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Nella Chiesa cattolica la liturgia continua a destare vivo interesse. Se n’è parlato per decenni a proposito dell’interpretazione e conseguente traduzione dei testi; se n’è parlato prima e dopo la pubblicazione della terza edizione vernacola del Messale Romano; ora papa Francesco, con il motuproprio Traditionis custodes («Custodi della tradizione»)[1], torna a parlarne, peraltro su un tema quanto mai sensibile. Per comprendere il nuovo provvedimento è bene dare uno sguardo alla storia recente del Messale Romano in merito a concessioni pontificie ormai revocate. È Francesco stesso a guidarci, spiegando con una lettera i motivi che lo hanno spinto a pronunciarsi sull’uso di un libro liturgico che da più di trent’anni è in cerca di pace – in latino si direbbe «quærens pacem» –, una pace di unità e di concordia intraecclesiale. In essa Francesco, ispirandosi al suo Predecessore che già aveva accompagnato la normativa di allora con un’analoga lettera, si rivolge a tutti i vescovi «con fiducia e parresia»[2].
La lettera accompagnatoria al motuproprio «Traditionis custodes»
In questa lunga e articolata lettera papa Francesco assume come punto di partenza per affrontare la situazione cui intende portare rimedio la facoltà, concessa con indulto della Congregazione per il Culto Divino nel 1984[3] e confermata da Giovanni Paolo II nel 1988[4], di poter celebrare la Messa con l’ultima edizione tridentina del Messale Romano pubblicata nel 1962[5]. Tale concessione, riservata a gruppi di fedeli che l’avrebbero richiesta, era motivata dalla volontà di ricomporre lo scisma lefebvriano. È qui che si inserisce il motuproprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007[6], con cui Benedetto XVI aveva inteso regolamentare la prassi di quanti scorgevano in quel Messale una forma particolarmente adatta a favorire l’incontro con il mistero. Ora, per capire il motuproprio di Francesco, è necessario rileggere i dodici articoli del motuproprio di Benedetto XVI, che ripercorriamo brevemente.
Esistono due soli usi del rito romano: la «forma ordinaria» (ordinaria expressio) con il Messale promulgato da Paolo VI nel 1970, e la «forma straordinaria» (extraordinaria expressio) con il Messale promulgato da Pio V nel 1570 e nuovamente edito da Giovanni XXIII nel 1962 (art. 1).
Nelle Messe senza concorso di popolo, ogni sacerdote di rito latino[7] può usare o il Messale del 1962[8] o il Messale del 1970 (art. 2). Con il Messale del 1962 possono celebrare la Messa di comunità tutti gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica (art. 3). A queste celebrazioni possono essere ammessi anche quei fedeli che spontaneamente lo chiedono (art. 4). Nelle parrocchie in cui esiste stabilmente un gruppo di fedeli affezionati alla precedente tradizione liturgica, il parroco è pregato di concedere volentieri ai sacerdoti idonei l’uso del Messale del 1962, però limitatamente a una sola celebrazione nelle domeniche e nelle feste; nessuna limitazione è invece espressa per le celebrazioni nei giorni feriali, come pure nel caso di matrimoni, esequie o pellegrinaggi (art. 5). Inoltre, allorché si usa il Messale del 1962 nelle Messe con concorso di popolo, le letture possono essere fatte nella lingua vernacola, utilizzando i lezionari approvati (art. 6). I fedeli che, pur avendo chiesto al parroco l’uso del Messale del 1962, non lo avranno ottenuto, possono ricorrere al vescovo diocesano, che è vivamente pregato di esaudire il loro desiderio; qualora poi non fosse in grado di esaudirlo, dovrà informarne la Pontificia Commissione Ecclesia Dei e attendere da questa consiglio e aiuto (art. 7-8). In vista del bene delle anime, è lasciata (a) alla discrezione del parroco la possibilità di utilizzare il rituale più antico per il Battesimo, la Penitenza, il Matrimonio e l’Unzione degli infermi;
(b) alla discrezione del vescovo la scelta dell’antico Pontificale Romano per la Confermazione; (c) alla discrezione dei chierici ordinati la possibilità di usare il Breviario Romano del 1962 (art. 9). In vista del bene dei fedeli affezionati al Messale del 1962, il vescovo diocesano potrà erigere una parrocchia personale (art. 10). Infine, la Pontificia Commissione Ecclesia Dei, riconfermata nelle sue funzioni, dovrà vigilare sull’osservanza e l’applicazione di quanto è stato disposto (art. 11-12).
