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Dal 31 maggio al 2 giugno in Romania ha avuto luogo il trentesimo viaggio apostolico di Papa Francesco. Nel suo discorso al Presidente, il Sig. Klaus Werner Iohannis, e alle Autorità del Paese, il Pontefice ha espresso il desiderio che la Chiesa cattolica dia «il suo contributo alla costruzione della società e della vita civile e spirituale» della Romania, mettendosi «al servizio della dignità umana e del bene comune». Francesco è stato chiaro: si tratta «di sviluppare, insieme alle condizioni materiali, l’anima del vostro popolo; perché i popoli hanno un’anima, hanno un modo di capire la realtà, di vivere la realtà. Tornare sempre all’anima del proprio popolo: questo fa andare avanti il popolo». E allora deve essere chiaro che «la Chiesa Cattolica non è estranea, ma pienamente partecipe dello spirito nazionale, come mostra la partecipazione dei suoi fedeli alla formazione del destino della nazione, alla creazione e allo sviluppo di strutture di educazione integrale e forme di assistenza proprie di uno Stato moderno. Essa perciò desidera dare il suo contributo alla costruzione della società e della vita civile e spirituale». Il forte appello di Francesco all’«anima del popolo» appare un antidoto a ogni forma di populismo settario che riduce quest’anima a elemento fazioso e ideologico.
Per approfondire il messaggio di Francesco pubblichiamo integralmente un articolo sul tema scritto da p. Jose Luis Narvaja e pubblicato sulla nostra rivista nel luglio 2018.
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C’è un’opera di Guardini che era ben nota al p. Jorge Mario Bergoglio dall’epoca del suo rettorato alle facoltà di filosofia e teologia di San Miguel di Buenos Aires. Si tratta di Dostoevskij: il mondo religioso, nella quale il maestro renano analizza il mondo dei personaggi dello scrittore russo[1]. Bergoglio proprio in quel periodo raccomandava la lettura di questa opera che già circolava tra gli studenti[2]. La sua lettura personale del romanziere russo è stata arricchita dallo studio di Guardini e dalla sua riflessione sintetica e sistematica sul «mondo religioso» presente nelle opere dell’autore russo. È interessante capire come la riflessione di Guardini su Dostoevskij abbia avuto un influsso su Francesco, portandolo ad affermare che «il popolo è un concetto mitico».
Il Papa ha ripetuto questa affermazione in varie occasioni e interviste. In una conversazione con il nostro direttore, aveva detto: «C’è una parola molto maltrattata: si parla tanto di populismo, di politica populista, di programma populista. Ma questo è un errore. “Popolo” non è una categoria logica, né è una categoria mistica, se la intendiamo nel senso che tutto quello che fa il popolo sia buono o nel senso che il popolo sia una categoria angelicata. Ma no! È una categoria mitica, semmai. Ripeto: “mitica”. Popolo è una categoria storica e mitica. Il popolo si fa in un processo, con l’impegno in vista di un obiettivo o un progetto comune. La storia è costruita da questo processo di generazioni che si succedono dentro un popolo. Ci vuole un mito per capire il popolo. Quando spieghi che cos’è un popolo, usi categorie logiche perché lo devi spiegare: ci vogliono, certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza al popolo. La parola “popolo” ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica. Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento, difficile… verso un progetto comune»[3].
E recentemente, in un’altra intervista il Papa ha detto: «Per comprendere un popolo bisogna entrare nello spirito, nel cuore, nel lavoro, nella storia e nel mito della sua tradizione. Solo così capiremo quali sono i valori di quel popolo. Questo punto è davvero alla base della cosiddetta “teologia del popolo”. L’idea è di andare con il popolo, vedere come si esprime»[4]. Quindi, anche per «predicare al popolo bisogna guardare, saper guardare e saper ascoltare, entrare nel processo che vive, immergersi»[5].
