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La tentazione del trionfalismo – il cristianesimo senza croce – e della sua forma più subdola – la mondanità spirituale – è difficile da discernere. Se c’è un tema, nel magistero di Bergoglio-Francesco, che ricorre con particolare frequenza, è proprio questo[1]. Nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium, pronunciando il «no alla mondanità spirituale», Francesco lo ha messo nero su bianco. L’alternativa è tra una Chiesa in movimento di uscita per evangelizzare il mondo e una Chiesa invasa dalla mondanità spirituale: «È una tremenda corruzione con apparenza di bene. Bisogna evitarla mettendo la Chiesa in movimento di uscita da sé, di missione centrata in Gesù Cristo, di impegno verso i poveri. Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali! Questa mondanità asfissiante si sana assaporando l’aria pura dello Spirito Santo, che ci libera dal rimanere centrati in noi stessi, nascosti in un’apparenza religiosa vuota di Dio» (EG 97).
Già nel 1984 Bergoglio affermava: «L’atteggiamento trionfalista non sempre è aperto. La maggior parte delle volte esso appare sub angelo lucis nella scelta dei nostri metodi pastorali, ma si può sempre ricondurre all’invito a scendere dalla croce»[2]. Henri de Lubac aveva definito profeticamente il trionfalismo, anche nella forma sottile che assume in quanto «mondanità spirituale», come il peggior danno che la Chiesa possa subire: «A me sempre, sempre colpisce quando leggo le ultime pagine del libro del padre de Lubac: Meditazione sulla Chiesa[3], le ultime tre pagine, dove parla proprio della mondanità spirituale. E dice che è il peggiore dei mali che può accadere alla Chiesa; e non esagera, perché poi dice alcuni mali che sono terribili, e questo è il peggiore: la mondanità spirituale, perché è un’ermeneutica di vita, è un modo di vivere; anche un modo di vivere il cristianesimo»[4].
I concetti che caratterizzano questa tentazione – il trionfalismo e la mondanità – non devono indurre a pensare che si tratti di questioni superficiali. Il Papa ricorda che la mondanità odia la fede, ci ruba il Vangelo, uccide coloro che si oppongono ad essa con decisione, i nostri martiri[5], così come ha ucciso il Signore, e seduce quanti sono disposti ad accettarla sotto qualsiasi forma, respingendo la croce. «È curioso: [del]la mondanità, qualcuno può dirmi: “Ma padre, questa è una superficialità di vita…”. Non inganniamoci! La mondanità non è per niente superficiale! Ha delle radici profonde, delle radici profonde. È camaleontica, cambia, va e viene a seconda delle circostanze, ma la sostanza è la stessa: una proposta di vita che entra dappertutto, anche nella Chiesa. La mondanità, l’ermeneutica mondana, il maquillage, tutto si trucca per essere così»[6].
Una tentazione difficile da discernere
Poiché il Papa afferma che si tratta di una tentazione che tocca addirittura il nostro modo di vivere e di interpretare la realtà, e che è difficile da discernere, la questione va affrontata in tutta serietà. La difficoltà non sta nel comprendere l’«idea» del trionfalismo con uno sguardo sociologico o psicologico, ma piuttosto nel fare un «discernimento evangelico» (EG 50) concreto in ogni caso, grazie al quale ciascuna persona o la Chiesa intera senta, interpreti e scelga ciò che la conduce a uscire per evangelizzare e respinga ciò che la porta a chiudersi in se stessa e che la vuole invadere. Bisogna discernere in ogni circostanza i comportamenti, le situazioni e le strutture in cui la mondanità si cela e si dissimula. L’Evangelii gaudium rimarca con chiarezza che la neutralità non esiste: se non diamo gloria a Dio, ce la daremo tra di noi (cfr EG 93); se la nostra predica non s’incultura, diventa astratta, gnostica; se non siamo pastori che pascolano le loro pecore, diventiamo mercenari neopelagiani che controllano (cfr EG 94); se non prendiamo su di noi le umiliazioni della nostra croce, tra di noi cominciano le guerre interne (cfr EG 98). Perciò riteniamo che questo non sia solo un tema importante, ma una questione di vita o di morte. E per combattere bene è necessario scoprire il «dinamismo» di tale tentazione trionfalistica, in modo da collegare i suoi frutti cattivi con la radice che li alimenta.