Nella sua lettera accompagnatoria, papa Francesco tiene a precisare che, nel pensiero del Predecessore, quanti con il Messale del 1962 desideravano trovare la forma liturgica a loro cara accettavano il carattere vincolante del Vaticano II, sicché le due forme nell’uso del rito romano, non solo non avrebbero prodotto spaccature, ma si sarebbero arricchite a vicenda. Era dunque con queste convinzioni che Benedetto XVI aveva invitato i vescovi a superare dubbi e timori, con l’assicurazione che, qualora fossero venute alla luce serie difficoltà nell’applicazione della normativa, si sarebbe trovato il modo di rimediare.
Dopo queste premesse, Francesco prosegue ricordando l’incarico, da lui conferito alla Congregazione per la Dottrina della Fede, di avviare una consultazione con tutti i vescovi circa l’applicazione del motuproprio Summorum Pontificum. Questa consultazione, che già Benedetto XVI aveva previsto doversi fare a tre anni dalla sua entrata in vigore[9], fu indetta il 7 marzo 2020, cioè tredici anni dopo. Nel riassumere le risposte dei vescovi al questionario loro inviato[10], papa Francesco riconosce che, purtroppo, l’intento pastorale dei suoi Predecessori «è stato spesso gravemente disatteso», nel senso che «una possibilità offerta da san Giovanni Paolo II e con magnanimità ancora maggiore da Benedetto XVI al fine di ricomporre l’unità del corpo ecclesiale nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche è stata usata per aumentare le distanze, indurire le differenze, costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa e ne frenano il cammino, esponendola al rischio di divisioni».
Nel dare atto dell’esistenza di «abusi di una parte e dell’altra nella celebrazione della liturgia», pure Francesco, «al pari di Benedetto XVI», deplora che «in molti luoghi non si celebra in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso addirittura viene inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale porta spesso a deformazioni al limite del sopportabile». Ciò che più di tutto lo rattrista è «un uso strumentale del Missale Romanum del 1962, sempre più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la “vera Chiesa”». Tuttavia «dubitare del Concilio significa […], in ultima analisi, dubitare dello stesso Spirito Santo che guida la Chiesa». Ora, «proprio il Concilio Vaticano II – soggiunge Francesco – illumina il senso della scelta di rivedere la concessione permessa dai miei Predecessori».
A questo punto vengono evocati i princìpi che hanno guidato la riforma liturgica, al fine di favorire la piena, consapevole e attiva partecipazione di tutto il Popolo di Dio all’azione liturgica. Di questa azione liturgica l’espressione più eminente è fuor di dubbio il Messale Romano, per il fatto che racchiude i riti e le preghiere con cui si fa l’Eucaristia. Si deve perciò ritenere che il Messale Romano, più volte adattato nel corso dei secoli alle esigenze dei tempi, infine pubblicato da Paolo VI nel 1970 e nuovamente edito da Giovanni Paolo II nel 2002, sia stato conservato e restaurato «in fedele ossequio alla Tradizione». Francesco conclude poi la sua disamina con un monito su cui torneremo più oltre: «Chi volesse celebrare con devozione secondo l’antecedente forma liturgica non stenterà a trovare nel Messale Romano riformato secondo la mente del Concilio Vaticano II tutti gli elementi del Rito Romano, in particolare il canone romano, che costituisce uno degli elementi più caratterizzanti».
Il motuproprio «Traditionis custodes»
Se la lettera accompagnatoria è di comprensione immediata, invece il motuproprio richiede attenzione. Esso consta di otto articoli e di un preambolo che, nella scelta mirata delle prime parole, già annuncia un’inversione di rotta. Infatti, mentre l’incipit Summorum Pontificum cura lasciava intendere che il legislatore, a partire dalla sua responsabilità di pastore supremo, chiedeva ai vescovi di portare a esecuzione decisioni prese, invece l’incipit Traditionis custodes fa capire che ora il legislatore – in analogia con quanto ha precedentemente fatto con il motuproprio Magnum principium[11] – riconosce ai vescovi, ovviamente «in comunione con il vescovo di Roma», la responsabilità che essi, in forza del governo delle Chiese loro affidate, sono chiamati a svolgere per la salvaguardia della tradizione.