In queste parole del Papa troviamo alcuni elementi che ci fanno pensare: la distinzione tra «categoria logica» e «categoria mitica», distinzione che induce a riflettere sul metodo; le espressioni che permettono di entrare nel cuore del popolo, e che determinano l’oggetto della riflessione; e la necessità di «andare con il popolo», che ci indica il luogo teologico della riflessione.
All’inizio del suo studio su Dostoevskij, Guardini afferma la stessa cosa che sentiamo dire da Bergoglio: «Il popolo è un essere mitico» (15). Ma che cosa significa che il popolo è una «categoria mitica», «un essere mitico»?
I miti di Platone
Una prima spiegazione va cercata nell’insegnamento di Platone, uno dei maestri del pensiero occidentale, la cui riflessione filosofica partiva proprio dalle espressioni mitiche. In sintesi, possiamo dire che per Platone il mito è l’espressione di un livello di esistenza intermedio tra il mondo delle idee e il mondo materiale[6]. È il seno materno, la matrice dove si generano le realtà concrete a partire da un’idea eterna.
Platone ricorre ai miti per esprimere le realtà complesse, poiché il mito è in relazione con l’idea, ma non è l’idea; ed è in relazione con il concreto, ma non si riduce al concreto. È un’espressione della tensione esistente tra lo storico e il trans-storico, tra l’immanente e il trascendente.
A differenza delle affermazioni categoriali logiche, il mito allude alla complessità della realtà e ci fornisce alcuni elementi per conoscerla in questa sua complessità, senza avere la pretesa di esaurirla.
Il mito è espressione della ricerca dell’eterno, sia esso dell’uomo concreto, individuale o collettivo. Così rappresenta uno sforzo per trovare il senso sottinteso all’accadere storico: in ciò consiste la sua trascendenza, la sua valenza teologica.
Ma allo stesso tempo dobbiamo sottolineare che il mito non si oppone alla vita concreta dell’uomo concreto e ai fatti irreversibili della storia. Si tratta di un racconto umano nel quale si manifesta il senso – ideale, secondo la comprensione platonica – che sta sotto la realtà concreta dei fatti storici, i quali di per sé sono unici e irripetibili. Il mito esprime un modo di affrontare l’esistenza «con un senso», e di farsi carico in maniera responsabile della storia e della vita.
Portandoci sul piano mitico, papa Francesco, lettore di Guardini, ci conduce a un livello di percezione, comprensione e riflessione che ha caratteristiche proprie.
Lo spirito del popolo russo secondo l’analisi di Guardini
Nel considerare il popolo come categoria mitica, si mette in evidenza che non si tratta della fredda astrazione di un concetto, ma di una realtà viva. Un popolo non è la semplice somma degli individui, ma una realtà in tensione per origine e vocazione, per il luogo che occupa in un mondo materiale, al quale esso deve dare uno spirito. Guardini lo intende come «un’altra sfera, un ambito originario ed essenziale, e gli uomini reali sono “popolo” nella misura in cui rivelano la presenza di questa altra sfera. Questo popolo è vicino a Dio» (15).
Si tratta di uomini individuali, con una vita personale, ma che sotto questo mito comune sono riuniti attorno alla percezione di una radice collettiva, di una vocazione condivisa e di un senso che lo trascende: principio, fine e senso della loro esistenza, che sono espressi nel mito e che assumono forme diverse – personali – nella vita di ciascun personaggio.
Tuttavia, l’appartenenza a un popolo concepito in questo modo non è una cosa automatica. Guardini indica una condizione perché l’uomo appartenga a questa categoria di popolo: si suppone che l’uomo «resti fedele all’esistenza che gli è data e non assuma un atteggiamento artificioso di riflessione e di critica» (36)[7]. La caratteristica fondamentale che Guardini recupera nel popolo, così come appare in Dostoevskij, è il suo rapporto con le «realtà fondamentali dell’esistenza»: la natura e il destino (35).