Credere di avere in mano la verità: «hybris»
Entriamo in argomento facendoci aiutare da una di quelle espressioni originali che sono tipiche di Francesco. Qualche tempo fa, parlando del trionfalismo in un incontro privato, il Papa ha adoperato un’espressione che aveva già usato, quando era cardinale, nei suoi dialoghi con il rabbino Abraham Skorka. Il trionfalismo, ha detto, entra cuando uno se cree que tiene la precisa,«ci entra dentro quando crediamo di avere in mano la verità»[7]. Vale a dire, quando riteniamo di non avere bisogno di impegnarci nel lavoro esigente che comporta compiere un processo di discernimento, o farci carico dei compiti pastorali al servizio del popolo di Dio, che al suo pastore chiede presenza e concretezza.
Abbiamo tradotto l’espressione tener la precisa, un modo di dire tipico argentino, con «avere in mano la verità». Di solito, quel modo di dire descrive la mentalità di chi è colpito dalla cosiddetta «sindrome della hybris», la sindrome dell’individuo arrogante, ossia di chi crede di saperla lunga e si sente superiore e impunibile. Hybris in greco (in latino superbia) indica la presunzione, l’eccesso e la smisuratezza di chi supera i limiti segnati dalla giustizia.
Non si tratta di un fenomeno soltanto religioso, tutt’altro[8]. La sua logica è presente in ogni tappa e in ogni ambito della vita. Basti pensare a quanto in fretta apprendiamo, da bambini, a esultare, come fosse una gloriosa vittoria, per qualche successo sportivo di cui vediamo gioire gli adulti. Questa logica si converte in un vero paradigma: il paradigma tecnocratico che oggi è omogeneo e unidimensionale e riduce la realtà al fine di dominare totalmente (avere successo) in alcune aree di interesse per i potenti. La (falsa) idea della crescita infinita e della «disponibilità infinita dei beni del Pianeta, che conduce a spremerlo fino al limite e oltre il limite» (Laudato si’ [LS], n. 106) affascina economisti, politici e tecnologi.
La hybris è l’eccesso in cui cade il superbo quando gode nell’umiliare l’altro più debole. La logica collega la hybris a un qualche concreto superamento dei limiti, che scatena la successiva nemesi o vendetta degli dèi contro l’essere umano che non è rimasto al suo posto nell’universo. Chi è dominato dalla hybris si nutre di trionfi, li considera «prede». È significativo che in greco l’azione dello stupro si dica hybrizein. Sotto gli orribili abusi compiuti nella Chiesa c’è il peccato della hybris, l’arroganza smisurata che viene dissimulata molto bene e che tuttavia si può percepire in alcune sue manifestazioni, a volte in apparenza superficiali[9]. Oggi il Papa è preoccupato per il nesso che si è constatato di recente nella Chiesa tra il manifesto trionfalismo di alcuni nuovi movimenti e personaggi e gli abusi occulti che al contempo avvenivano tra di loro[10].
Il contesto: l’epoca delle «Lettere della tribolazione»
È importante ricordare in quale contesto Bergoglio abbia trattato in maniera organica il tema del «trionfalismo». Lo ha fatto nel periodo di tribolazione che trascorse a Córdoba, tra il giugno 1990 e il maggio 1992. Nel dicembre 1990 egli scrisse una serie di appunti, poi pubblicati con il titolo «Silencio y Palabra»[11], concepiti – come spiega nella nota introduttiva – per aiutare nel discernimento «una comunità religiosa che attraversava momenti difficili»[12]. In altre parole, il carattere dello scritto è chiaramente pastorale, rivolto a una determinata comunità che si trova in una situazione concreta.
Austen Ivereigh – senza dubbio il migliore biografo del Papa – trova «doppiamente affascinante» questo testo scritto in momenti di tribolazione: «La comunità in questione era naturalmente quella della provincia gesuita dell’Argentina, e ciò che rende il discernimento doppiamente affascinante è il fatto che le forze spirituali che [Bergoglio] vedeva all’opera nella sua crisi erano le stesse che papa Francesco avrebbe poi cercato di combattere all’interno della Chiesa nel suo complesso»[13].
È stato questo a indurre La Civiltà Cattolica, con il consenso del Papa, a rieditare le Lettere della tribolazione e a commentarle. L’atteggiamento paradigmatico di una «grande persecuzione», come quella in cui si collocano tali Lettere, «provvede una cornice spirituale per affrontarne qualsiasi altra. Segue lo spirito della Lettera di Pietro di “non meravigliarsi dell’incendio” che si scatena (1 Pt 4,12) quando c’è una persecuzione»[14].