Dopo un cenno alla «capillare consultazione dei vescovi nel 2020», papa Francesco, nell’intento di «proseguire ancor più nella costante ricerca della comunione ecclesiale», stabilisce che «i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano» (art. 1). In merito al Messale del 1962, viene riconosciuta al vescovo diocesano la «sua esclusiva competenza» per autorizzarne l’uso nella sua diocesi, «seguendo gli orientamenti della Sede Apostolica» (art. 2). Al vescovo, nella cui diocesi già esistono «uno o più gruppi che celebrano secondo il Messale antecedente alla riforma del 1970», si chiede di accertare «che tali gruppi non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica» (art. 3, § 1); di indicare «uno o più luoghi dove i fedeli aderenti a questi gruppi possano radunarsi per la celebrazione eucaristica (non però nelle chiese parrocchiali e senza erigere nuove parrocchie personali)» (art. 3, § 2); di stabilire «nel luogo indicato i giorni in cui sono consentite le celebrazioni eucaristiche con l’uso del Messale Romano promulgato da san Giovanni XXIII nel 1962» e che «in queste celebrazioni le letture siano proclamate in lingua vernacola, usando le traduzioni della sacra Scrittura per l’uso liturgico, approvate dalle rispettive Conferenze Episcopali» (art. 3, § 3); di nominare un sacerdote adeguatamente preparato[12] «che, come delegato del vescovo, sia incaricato delle celebrazioni e della cura pastorale di tali gruppi di fedeli» (art. 3, § 4); di procedere «nelle parrocchie personali canonicamente erette a beneficio di questi fedeli, a una congrua verifica in ordine alla effettiva utilità per la crescita spirituale» e di valutare «se mantenerle o meno» (art. 3, § 5); di «non autorizzare la costituzione di nuovi gruppi» (art. 3, § 6). La normativa passa quindi a considerare due situazioni in cui vengono a trovarsi i presbiteri: quelli «ordinati dopo la pubblicazione del presente Motu proprio, che intendono celebrare con il Missale Romanum del 1962, devono inoltrare formale richiesta al Vescovo diocesano, il quale prima di concedere l’autorizzazione consulterà la Sede Apostolica» (art. 4); quelli che «già celebrano secondo il Missale Romanum del 1962, richiederanno al Vescovo diocesano l’autorizzazione per continuare ad avvalersi della facoltà» (art. 5). Seguono due provvedimenti per aggiornare, sotto il profilo giuridico-liturgico, gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica (art. 6-7). Infine, quasi a ovviare a una perplessità che in alcuni era rimasta, se cioè il Messale di Paolo VI avesse abrogato o meno il Messale di Pio V, interviene a spazzare via ogni dubbio la seguente dichiarazione: «Le norme, istruzioni, concessioni e consuetudini precedenti, che risultino non conformi con quanto disposto dal presente Motu proprio, sono abrogate» (art. 8).
La Messa nel raffronto dei Messali di Pio V e di Paolo VI
Forse è successo a tutti di notare che, quando il confronto di opinioni si esaspera, spesso chi sostiene una tesi non conosce quella dell’altro. Questa semplice constatazione ci autorizza a dire che quanti si sono arroccati sul loro Messale forse non conoscono quello degli altri. Ciò vale per quei tanti sacerdoti e fedeli che negli ultimi cinquant’anni pregano con il Messale del Concilio, ma del Messale pre-conciliare non hanno né conoscenza né tantomeno esperienza. Ma la stessa cosa si applica anche a quei sacerdoti e fedeli che, legati affettivamente al Messale di Pio V, non si sono preoccupati affatto, o non si sono preoccupati a sufficienza, di aprire il loro cuore ai tesori racchiusi nel Messale di Paolo VI. Riteniamo pertanto utile procedere a un raffronto tra l’uno e l’altro Messale[13], vale a dire tra il Messale di Pio V (1570), che consideriamo nella sua veste ultima edita da Giovanni XXIII (1962), e il Messale di Paolo VI (1970), che consideriamo nella terza edizione tipica voluta da Giovanni Paolo II (2002).
Nel Messale del 1570/1962 il rito introduttivo si presenta alquanto composito, a causa della sedimentazione relativamente tardiva di un elevato numero di elementi. Dopo aver indossato le vesti sacre, manipolo compreso, il sacerdote inizia la Messa ai piedi dell’altare con il segno di croce[14]; quindi in dialogo con il ministro recita il Sal 42 «Iudica me, Deus», cui fa da cornice l’antifona «Introibo ad altare Dei»; prosegue dialogando, sempre con il ministro, il «Confiteor». Prima lo recita il sacerdote, che confessa i suoi peccati rivolgendosi pure all’assemblea terrena rappresentata dal ministro, nei confronti della quale dice «et vobis, fratres» e «et vos, fratres». Dopo aver risposto con la formula augurale «Misereatur tui», il ministro recita a sua volta il «Confiteor», rivolgendosi al sacerdote con le parole «et tibi, pater» e «et te, pater». Il sacerdote risponde con la formula augurale «Misereatur vestri», cui fa seguito la formula assolutoria «Indulgentiam, absolutionem». Quindi prosegue con la recita dialogata di quattro versetti e altrettante risposte. Poi sale all’altare recitando sottovoce l’orazione «Aufer a nobis» e, mentre bacia l’altare, la preghiera «Oramus te, Domine». Si sposta a mani giunte sulla destra dell’altare, dove si trova il Messale, e facendosi il segno di croce legge l’antifona di introito. Tornato al centro, alterna col ministro le invocazioni del «Kyrie eleison, Christe eleison, Kyrie eleison», che vengono ripetute a tre a tre per un totale di nove volte. Dopo di che recita, se previsto, il «Gloria». Baciato nuovamente l’altare, si volge verso l’assemblea e la saluta con il «Dominus vobiscum»[15]. Quindi torna al Messale per la recita della colletta o, se previste, di una o due altre collette, dopo aver premesso «Oremus» solo alla prima. Si può notare, in questa parte introduttiva, che tutto ruota intorno all’altare. Venuta meno, sul finire del primo millennio, la percezione della funzione sacrale della cattedra, l’altare si impone come segno incontrastato e unico.