Questo rapporto con la natura non significa però naturalismo. Qui la natura non appare come natura pura, ma attraverso di essa Dio si manifesta al popolo «come Colui che tutto crea, governa e muove e che s’incontra nell’umile esistenza quotidiana» (ivi).
Questo rapporto con la natura, nel quale il popolo scopre la presenza di Dio, non significa neppure panteismo. Esiste una distinzione chiara tra Dio e la creatura. Tuttavia, sia il mondo sia la vita dell’uomo sono in Dio, si stanno «facendo nelle mani di Dio».
Non si tratta dunque di un’identità con la natura o di un’identità con Dio: esiste un intimo rapporto con tutti e due, ma senza identificarsi con loro e senza accentuarne la distanza. Precisa Guardini: «Qui sentiamo il mistero dell’amore di Dio per il mondo. Sentiamo che il mondo significa qualche cosa per Lui. Sentiamo il mistero del cuore di Dio e il mondo vicino a questo cuore. Il mistero di un’unità che non confonde ma conserva nette le distinzioni, soprattutto quella per eccellenza tra creatura e Dio, e tuttavia ciò che ha distinto raccoglie in una suprema inesprimibile unità» (78).
È questa l’espressione della tensione in cui vive il popolo: tra la natura e Dio; tra la realtà presente e la vocazione a un destino futuro; tra la libertà della sua elezione e il destino che si impone senza tener conto della sua libertà.
La santità di un popolo di peccatori
Se talora si può avere la sensazione che Dostoevskij idealizzi il popolo, non appena si analizzano i personaggi dei suoi romanzi ci si rende conto di quanto sia falsa tale impressione. Il suo sguardo non è venato di romanticismo, tanto da perdere di vista la realtà dell’esistenza del popolo. In modo oggettivo egli indica i tratti corrotti e distruttivi dei suoi personaggi: l’avidità, la depravazione e il degrado appaiono descritti con crudo realismo. E tuttavia, esso è sempre «popolo di Dio» (20).
Tutti i personaggi sperimentano le tensioni dell’esistenza: il male, il dolore e il peccato. A un certo punto, tutti si trovano davanti a questo dilemma, e ciascuno deve cercare il modo di superare le tensioni, le opposizioni e le contraddizioni. Le donne credenti e le due Sonie – quella de L’ adolescente e quella di Delitto e castigo – compiono questo superamento dimenticando se stesse con inconsapevole eroismo; Makar, il pellegrino de L’ adolescente e lo starets Zosima de I fratelli Karamazov appaiono radicati in una «viva unione indistruttibile con le grandi forze dell’esistenza» (66) e superano tali contraddizioni «per la forza unificatrice e irradiante di un cuore redento; Aleksej [Karamazov] vi perverrà più tardi per la forza angelica ch’è in lui» (152).
Guardini fa notare nei personaggi di Dostoevskij due caratteristiche che sono proprie dell’uomo del popolo come conseguenza del suo rapporto con la natura: l’obbedienza e la pazienza. Queste virtù appaiono chiaramente nelle due Sonie, che sopportano il dolore come destino – nella croce imposta loro dall’esistenza –, e quindi «con un atteggiamento credente» di obbedienza e di accettazione, coscienti del fatto che in quel dolore si compie «la trasformazione redentrice dell’esistenza» (65 s).
Ma si può apprezzare maggiormente ciò che significa una vita strettamente unita alla natura in un atteggiamento di obbedienza a Dio e di pazienza di fronte al destino, se prendiamo in considerazione i personaggi nei quali queste virtù sono assenti. La luminosità dell’uomo del popolo risalta molto meglio in confronto alla vita oscura di quanti hanno deciso di separarsi dal popolo e di non stare sotto tale mito. L’esempio più chiaro di chi rifiuta il popolo è Ivan Karamazov. In lui si realizza al negativo l’affermazione: «A chi saprà penetrare nel segreto dell’esistenza umile e credente del popolo, nella quale si rinnova continuamente il mistero dell’azione creatrice e redentrice di Dio, saranno aperti gli occhi davanti al mistero stesso di Dio», perché «chi non crede a Dio, non crede nemmeno a un popolo di Dio» (20).