Il metodo e le radici del trionfalismo
Si tratta di un testo che cerca «il conforto della fede comune» in un periodo di tribolazione. A Bergoglio si era imposto spontaneamente il silenzio sulla pesante situazione che stava vivendo e, quando si decide a parlare per aiutare altri, poiché non è possibile «esplicitare una visione d’insieme» del conflitto, «cerca e trova» nella Scrittura, negli Esercizi e nelle Lettere della tribolazione il «metodo per leggere la storia»[15].
Possiamo dire che il modo di leggere la storia adottato da Bergoglio è propriamente contemplativo nell’azione. Si tratta di un metodo che prevede passaggi pratici, e non soltanto teorici, per far sì che «salti fuori» il cattivo spirito del trionfalismo. Bergoglio sceglie un periodo di silenzio, si annulla e non discute, accusa se stesso prima che gli altri. Sono modi per dare spazio alla luce di Dio. Infine, non interrompe il silenzio per elaborare un discorso astratto, ma per fare un discernimento evangelico di una situazione reale[16]. A questa situazione così complessa tutt’al più si possono aggiungere soltanto «didascalie e precisazioni», laddove si colgano segnali da cui affiora la tentazione di costruire un progetto proprio al posto del progetto di Dio.
In «Silenzio e parola» Bergoglio descrive atteggiamenti e cerca collegamenti tra le varie tentazioni opposte al disegno di Dio e che sono più caratteristiche di un momento di tribolazione. In quella specifica situazione ne apparivano varie. Tra le altre, la divisione in fazioni interne: «L’attivista delle “fazioni” è […] uno che “va oltre” la comunità, con il suo progetto personale: è il proagón (2 Gv 1,9)»[17]. Un’altra tentazione è l’ambizione truccata da pietà: «Si cerca la propria promozione, ma in maniera subdola […], avendo scelto in precedenza il proprio cammino: “Io ti servo, ma a modo mio”»[18]. Altra è la mancanza di povertà della festicciola invece della festa, per cui la «festa del Signore», che ha sempre una dimensione escatologica, viene ridotta a festicciola.
Un’altra tentazione è l’attaccamento alla penombra e alla diffidenza: il diffidente «possiede una fiducia in se stesso che sconfina nella megalomania, cresciuta per i molti o pochi successi che la sua condotta gli ha procurato»[19]. Poi c’è la trattativa: «La semplice trattativa umana è sempre, nella Compagnia, primo o secondo binario. […] Se si rinuncia [a una trattativa malcondotta] sarà il segno che si cerca il bene di tutti sopra quello di una parte»[20]. Infine, il trionfalismo e la sua espressione più subdola, la mondanità spirituale, che sfociano sempre in qualche livore contro chi è giusto[21]. La forza che notiamo nelle descrizioni di Bergoglio sta nel fatto che egli non prende in considerazione «idee», ma situazioni reali.
D’altra parte, Bergoglio approfondisce le tentazioni fino a scorgere la radice comune a tutte: la croce respinta e la coltivazione di sé invece che della maggior gloria di Dio. Poi cerca i rimedi concreti e personalissimi, atti a scoprire, affrontare e respingere tale tentazione, additando anche «chi sono i veri protagonisti» di questa guerra: Dio e Satana.
Il trionfalismo sembrava una tentazione qualsiasi, ma, poiché sta alla radice di tutte le tentazioni contro la croce di Cristo e la gloria del Padre[22], qui viene smascherato come la principale opposizione al disegno di Dio. Parlando dei gesuiti nel 1985, Bergoglio esprimeva una considerazione valida per tutti: «Se, come dicevamo, il nucleo dell’identità gesuita si trova – è sant’Ignazio a dirlo – nell’adesione alla croce (tramite la povertà e le umiliazioni), la croce come vero trionfo, il peccato fondamentale del gesuita sarà proprio la caricatura del trionfo della croce: il trionfalismo come anima di tutte le sue azioni; il “mito del successo”, la ricerca di se stesso, delle proprie cose, del proprio parere, la preferenza di persone, il potere»[23].
Timbro mariano: i rimedi contro il trinfalismo
Segnaliamo che, quando arriva il momento di cercare un rimedio e un aiuto per combattere bene contro il maligno, la santissima Vergine svolge un ruolo decisivo nella spiritualità di Bergoglio-Francesco, che ha un timbro nettamente mariano: «Maria compare nella riflessione quando Bergoglio evoca l’Incarnazione, la contraddizione, la croce. La Madre è simbolo di carne, di cuore, di tenerezza»[24].