Nel Messale del 1970/2002 tutto si svolge di preferenza alla cattedra, ricollocata possibilmente in fondo all’abside, sul modello di quanto si vede ancor oggi nelle antiche basiliche romane. Intervenendo in questo momento quale segno sacrale della presidenza, la cattedra rende possibile, a sua volta, la liturgia all’ambone e la liturgia all’altare. La riforma liturgica, per ridare essenzialità all’intero complesso introitale, ha soppresso la salmodia e ha previsto una sola recita del «Confiteor». Ha inoltre rivalutato il saluto presidenziale e lo ha riportato nella sua collocazione originaria. In tal modo ha assicurato alla celebrazione un assetto valido dal punto di vista delle sequenze rituali e significativo sotto il profilo teologico. Ne dà atto la normativa rubricale, che ora recita: «Il saluto sacerdotale e la risposta del popolo manifestano il mistero della Chiesa radunata». Inoltre le formule del saluto sono state arricchite, per il fatto che, al tradizionale «Dominus vobiscum» e alla variante episcopale «Pax vobis», sono state premesse due formule alternative di ispirazione paolina. La prima: «Gratia Domini nostri Iesu Christi, et caritas Dei, et communicatio Sancti Spiritus sit cum omnibus vobis»
(2 Cor 13,13); la seconda: «Gratia vobis et pax a Deo Patre nostro et Domino Iesu Christo» (Rm 1,7; 1 Cor 1,3; Gal 1,3; Ef 1,2; 2 Ts 1,2). L’una e l’altra, assai usate, sono divenute familiari a tutti.
Riprendendo in mano il Messale del 1570/1962, notiamo che, anche per la liturgia della Parola, l’altare continua a imporsi come indiscusso polo d’attrazione. Mentre nei tempi antichi la proclamazione veniva fatta dall’ambone, successivamente, a causa sia dell’impiego di una lingua sempre meno parlata, sia di una progressiva clericalizzazione dei ruoli, la memoria della funzione sacrale dell’ambone era venuta meno fino a scomparire del tutto. L’ambone si era visto così privato della prima delle sue due finalità. Infatti, pur mantenendosi come ambone della predicazione nel pulpito, invece come ambone della proclamazione era migrato sull’altare, fino a identificarsi con il piccolo leggio. Privato del suo naturale supporto, pure il lezionario era migrato sull’altare, anzi dentro il Messale, fino a fondersi nel Messale plenario. Una volta concluso il rito introduttivo con la colletta, il sacerdote legge la prima lettura, tratta perlopiù dall’epistolario paolino. Per ricordargli che non legge per sé, ma per il popolo, la rubrica precisa: «legit epistolam intelligibili voce»[16]. Nel caso di una Messa solenne lo affianca il suddiacono che, stando sul lato destro, rivolto all’altare («contra altare»), canta l’epistola a partire dal Messale che tiene egli stesso in mano, mentre il sacerdote la legge «submissa voce»[17]. Il celebrante riprende a leggere sottovoce il «Graduale», a dire il «Munda cor meum» e a leggere il Vangelo. Nella Messa solenne, dopo aver letto per conto suo il Vangelo («lecto Evangelio»), si appresta ad ascoltarne la proclamazione ad opera del diacono. Questi infatti, mentre il suddiacono a mo’ di ambone semovente gli sorregge il Messale, rivolto in parte all’altare e in parte al popolo («contra altare versus populum»)[18], canta il Vangelo, che il celebrante spostatosi «in cornu Epistolæ» ascolta a mani giunte. Alle letture fanno seguito, se previsti, il sermone[19] e il «Credo».