Ivan si trova davanti allo stesso dilemma dell’esistenza, ma non rinuncia «all’orgoglio del superuomo […] a porsi al di sopra del bene e del male» (115). Egli respinge quella che Guardini indica come la caratteristica fondamentale del popolo, «la realtà come mistero di Dio, rifiutandosi anche di accettarla così come è, ossia nell’ubbidienza e nella pazienza» (139). Nella tensione e nella contrapposizione tra il bene e il male, Ivan non ammette di «essere salvato dall’amore di Dio»; preferisce affermare che «il mondo reca il marchio dell’imperfezione» (152), con una «titanica rivolta contro Dio» (153), nello stile del Faust, dove il finito assume il carattere proprio dell’infinito (211 s). Non si tratta di ateismo, ma di rivolta. Ivan «crede in Dio, ma non accetta la sua creazione» (178).
La conseguenza di questo atteggiamento di rivolta è chiaro, poiché «ciò che si annuncia è il finito nudo e spoglio, senza valore simbolico, senza luogo nello spazio, non più avvolto nella sollecitudine vigilante di Dio; intorno ad esso si distende invece il nulla che “nientifica”» (217).
La trasformazione del mondo
Nella natura si manifesta l’opera redentrice di Dio per mezzo di Gesù Cristo, che invita l’uomo a unirsi a lui in vista di una nuova creazione. Per questo la terra, la natura e il popolo non sono soltanto realtà naturali, ma anche realtà redente (cfr 15-18).
In questo ambito, tutto ciò che avviene – il destino – viene visto come volontà di Dio alla quale ci si deve conformare. Dio è presente nel mondo. È il creatore. La creatura deve assecondarlo e lasciarsi trasformare. Questa trasformazione personale interiore è il primo passo – necessario – che permette la trasformazione del mondo in una nuova creazione (cfr 82 s). È una partecipazione all’azione di Dio che, secondo Guardini, è presente nelle forze della natura.
Ivan Karamazov ha trasformato il mondo, ma senza lasciarsi trasformare. Si è isolato «con la sua ragione individuale» e la «sua volontà soggettiva», e solo per questo il mondo gli si è trasformato «nella demoniaca “forza della terra”» (177). Questa frattura esige da lui una decisione: o resta nella rivolta, oppure crea un nuovo rapporto con il mondo e con Dio in un vincolo che dia senso alla sua vita.
La sofferenza, il peccato e il delitto si possono superare quando l’individuo riesce a entrare nuovamente in contatto con le forze terrene (cfr 179). In Delitto e castigo, Raskolnikov ha ucciso per conquistare una libertà illusoria. Ha lottato contro se stesso e contro Dio. Tuttavia, alla fine viene perdonato: Cristo lo ritrova, perché, senza saperlo, lui lo aveva cercato (cfr 311). Guardini considera questa possibilità, sul piano di un progetto personale, un’«opera» o missione capaci di creare «un nuovo [rapporto con Dio] su un piano diverso dell’esistenza» (177).
E qui arriviamo alle affermazioni più profonde di Dostoevskij. L’appartenenza al popolo, il rapporto con la natura e con Dio non significano che il processo della salvezza sia automatico. L’uomo si trova al centro di tali tensioni che lo spingono a prendere una decisione che, se non si vuole intraprendere un cammino sbagliato, deve venire dal cuore, perché «è il cuore ciò che ci fa veramente “vivere”, non lo spirito, non la physis. Solo grazie al cuore la vita umana ha lo spirito, la vita umana ha la materia. Solo grazie al cuore lo spirito diventa “anima” e la materia “corpo”. Allora soltanto nasce una vita umana, con le sue gioie e i suoi dolori, i suoi compiti e le sue lotte, miserabile e grande allo stesso tempo»[8].