In «Silenzio e parola» Bergoglio dispone le sue riflessioni attorno a sei immagini forti della Madonna: Maria in silenzio che medita ogni cosa nel proprio cuore; Maria che «scioglie i nodi» che ci siamo creati; Maria che protegge i suoi figli sotto il proprio mantello; Maria che, con fatica del cuore, resiste al male e canta il Magnificat nella casa di Elisabetta; Maria che prega nel Cenacolo con attorno, «pigiati come sardine», gli apostoli, in attesa del Signore. L’immagine più forte – l’ultima – è quella della Madonna ai piedi della croce: «Il trionfalismo è stato distrutto nel cuore affaticato di nostra Signora ai piedi della croce»[25].
L’antidoto al trionfalismo consiste in quella peculiare fatica del cuore di cui san Giovanni Paolo II ha fatto notare l’esistenza nella Madonna, e che Bergoglio riprende sempre come segno di fede: «Di fronte agli avvenimenti duri e dolorosi della vita, rispondere con la fede costa “una particolare fatica del cuore”[26]. È la notte della fede. […] Maria sul Golgota si trova di fronte alla smentita totale di quella promessa: suo Figlio agonizza su una croce come un malfattore. Così il trionfalismo, distrutto dall’umiliazione di Gesù, è stato ugualmente distrutto nel cuore della Madre; entrambi hanno saputo tacere»[27].
La fatica del cuore di Maria è inserita nella storia di una folta schiera di testimoni che sono vissuti e che vivono tra le file del popolo fedele di Dio. I popoli discernono e manifestano ciò che sono non soltanto con le azioni, ma anche con il patimento: con la loro resistenza al male, passiva nel senso che è non violenta, ma attiva in una fede che agisce attraverso la carità. Bergoglio riprende questa dottrina da sant’Agostino, secondo il quale «la misura della salute e dell’ortodossia cristiana non sta tanto nel modo di agire, quanto nel modo di resistere»[28]. E spiega alcuni segni di resistenza, che definisce «segni cristiani»: «La lotta dei poveri, degli umili, dei bambini, […] che si esprime tramite gesti e atteggiamenti da bambino, come per esempio la ricettività, la capacità di ascoltare, il camminare… [Questa resistenza] accantona ogni tipo di trionfalismo»[29].
Il popolo fedele ha coscienza del vero nemico e sa trovare rifugio nella Vergine Madre. «Sul soffitto della Cappella domestica della residenza della Compagnia a Córdoba – dove pregava Bergoglio – è dipinta un’immagine. I fratelli novizi sono raffigurati sotto il mantello di Maria, ben protetti; e sotto c’è scritto: Monstra te esse matrem (“Mostra di essere madre”). Nei momenti di turbolenza spirituale, quando Dio vuole fare guerra, il nostro posto è sotto il mantello della santa Madre di Dio»[30]. Là il diavolo non ha accesso. Se andiamo a rifugiarci sotto il manto della Madonna, nei momenti in cui la battaglia manifesta una ferocia smisurata, è perché ci siamo resi conto della vera dimensione della guerra: non si tratta di una guerra nostra, ma di Dio, il vero protagonista contro il quale combatte il demonio[31].
Imparare a leggere la storia nella prospettiva della fede e a viverla con coerenza affatica il cuore, ma non dimentichiamo che corde intelligitur. Discernere la volontà di Dio tra le ambiguità della vita affatica il cuore, ma, siccome è una fatica buona, rende il discernimento più lucido e solido, per quanto a volte l’ambiguità si addensi e le decisioni da prendere siano crocifiggenti. La fatica del cuore della Madonna è il luogo per eccellenza dal quale resiste il popolo fedele di Dio. Anche il pastore si definisce per la sua capacità di resistere al male, accanto al suo popolo. Perciò agli occhi di Dio la nostra stanchezza è magnifica. La nostra fatica per il peso del lavoro pastorale è preziosa agli occhi di Gesù[32].
In definitiva, alla hybris del trionfalismo Bergoglio contrappone la fatica del lavoro, che comporta scoprire man mano la volontà di Dio e realizzarla nella nostra vita. Fare un passo avanti nella fede, resistere al male, interpretare bene i segni dei tempi, leggere la storia nella prospettiva della fede, come Maria, affatica il cuore, perché richiede lavoro e discernimento.
Tre atteggiamenti che minacciano la fatica del cuore
Francesco segnala alcuni atteggiamenti che rivelano mondanità e trionfalismo. Uno di essi riguarda il tempo e la festa. Il trionfalista si nota perché «festeggia anzitempo»: «La fatica del cuore è minacciata dalla mancanza di speranza, dal gesto onnipotente di anticipare il trionfo utilizzando altre vie più rapide, attraverso la scorciatoia della trattativa, di anticipare il trionfo senza passare per la croce»[33].