Il Messale del 1970/2002, in obbedienza al principio della verità, riconosce la specificità e la conseguente diversificazione dei segni sacrali sulla base delle rispettive funzioni. Pertanto il lezionario, estrapolato dal Messale plenario, è ridiventato un libro proprio, che ha la funzione di contenere tutte le pericopi scritturistiche destinate alla proclamazione liturgica. Così pure, abbandonando la mensa dell’altare e tornando al suo posto, l’ambone è stato ripristinato nella sua prerogativa originaria, quella cioè di fungere da supporto sacrale stabile al libro della Parola. Inoltre il diacono – o, in sua assenza, il sacerdote –, pur continuando a presentarsi come lettore qualificato per la proclamazione del Vangelo, si è visto affiancare i lettori istituiti[20], o anche i lettori straordinari, con l’incarico di proclamare tutte le altre letture della Parola di Dio. La riforma liturgica ha poi arricchito con dovizia il lezionario, sia per il ciclo domenicale ripartito su tre anni, sia per il ciclo feriale, suddiviso in due anni. Alla proclamazione della Parola di Dio fa seguito la preghiera dei fedeli, con la quale l’assemblea chiede a Dio Padre di aiutarla a mettere in pratica quanto il precedente ascolto le ha fatto comprendere. Non si tratta di una creazione «ex novo», ma del ripristino di un elemento liturgico di prima grandezza voluto dalla costituzione conciliare[21].
Venendo ora alla liturgia dell’Eucaristia, notiamo che nel Messale del 1570/1962 l’offertorio presenta una complessità analoga a quella riscontrata nel rito introduttivo. Là si trattava delle apologie dell’introito, qui delle apologie dell’offertorio. Con questa espressione gli storici della liturgia designano quel complesso di preghiere devozionali, che «nacquero […] in tempi di decadenza liturgica»[22], come una «farraginosa abbondanza di forme e di formule», denominata a partire dal XV secolo «piccolo canone» o «canone minore»[23], in quanto anticipa alcune tematiche fondamentali del canone. In particolare, il tema dell’offerta è anticipato, per il pane, dal «Suscipe, sancte Pater» e, per il vino, dall’«Offerimus tibi, Domine». Se il «Deus, qui humanæ substantiæ» assomiglia a un’epiclesi di comunione e il «Veni, sanctificator» a un’epiclesi di transustanziazione, a sua volta il «Suscipe, sancta Trinitas» ha tutte le caratteristiche di un’intercessione per la Chiesa trionfante e per la Chiesa nel mondo. Dopo la «Secreta», che conclude il complesso offertoriale, ha luogo la liturgia eucaristica vera e propria, rappresentata dal canone e dai riti di comunione.
Nel Messale del 1970/2002 le preghiere che accompagnano la presentazione dei doni sono state riportate a proporzioni assai contenute. Quanto poi alla preghiera eucaristica, sappiamo che la riforma di Paolo VI ha affiancato al canone romano[24] quei tre formulari di nuova composizione che sono le preghiere eucaristiche II, III e IV. A queste quattro preghiere l’edizione del 2002 continua giustamente a riservare una posizione privilegiata rispetto alla redazione, in parte ancora acerba, di altri nuovi formulari.
Per avere un quadro più completo dell’assetto rubricale della Messa sacrificale prima del Vaticano II, si potrebbe accennare alle complicate incensazioni, ai ripetuti baci e inchini all’altare e alle cose, ai ventisei segni di croce nel solo canone, al sollevamento appena accennato della pianeta alla duplice elevazione, all’ingiunzione fatta al sacerdote di non disgiungere pollici e indici dalla consacrazione fino alle abluzioni; e ancora: al «Pater» recitato o cantato dal solo celebrante a cominciare dal «Per omnia sæcula sæculorum» che lo precede, lasciando al ministro o ai fedeli il «Sed libera nos a malo»; allo scambio di pace riservato ai ministri solo nella Messa solenne; alla menzione della comunione ai fedeli solo come eventualità[25]. Nel nuovo Messale queste prassi che risentivano di successivi affastellamenti rubricali sono state snellite e la stessa comunione dei fedeli, suggerita dai maestri spirituali del XVI secolo e autorevolmente raccomandata da Pio X († 1914) e da Pio XII († 1958), si è vista promuovere da eccezione a norma.
Gli elementi che nel Messale del 1570/1962 compongono il rito conclusivo sono riconducibili a quattro: il congedo «Ite, Missa est», l’orazione sottovoce «Placeat tibi, sancta Trinitas», la benedizione finale e la lettura del prologo di Giovannni, detta «Ultimo Vangelo». Soffermiamoci sull’«Ite, missa est», che la cultura popolare ha inserito tra i detti latini noti anche al profano. Nel sinodo sull’Eucaristia del 2005 sono tornati a prestarvi attenzione molti vescovi. Profondamente convinti che l’impegno etico del cristiano è la prova del nove per verificare l’autenticità dei nostri ascolti della Parola di Dio e delle nostre partecipazioni alla mensa del Pane di vita, hanno sollecitato gli organi competenti a rivalutare, tramite opportune esplicitazioni e adattamenti, il legame tra missa (= messa celebrata), dimissio (= dimissione/congedo) e missio (= invio in missione). Nell’esortazione apostolica post-sinodale, facendo sua la preoccupazione dei vescovi, Benedetto XVI ha affermato: «Dopo la benedizione, il diacono o il sacerdote congeda il popolo con le parole: Ite, missa est. In questo saluto ci è dato di cogliere il rapporto tra la Messa celebrata e la missione cristiana nel mondo»[26]. Nel Messale del 1970/2002, questa formula di congedo, spostata da prima a dopo la benedizione, alternabile con analoghe formule, conclude la celebrazione.