Nel cuore del popolo c’è Cristo. Invece, un personaggio come Stavrogin – ne I demoni – ha il cuore morto; il suo cuore è un deserto: «La vita in lui sembra raggelata. Egli non riesce a provare alcun sentimento di gioia o di dolore, ma solo le loro tristi degenerazioni: il piacere fisico e il tormento del proprio stato visto con una lucidità disperata. Non c’è vera vita in lui» (241). Chi invece si è lasciato trasformare il cuore, «riacquista la libertà in Dio ed entra nel “paradiso”, e il paradiso comincia a esistere anche intorno a lui» (82 s).
Secondo Guardini, la caratteristica fondamentale del popolo è il suo stretto rapporto con la natura, attraverso cui esso percepisce l’azione redentrice di Dio. Ciò rappresenta solo l’inizio di un processo. Il rapporto con il mondo sfocia in una nuova creazione, in cui, grazie all’uomo redento, il mondo partecipa a tale redenzione. Questa liberazione dal peccato, che «ha sparso nel mondo le tenebre e l’errore», trasforma tutti i rapporti: il mondo diventa più trasparente, e il suo senso non resta nascosto nell’opacità di una mente offuscata.
Aleksej, «il cherubino» de I fratelli Karamazov, fratello di Ivan il ribelle, è l’immagine di tale trasformazione escatologica: «Come posso essere degno che un altro uomo fatto come me a immagine e somiglianza di Dio, mi debba servire?» (87)[9]. Anche se «non possono non esserci padroni e servitori, […] vorrei anch’io essere il servo dei miei servi, come essi sono i miei» (83).
Aleksej non può accettare che un uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio, gli sia sottomesso. E se per lui non è possibile cambiare il destino, se un cambiamento delle strutture va al di là delle sue forze – «in questo mondo non si può fare a meno dei servi» –, tuttavia è per lui possibile cambiare il cuore e il mondo che lo circonda; per questo consiglia: «Agisci in maniera che il tuo servo si senta in casa tua più libero di spirito che se non fosse servo» (90 s).
Questa trasformazione non si ottiene con la forza[10]; la vera forza di trasformazione è l’amore vivo e umile che proviene da Dio: «L’amore umile è una forza formidabile, la più grande di tutte, come non ce n’è un’altra» (91)[11].
Così Guardini descrive il mondo religioso di Dostoevskij, costituito dai rapporti con Dio, con la natura e con gli altri uomini. Il destino dei personaggi si gioca nell’appartenenza al popolo o nel distacco da esso. Il tratto fondamentale che dà l’identità al popolo è il Vangelo, e la figura che si scopre – ma soltanto in maniera velata – è Cristo. Lo dice Dostoevskij in una lettera: «La mia professione di fede è molto semplice. Eccola: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più simpatico, di più ragionevole, di più straordinario, di più perfetto di Cristo. Non solo non c’è nulla più di lui, ma me lo dico con un amore geloso: non può esserci nulla più di lui. Meglio ancora: se qualcuno mi avesse dimostrato che Cristo è fuori della verità, se fosse realmente appurato che la verità è fuori di Cristo, preferirei stare con Cristo piuttosto che con la verità»[12].
Andare con il popolo per conoscere il popolo
Per scoprire il cuore e lo spirito del popolo nelle sue espressioni, papa Francesco ci ricordava la necessità di «andare con il popolo». Dostoevskij ci offre la possibilità di chiarire anche questa affermazione del Papa. Henri Troyat, biografo di Dostoevskij, fa notare un particolare importante. Nelle prime opere del romanziere si constata l’assenza di un personaggio: Dio. Non è quello che abbiamo visto nel mondo dei suoi personaggi. E tuttavia Dostoevskij ha avuto bisogno della «prova del patibolo e della Siberia perché Dio sorgesse sullo sfondo dell’universo dostoievskiano»[13].