«Festeggiare ogni passo avanti nell’evangelizzazione» (EG 24) è cosa buona. Ma la festa che anticipa il trionfo è l’Eucaristia, non una festa qualsiasi. Un’Eucaristia che è, oltre che consolazione e premio, viatico per il cammino della Chiesa in uscita. La festa eucaristica è inclusiva, non come la festicciola trionfalistica, che è elitaria. Ed è festa con pane condiviso e lavanda dei piedi, vale a dire il gesto profetico che racchiude ed espande apostolicamente il pontificato di Francesco.
Quella di festeggiare anzitempo è una consuetudine che crea dipendenza e a poco a poco si trasforma in un modo di leggere e di vivere la storia. La festicciola depotenzia la tensione feconda della speranza[34], che ci fa «mantenere le posizioni», resistendo al male, e ci conduce a prepararci per uscire di nuovo in battaglia, sempre per la maggior gloria di Dio.
Questo modo di vivere il tempo privilegiando il momento insidia la speranza e si riflette nel linguaggio. Parlando in generale, il trionfalismo ha la propria narrazione o, più precisamente, coincide con la propria narrazione, per lo più. Questa narrazione è una caricatura della storia della salvezza, perché «si nutre di successi parziali e di parole capaci di spiegarli: come nella storia di Dio con azioni e con parole, ma con la differenza che esse non sono passate attraverso il crogiolo della croce né attraverso la visione della fede»[35].
Altro atteggiamento: i trionfalisti «sono anche fondamentalmente statistici»[36], amano le statistiche. Ma le usano perché hanno bisogno di confrontare i loro successi con gli altri e, per farlo, scelgono sempre chi, secondo loro, è peggiore di loro. Il prototipo è il fariseo che prega in piedi e sente il bisogno di mettersi a confronto con il pubblicano, che egli disprezza. Bergoglio conclude dicendo che il trionfalista mangia carogne, è come una iena. Questo carattere comparativo fa smarrire la tensione feconda verso l’essere perfetti (nella misericordia), come lo è il Padre.
Se osserviamo la Madonna, noteremo come il trionfo che si compie ai piedi della croce sia stato presente fin dall’inizio del suo cammino di fede. Non appena ricevuto il lieto annuncio, Maria si mette in cammino, si mette al servizio. Non si è fermata a «elaborare una narrazione dell’accaduto», ma è andata meditando le cose nel proprio cuore, e possiamo cogliere la fatica che ci è voluta per compiere quel frettoloso viaggio ad Ain Karim (cfr Lc 1,39). È proprio a causa di quella fatica del cuore che risuona, limpido e libero da ogni ambizione, l’inno più bello di lode a Dio: il Magnificat, alla luce del quale leggiamo e interpretiamo la storia.
«L’astrazione, per me, è sempre un problema»
Fermiamoci un momento a riflettere sul linguaggio astratto della mondanità spirituale. C’è un errore, un difetto di metodo, nel mettersi a pensare e a strumentalizzare le verità rivelate da Gesù Cristo, il Verbo fatto carne, soltanto per mezzo di parole astratte e di discorsi razionali. Usare l’astrazione e il discorso razionale è proprio della teologia in quanto scienza, ma il trionfalismo pretende che le conclusioni di una determinata teologia coincidano con la verità rivelata in maniera escludente e che vadano imposte a tutti. Non è questo il cammino che Gesù, il Verbo incarnato, ha scelto per rivelarsi.
Bergoglio, nella breve esposizione che rivolse ai cardinali nelle Congregazioni generali tenutesi nei giorni precedenti il conclave, si espresse in questi termini per evidenziare quale «immagine di Chiesa» andasse evitata in futuro: «Quando la Chiesa è autoreferenziale, senza accorgersene crede di avere luce propria. Cessa di essere il mysterium lunae e dà luogo al male gravissimo della mondanità spirituale: vivere per darsi gloria gli uni con gli altri. Semplificando, ci sono due immagini di Chiesa: o la Chiesa evangelizzatrice che esce da sé, quella Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans, o la Chiesa mondana che vive in sé, di sé, per sé. Questo deve illuminare i possibili cambiamenti e le riforme che andranno fatte per la salvezza delle anime»[37].
Secondo il Papa, questo è un tempo di ideologie, che vanno smascherate non dibattendo con esse, ma andando alle radici e mostrando perché sono ideologie a partire dai loro frutti. Nel recente incontro avuto nel corso del viaggio apostolico in Slovacchia, Francesco ha detto ai gesuiti che lavorano in quel Paese: «Quando parlo dell’ideologia, parlo dell’idea, dell’astrazione per cui tutto è possibile, non della vita concreta delle persone e della loro situazione reale»[38]. Un’affermazione spontanea di Francesco in quel contesto – «L’astrazione per me è sempre un problema» – è molto suggestiva, perché chiarisce molte cose sul suo modo di pensare.
