12 (1976) 36-61; 45.
[17]. Cfr A. Spadaro, «“Nelle vene d’America”. William Carlos Williams (1883-1963)», in Civ. Catt. 2003 III 221-234.
[18]. A burst of iris so that / come down for / breakfast / we searched through the / rooms for / that / sweetest odor and at / first could not / find its / source then a / blue as / of the sea / struck / startling us from among / those trumpeting / petals.
[19]. Cfr A. Spadaro, «“Scoprire senza selci l’altro fuoco”. La poesia di Bartolo Cattafi», in Civ. Catt. 2002 I 245-258.
[20]. Cfr Id., «“Vive in fondo alle cose la freschezza più cara”. La poesia di Gerard M. Hopkins», in Civ. Catt. 2006 IV 234-247.
[21]. Cfr Id., «Il viaggio di un “estremo principiante”. La poesia di Mario Luzi», in Civ. Catt. 2006 IV 554-567.
[22]. Cfr Id., «“Altrove è il canto, altrove è la parola”. L’ispirazione religiosa della poesia di Alda Merini», in Civ. Catt. 2004 IV 119-132.
[23]. Cfr Id., «Kikuo Takano. “Afferrare l’azzurro del mare”», in Civ. Catt. 2010 III 367-380.
[24]. There it was, word for word, / The poem that took the place of a mountain. / He breathed its oxygen, / Even when the book lay turned in the dust of his table. / It reminded him how he had needed / A place to go to in his own direction, / How he had recomposed the pines, / Shifted the rocks and picked his way / among clouds, / For the outlook that would be right, / Where he would be complete in an unexplained completion: / The exact rock where his inexactness / Would discover, at last, the view toward which they had edged, / Where he could lie and, gazing down at the sea, / Recognize his unique and solitary home.
[25]. K. Rahner, «Sacerdote e poeta», in Id., La fede in mezzo al mondo, Alba (Cn), Paoline, 1963, 141. Cfr Id., Sacerdote e poeta, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2014; Id., «Letteratura e cristianesimo», ivi.
[26]. Id., «Sacerdote e poeta», cit., 135.
[27]. Ivi, 134.
[28]. Ivi.
[29]. Ivi.
[30]. Ivi.
[31]. Cfr ivi, 144.
[32]. Ivi.