I Messali di Pio V e di Paolo VI: più vicini di quel che si pensi
Il raffronto dell’uno e dell’altro Messale ci aiuta a capire meglio l’invito, che papa Francesco rivolge a quanti si sentono affettivamente legati al Messale tridentino, «a trovare nel Messale Romano riformato secondo la mente del Concilio Vaticano II tutti gli elementi del Rito Romano», soprattutto quegli elementi caratterizzanti che il nuovo Messale ha non solo conservato, ma esaltato «in fedele ossequio alla Tradizione». L’affermazione non deve sorprendere, in quanto i Messali di Pio V e di Paolo VI sono in prosecuzione l’uno dell’altro, né potrebbe essere altrimenti, giacché i due santi Pontefici che li hanno promulgati remavano nella stessa direzione.
Pur riconoscendo l’impegno con cui Pio V affrontò il compito affidatogli dal Concilio di Trento, quello cioè di riportare il Messale «ad pristinam sanctorum Patrum normam ac ritum»[27], vale a dire all’assetto che esso aveva al tempo dei Padri, dobbiamo riconoscere che l’obiettivo non fu raggiunto. Infatti gli esperti che affiancarono il Pontefice non disponevano, né potevano disporre, di quella documentazione e di quella metodologia di ricerca che solo oggi è accessibile ai cultori di scienze liturgiche. Si trattò, insomma, di un sogno, vale a dire di un desiderio sincero che, pur facendo onore all’intento, lo ridimensiona. Fu così che l’incompiuto progetto del Concilio di Trento e di Pio V fu ripreso – esattamente quattrocento anni dopo – da un altro Concilio e da un altro Pontefice.
A quanti vorrebbero far iniziare la tradizione liturgica con quel Messale che Pio V, al fine di accreditarlo, aveva presentato come definitivo, intangibile e immutabile, va ricordato che la tradizione ha un respiro ben più ampio di quanto un preciso segmento di storia possa far intendere. Consapevole di questa sua ininterrotta continuità lungo due millenni di storia, il Vaticano II ha ripreso nuovamente in mano la delicata opera di restauro con queste parole: «L’ordinamento della Messa sia riveduto, in modo che risulti più chiara la natura specifica delle singole parti e la loro mutua connessione, e sia resa più facile la pia e attiva partecipazione dei fedeli. Pertanto i riti, conservata fedelmente la loro sostanza, siano resi più semplici; si sopprimano gli elementi che, col passare dei secoli, furono duplicati o aggiunti meno utilmente; siano invece restituiti (restituantur) all’originaria normativa dei santi Padri (ad pristinam sanctorum Patrum normam) quegli elementi che con il logorio dei secoli andarono perduti, nella misura che sembrerà opportuna o necessaria»[28]. Non è certo un caso se queste parole, che già abbiamo notato nella costituzione apostolica Quo primum di Pio V, figurano pure in Sacrosanctum Concilium e nella costituzione apostolica Missale Romanum di Paolo VI. Esse sono là a confermare la chiara volontà di riprendere un progetto già avviato, ma che i condizionamenti storico-culturali non avevano consentito di portare a termine. Possiamo essere certi che nell’odierna struttura della Messa, felicemente riscoperta e ripristinata, tutti i santi Padri si sarebbero riconosciuti, a cominciare da Giustino († 165 ca.), che nella sua celebre descrizione della liturgia domenicale tratteggia con una limpidezza sorprendente le linee guida che hanno presieduto al restauro dell’edificio liturgico[29].
Chiunque ha a cuore la celebrazione dei sacri riti nello spirito del Concilio Vaticano II – sia egli cultore delle scienze liturgiche, o responsabile di comunità, o semplice fedele –, non può non dire grazie a papa Francesco per aver voluto condividere con i pastori delle Chiese locali la «sollecitudine per tutta la Chiesa» nel ricercare l’unità e la concordia sull’uso del Messale Romano e, congiuntamente, per avere riaffermato con determinazione inequivocabile i valori della riforma liturgica, colmando così un fossato ecclesiale che, invece di restringersi, rischiava di allargarsi sempre più.