Il Papa ha fatto riferimento a questa tentazione nell’apertura del Sinodo: «Un secondo rischio è quello dell’intellettualismo – l’astrazione, la realtà va lì e noi con le nostre riflessioni andiamo da un’altra parte –: far diventare il Sinodo una specie di gruppo di studio, con interventi colti ma astratti sui problemi della Chiesa e sui mali del mondo; una sorta di “parlarci addosso”, dove si procede in modo superficiale e mondano, finendo per ricadere nelle solite sterili classificazioni ideologiche e partitiche e staccandosi dalla realtà del Popolo santo di Dio, dalla vita concreta delle comunità sparse per il mondo»[39].
Francesco è convinto che pensare e riflettere comportino che ci si faccia coinvolgere in un processo di discernimento di situazioni concrete, e non che si debbano elaborare teorie astratte, e tantomeno discuterne. La sua allergia all’astrazione dice molto, inoltre, sulla sua maniera di comunicare narrativamente piuttosto che per definizioni; e sul suo modo di esercitare il suo ministero di guida, restando sempre nel ruolo del pastore, anche rispetto a chi lo critica e non obbedisce, senza cadere nella politica.
«Sii pastore!»
Se a livello intellettuale il trionfalismo diventa ideologico – ogni ideologia è di per sé trionfalistica –, a livello pratico, del governo, esso scade nella politica e nei funzionalismi. Lo illustra bene ciò che Francesco ha detto nel volo di ritorno dal viaggio apostolico a Budapest e in Slovacchia[40]. A una domanda del giornalista irlandese Gerard O’Connell su che cosa «consiglia ai vescovi» americani riguardo al tema scottante del dare o negare la comunione al presidente Biden, Francesco ha dato una risposta magistrale; ha esposto ciò che direbbe a un vescovo che avesse dubbi «teorici»: «Sii pastore, il pastore sa cosa deve fare in ogni momento, ma come pastore. Ma se esce da questa pastoralità della Chiesa, immediatamente diventa un politico. Questo lo vedrete in tutte le denunce, in tutte le condanne “non pastorali” che fa la Chiesa. Con questo principio credo che un pastore può muoversi bene. I principi sono della teologia. La pastorale è la teologia e lo Spirito Santo che ti va conducendo a farlo con lo stile di Dio».
Ed ecco il centro della risposta sul dare o negare la comunione: «Ma il problema non è teologico, che è semplice, il problema è pastorale [Francesco accompagna la frase con un gesto della mano, come a toccare il problema], come noi vescovi gestiamo pastoralmente questo principio. E se noi vediamo la storia della Chiesa, vedremo che ogni volta che i vescovi hanno gestito non come pastori un problema si sono schierati sulla vita politica, sul problema politico. […] Quando la Chiesa per difendere un principio lo fa non pastoralmente, si schiera su un piano politico. E questo è sempre stato così, basta guardare la storia. E cosa deve fare il pastore? Essere pastore. Essere pastore e non andare condannando: essere pastore. Ma anche il pastore degli scomunicati? Sì, è pastore e dev’essere pastore con lui, essere pastore con lo stile di Dio. E lo stile di Dio è vicinanza, compassione e tenerezza. […] Un pastore che non sa gestire con lo stile di Dio, scivola e si mette in tante cose che non sono da pastore».
Il segreto di Francesco sta nel fatto che non si sottrae mai al suo essere pastore; resta tale anche davanti a chi lo vorrebbe trascinare sul terreno delle questioni politiche o della teologia astratta o della morale casistica. La «svolta» di Francesco consiste nel porre la Chiesa, di continuo, in uscita. Senza che sia necessario affermare alcunché, il mero fatto di «dover tornare a uscire» elimina alla radice qualsiasi trionfalismo, che invece poggia sulla convinzione «che si è arrivati». Qui risuonano echi delle volte in cui Gesù si avvia verso «altre sue pecore»: «Anche quelle devo guidare […]. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,1-18). Gli fa eco Paolo: «Dimenticando ciò che mi sta alle spalle […] corro verso la meta» (Fil 3,13-14).
Per la Chiesa tornare a uscire è «sinodale», e questo farà sì che la fatica del cuore sia condivisa da tutti. Come ha detto Francesco inaugurando il Sinodo, «lo Spirito ci guiderà e ci darà la grazia di andare avanti insieme, di ascoltarci reciprocamente e di avviare un discernimento nel nostro tempo, diventando solidali con le fatiche e i desideri dell’umanità»[41].
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[1]. All’inizio del suo pontificato, Francesco ha affermato: «Il trionfalismo che appartiene ai cristiani è quello che passa attraverso il fallimento umano, il fallimento della croce. Lasciarsi tentare da altri trionfalismi, da trionfalismi mondani, significa cedere alla tentazione di concepire un “cristianesimo senza croce”, un “cristianesimo a metà”» (Francesco, Omelia a Santa Marta, 29 maggio 2013).
[2]. J. M. Bergoglio, «La cruz y la misión», in Boletín de espiritualidad, n. 89, settembre-ottobre 1984. Ora in Id., Cambiamo!, Milano, Solferino, 2020, 232.
[3]. Cfr H. de Lubac, Meditazione sulla Chiesa, Milano, Paoline, 1955.
[4]. Francesco, Omelia a Santa Marta, 16 maggio 2020.
[5]. Atteggiamenti di superbia e di disprezzo mondano da parte dei martirizzatori sono abitualmente presenti nel martirio di coloro che sono coerenti con la fede.
[6]. Francesco, Omelia a Santa Marta, cit.
[7]. «A volte si crede di avere in mano la verità, ma non è così. […] All’uomo dico di non conoscere Dio per sentito dire. Il Dio vivo è quello che vedrà con i propri occhi all’interno del proprio cuore» (J. M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra. Il pensiero di Papa Francesco sulla famiglia, la fede e la missione della Chiesa nel XXI secolo, Milano, Mondadori, 2013, 15).
[8] . È interessante osservare che nella mitologia i castighi connessi alla hybris sono molti e svariati, e tutti relativi al credersi superiori. Il filosofo epicureo Lucrezio interpreta il mito di Sisifo come la personificazione dei politici che aspirano a un ufficio pubblico, ma ne vengono costantemente sconfitti. La ricerca del potere, di per sé una «cosa vuota», viene paragonata al rotolare del macigno dalla collina. Tantalo, per il furto dell’ambrosia, fu condannato ad avere per sempre una fame e una sete implacabili. Icaro pecca di hybris, perché vuole raggiungere il sole. La radice mimetica del trionfalismo è spirituale, sicché questa passione può assumere tante forme, a seconda di ciò che fa sentire trionfante ogni singolo individuo. È questa realtà ingannevole, e a volte nascosta, che si annida in quanti sono posseduti da tale vizio.
[9] . Come dice il proverbio, «Dio castiga la superbia occulta con lussuria manifesta».
[10]. «Lo Spirito Santo indubbiamente soffia dove vuole e quando vuole. […] Tuttavia, personalmente mi impressiona il fatto che questo fenomeno, a volte, sia accompagnato da un certo trionfalismo. E il trionfalismo, in verità, non mi convince. Diffido di queste manifestazioni di fecondità quasi “in vitro” o di queste manifestazioni o messaggi trionfalistici secondo i quali la salvezza è qui o lì» (Francesco, La forza della vocazione. Conversazione con Fernando Prado, Bologna, EDB, 2018, 44).
[11]. Titolo che si ispira a Romano Guardini, che parla della tensione polare tra silenzio e parola, lontana dagli estremi del mutismo e del frastuono (cfr R. Guardini, Etica, Brescia, Morcelliana, 2021).
[12]. J. M. Bergoglio, «Silencio y Palabra», in Reflexiones espirituales, Buenos Aires, USAL, 1992, 19. Ora in Francesco, «Silenzio e parola», in Id., Non fatevi rubare la speranza, Milano, Mondadori, 2013, 85.
[13]. A. Ivereigh, Tempo di misericordia. Vita di Jorge Mario Bergoglio, Milano, Mondadori, 2014, 241.
[14]. D. Fares, «Contro lo spirito di “accanimento”», in J. M. Bergoglio-Francesco, Lettere della tribolazione, Milano, Àncora, 2019, 71.
[15]. Cfr J. M. Bergoglio, «Silenzio e parola», cit., 98.
[16]. L’elemento chiave del suo discernimento è che il trionfalismo è una tentazione che ha l’apparenza del bene. Siccome possiede una chiarezza che s’impone (quantomeno nel momento culminante della sua narrazione), a noi è richiesto non di opporvi ancora più luce (cioè di ribattere a una formula trionfalistica con altre idee), ma di prendere tempo. Poiché il suo è il chiarore di un flash, e non la luce mite di Dio, bisogna aspettare che scompaia il lampo abbagliante.