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UNITY AND CONCORD IN THE USE OF THE ROMAN MISSAL. An analysis of Traditionis custodes.
With the motu proprio Traditionis custodes Pope Francis has reaffirmed the values of the liturgical reform, of which the Missal of Paul VI is, for the Roman rite, the singular expression. Recognising that the use of the Missal of Pius V had been unduly instrumentalised to build oppositions in the rejection of the Council, the Pontiff replaced the concessions made by his Predecessors with a clearer juridical regulation. This measure resulted in involvement of the bishops in the guardianship of the tradition.
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[1]. Il documento «Traditionis custodes sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970» è entrato in vigore con la sua pubblicazione in Oss. Rom., 16 luglio 2021, 2. Come già è successo in altri casi, il testo originario italiano, pur in assenza della redazione latina, è indicato per comodità di ricerca con un incipit latino.
[2]. Francesco, «Lettera ai Vescovi di tutto il mondo per presentare il motu proprio Traditionis custodes», ivi, 2 s. L’espressione «con fiducia e parresia» echeggia l’espressione «con grande fiducia e speranza» della lettera di Benedetto XVI.
[3]. Congregazione per il Culto Divino, «Lettera ai Presidenti delle Conferenze Episcopali Quattuor abhinc annos» (3 ottobre 1984), in AAS 76 (1984) 1088-1089.
[4]. Giovanni Paolo II, s., «Motu proprio Ecclesia Dei» (2 luglio 1988), in AAS 80 (1998) 1495-1498.
[5]. Cfr M. Sodi – A. Toniolo (edd.), Missale Romanum. Editio Typica 1962. Edizione anastatica e Introduzione, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2007. La successiva edizione del 1965 non può più considerarsi tridentina, in quanto, oltre a essere bilingue, contiene adattamenti che già preludono alla riforma liturgica.
[6]. Su questo motuproprio, oltre all’editoriale di Civ. Catt. 2007 III 455-460 («La liturgia nel solco della tradizione»), cfr C. Giraudo, «La liturgia nel solco della tradizione. Riflessioni in margine al motu proprio Summorum Pontificum», in Rassegna di Teologia 48 (2007) 805-822 e Rivista Liturgica 95 (2008) 253-272.
[7]. La dicitura «di rito latino» include anche i sacerdoti di rito sia ambrosiano sia ispano-mozarabico, vale a dire quanti appartengono ai due riti latini che coabitano con il rito romano nelle diocesi, rispettivamente, di Milano e di Toledo.
[8]. La precisazione «il sacerdote non ha bisogno di alcun permesso [per l’uso del Messale del 1962]», che si legge nel motuproprio, esprime un reale mutamento rispetto alla normativa precedente. Ciò che nel 1984 era un indulto, cioè una concessione fatta – a titolo di deroga «indulgente» alla norma – dal vescovo diocesano a singoli sacerdoti e ai rispettivi fedeli, previa ammissione della legittimità ed esattezza dottrinale del Messale del 1970, nel 2007 diventa norma.
[9] . La lettera accompagnatoria a Summorum Pontificum termina così: «Inoltre, vi invito, cari Confratelli, a scrivere alla Santa Sede un resoconto sulle vostre esperienze, tre anni dopo l’entrata in vigore di questo Motu proprio. Se veramente fossero venute alla luce serie difficoltà, potranno essere cercate vie per trovare rimedio».
[10]. Nel questionario si chiede un giudizio sulla forma straordinaria, con particolare attenzione alla sua effettiva applicazione, alla sua utilità o meno sotto il profilo pastorale, alla sua ricaduta nella formazione dei seminaristi.
[11]. Per questo documento, che restituisce ai vescovi la competenza sulle traduzioni dei libri liturgici, cfr C. Giraudo, «Magnum Principium e l’inculturazione liturgica nel solco del Concilio», in Civ. Catt. 2017 IV 311-324.
[12]. La normativa si preoccupa di indicare le doti richieste nel sacerdote prescelto: «[…] sia idoneo a tale incarico, sia competente in ordine all’utilizzo del Missale Romanum antecedente alla riforma del 1970, abbia una conoscenza della lingua latina tale che gli consenta di comprendere pienamente le rubriche e i testi liturgici, sia animato da una viva carità pastorale, e da un senso di comunione ecclesiale. È infatti necessario che il sacerdote incaricato abbia a cuore non solo la dignitosa celebrazione della liturgia, ma la cura pastorale e spirituale dei fedeli».
[13]. La scelta della locuzione «l’uno e l’altro Messale» si ispira al titolo di due libri di P. Beauchamp (L’Un et l’Autre Testament, 1. Essai de lecture, 2. Accomplir les Écritures, Paris, Seuil, 1976.1990), che esprime bene l’unità dei due Testamenti.