[17]. J. M. Bergoglio, «Silenzio e parola», cit., 90.
[18]. Ivi, 91.
[19]. Ivi, 94.
[20]. Ivi, 97.
[21]. «Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi e gli anziani, facendosi beffe di lui dicevano: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui”» (Mt 27,41-42).
[22]. In Dante, per esempio, si connettono il peccato originale e il voler essere come Dio di Adamo ed Eva. Appropriarsi di ciò che non è proprio è hybris.
[23]. J. M. Bergoglio, Discorso pronunciato nella chiesa della Compagnia di Gesù a Mendoza, il 23 agosto 1985, nel contesto della commemorazione del IV centenario dell’arrivo dei gesuiti in quelle terre. Ora in Id., Cambiamo!, cit., 267.
[24]. A. Awi Mello, María – Iglesia. Madre del pueblo misionero, Dayton, Marian Library, 2017, 213.
[25]. J. M. Bergoglio, «Silenzio e parola», cit., 100.
[26]. Giovanni Paolo II, s., Enciclica Redemptoris Mater, n. 17.
[27]. Francesco, Omelia nella domenica delle Palme, 14 aprile 2019.
[28]. Cfr J. M. Bergoglio, «Servicio de la fe y promoción de la justicia. Algunas reflexiones acerca del decreto IV de la CG 32», in Stromata, nn. 1/2, 1988, 7-22. La frase di sant’Agostino citata è in De pastoribus, Discorso 46, 13.
[29]. Ivi, 20.
[30]. Ivi, 106.
[31]. Cfr ivi, 106 s. Lucifero nella Bibbia si caratterizza per la hybris di «salire più in alto dell’Altissimo» e cadere rapidamente. «Il drago combatteva insieme ai suoi angeli, ma non prevalse […], fu precipitato sulla terra» (Ap 12,7-9). Il Signore afferma nel Vangelo di Luca: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore» (Lc 10,18). L’origine di tutti i peccati è la superbia. I santi Padri e i teologi applicano tipologicamente al peccato del diavolo la frase che Israele pronuncia nella sua ribellione a Dio: «Non voglio essere serva!» (Ger 2,20).
[32]. Cfr Francesco, Omelia nella Messa del Giovedì Santo, 2 aprile 2015.
[33]. Francesco, «Silenzio e parola», cit., 99.
[34]. «Quando scegliamo la speranza di Gesù, a poco a poco scopriamo che il modo di vivere vincente è quello del seme, quello dell’amore umile. Non c’è altra via per vincere il male e dare speranza al mondo» (Francesco, Udienza generale, 12 aprile 2017).
[35]. Francesco, «Silenzio e parola», cit., 99.
[36]. Ivi, 100.
[37]. Il testo completo del manoscritto consegnato da Bergoglio al cardinale Jaime Ortega, vescovo dell’Avana (Cuba), è apparso su Clarín del 26 marzo 2013 (www.clarin.com/mundo/texto-manuscrito-entregado-bergoglio-ortega_0_By2WJpYsP7e.html). Al cardinale Ortega, che glielo aveva chiesto, Bergoglio diede un testo manoscritto con i quattro punti del suo breve discorso ai cardinali. Nel terzo punto egli sottolinea – concretamente – proprio l’espressione «mondanità spirituale» e cita Henri de Lubac.
[38]. Francesco, «La libertà ci fa paura», in Civ. Catt. 2021 IV 14.
[39]. Id., Discorso nel momento di riflessione per l’inizio del percorso sinodale, 9 ottobre 2021.
[40]. Cfr Id., Conferenza stampa durante il volo di ritorno da Bratislava, 15 settembre 2021.
[41]. Id., Discorso nel momento di riflessione per l’inizio del percorso sinodale, cit.
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AGAINST TRIUMPHALISM AND SPIRITUAL WORLDLINESS
The temptation of triumphalism – Christianity without a cross – and of its more insidious form – spiritual worldliness – is a recurring theme in the teaching of Bergoglio-Francis. For the Pope, it is necessary to discern in every situation the behaviour in which worldliness is hidden and concealed. Francis indicates some of them: division into internal factions; ambition disguised as piety; and, attachment to the shadows and distrust. The root common to all of these is the rejected cross and the cultivation of self instead of the greater glory of God. The antidote to triumphalism, therefore, is that peculiar fatigue of the heart of which Mary gives us an example under the cross of her Son. Thus, triumphalism, which was destroyed by Jesus’ humiliation, was equally destroyed in his Mother’s heart.