[14]. Il segno di croce, con la formula trinitaria, fa la sua comparsa ufficiale, all’inizio della Messa, solo con il Messale di Pio V. Questo suo impiego proviene dalla sfera della devozione personale del sacerdote, che già in sacrestia incominciava a segnarsi e a recitare privatamente formule propiziatorie.
[15]. Gli storici della liturgia ci informano che è questo l’originario saluto iniziale su cui tanto insistono le mistagogie dei Padri.
[16]. Cfr M. Sodi – A. M. Triacca (edd.), Missale Romanum. Editio Princeps (1570). Edizione anastatica, Introduzione e Appendice, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 1998, 12.
[17]. Modificando la normativa precedente, l’edizione del 1962 aggiunge: «quam celebrans sedens auscultat» (M. Sodi – A. Toniolo [edd.], Missale Romanum 1962, cit., 57). La rubrica n. 473, di nuova redazione, applica anche al lettore il principio che soggiace a questa annotazione: «In Missis in cantu, ea omnia, quæ diaconus vel subdiaconus aut lector, vi proprii officii cantant vel legunt, a celebrante omittuntur» (ivi, 33).
[18]. M. Sodi – A. M. Triacca (edd.), Missale Romanum 1570, cit., 12; M. Sodi – A. Toniolo (edd.), Missale Romanum 1962, cit., 59. Al fine di comporre lo sguardo di rispetto all’altare («contra altare») con lo sguardo al popolo («versus populum»), il diacono e il suddiacono si dispongono l’uno di fronte all’altro parallelamente all’altare, in modo tale che il suddiacono abbia l’altare a destra e la navata a sinistra.
[19]. Siccome l’omelia non figura nella descrizione «De Epistola, Graduali et aliis usque ad Offertorium», con cui le rubriche generali del Messale di Pio V riassumono la liturgia della Parola, la si può intendere nella voce comprensiva «de aliis» (per le divisioni della Messa nel Messale tridentino, cfr M. Sodi – A. M. Triacca [edd.], Missale Romanum 1570, cit., 10-19).
[20]. Sulla recente estensione dei ministeri alle donne, sancita da papa Francesco, cfr C. Giraudo, «La ministerialità della donna nella liturgia. Tra “sana tradizione” e “legittimo progresso”», in Civ. Catt. 2021 I 586-599.
[21]. Cfr Concilio Ecumenico Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 53. Per maggiori dettagli sulla preghiera dei fedeli, cfr C. Giraudo, Ascolta, Israele! Ascoltaci, Signore!, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2008, 103-144.
[22]. M. Righetti, Manuale di storia liturgica, 3. La Messa, Milano, Àncora, 19663 (rist. anast. 1998), 331.
[23]. J. A. Jungmann, Missarum Sollemnia. Origini, liturgia, storia e teologia della Messa romana, 2, Torino, Marietti, 19632, (rist. anast. Àncora 2004), 76.
[24]. Per il testo e il commento del canone romano, di cui Ambrogio († 397) ci ha lasciato nel De sacramentis 4,21-27 (PL 16, 443b-446a) la più antica – quantunque parziale – testimonianza, cfr C. Giraudo, «In unum corpus». Trattato mistagogico sull’eucaristia, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 20072, 381-403. I ritocchi apportati dal Messale di Paolo VI al canone romano sono: a) la facoltà di omettere i «per Christum Dominum nostrum» intermedi; b) il ripristino dell’espressione «quod pro vobis tradetur» nella formula del pane; c) l’estrapolazione dalla formula del calice dell’espressione «mysterium fidei», che diventa monizione d’avvio all’acclamazione anamnetica; d) la sostituzione di «in mei memoriam» dell’ordine di iterazione con «in meam commemorationem».
[25]. Cfr la rubrica «Quo [Sanguine] sumpto, si qui sunt communicandi, eos communicet, antequam se purificet» (M. Sodi – A. M. Triacca [edd.], Missale Romanum 1570, cit., 351; M. Sodi – A. Toniolo, Missale Romanum 1962, cit., 405).
[26]. Benedetto XVI, Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis, n. 51, in AAS 99 (2007) 144.
[27]. L’espressione figura nella costituzione apostolica Quo primum, con cui Pio V il 14 luglio 1570 promulgò il Missale Romanum ex decreto Sacrosancti Concilii Tridentini recognitum (cfr M. Sodi – A. M. Triacca [edd.], Missale Romanum 1570, cit., 3).
[28]. Concilio Ecumenico Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 50.
[29]. Per una proiezione del Messale di Paolo VI sul «Messale dei Padri», che idealmente possiamo intravedere nelle sobrie annotazioni di Giustino, cfr il mio articolo citato alla nota 6, da cui ho ripreso in parte il raffronto dell’uno e dell’altro Messale.