Lo scrittore russo fece un’esperienza di salvezza quando, ai piedi del patibolo, lo zar gli tramutò la pena di morte nel carcere in Siberia. «L’ergastolo. L’esilio. La gioia precipita su Dostoevskij come un masso. Salvo! Che importa tutto il resto? Venti anni dopo egli dirà a sua moglie: Non ricordo un giorno tanto felice»[14]. E quando gli chiedono dell’esperienza in carcere, risponde: «Chissà che, forse, da lassù l’Onnipotente abbia voluto mandarmi in carcere perché imparassi che cosa è più importante e senza del quale non si può vivere?»[15].
Fëdor Michajlovič Dostoevskij è riuscito, grazie a un’esperienza limite della sua esistenza, a mettersi sotto il mito del suo popolo. Obbediente al suo destino, sopporta pazientemente i quattro anni di carcere e il lavoro forzato. Al «giorno più felice», in cui si è sentito salvato, fanno séguito gli anni della purificazione e dell’apprendistato.
Questa dolorosa esperienza gli ha permesso di comprendere che «ancora una volta la luce verrà dal basso»[16], e per questo egli si considera «discepolo dei forzati». In Siberia «fu il loro discepolo, il loro allievo, e l’insegnamento dell’ergastolo lo segnò per tutta la sua esistenza. Quei quattro anni sono come il serbatoio segreto, dove si alimenterà da allora in poi il suo genio. Costituiscono il centro della sua vita. La dividono in due parti uguali. C’è un Dostoevskij prima della Casa dei morti e un Dostoevskij dopo la Casa dei morti»[17].
Con altre parole e con altre esperienze, papa Francesco ci invita ad accostarci al popolo, la cui «riserva religiosa»[18], senza orpelli, ci purifica da tutti i nostri tentativi di sfuggire alla realtà della nostra esistenza. Per Bergoglio, «popolo, più che una parola, è una chiamata, un invito a uscire dall’isolamento individualista, dall’interesse proprio e limitato, dalla piccola laguna personale, per rovesciarsi nell’ampio letto di un fiume che avanza e avanza, riunendo in sé la vita e la storia del vasto territorio che attraversa e a cui dà vita»[19].
Ma «si può parlare del popolo [solo] se si parte dall’impegno, dalla partecipazione». Per questo il Papa fa notare ai teologi che «c’è un senso delle realtà della fede che appartiene a tutto il popolo di Dio, anche di quanti non hanno particolari mezzi intellettuali per esprimerlo»[20], invitandoli ad avvicinarsi ad essi, ad ascoltarli per poter riflettere a partire dal tesoro di questa esperienza di Dio.
Conoscenza e metodo
Arriviamo al punto più astratto del problema. La prima cosa che Francesco sottolinea nella citazione da cui ha preso spunto la nostra analisi è la distinzione tra i due piani della conoscenza.
Da un lato, c’è una conoscenza «logica». Se prendiamo questa via, avremo come risultato una «descrizione» del popolo che però non ci permette di entrare nel suo cuore. È una descrizione dall’esterno. Il pensatore si pone al di fuori del popolo – come se non vi appartenesse –, prende le distanze e pensa al popolo a partire da un’«idea» o da un «paradigma» propri. Il popolo, in questo caso, diventa l’oggetto della comprensione, dell’analisi e della descrizione.
Dall’altro lato, il Papa parla di un’altra forma di avvicinamento al popolo che non ha la sua origine nella distanza, ma che nasce dall’«andare con il popolo». A partire da questa vicinanza e dall’incontro con il popolo è possibile un’altra conoscenza, nella quale il popolo non è oggetto, ma soggetto. Si riconosce che il popolo crea le manifestazioni della propria vita, ossia della cultura[21]. E in questa cultura il popolo esprime – stando a quello che dice il Papa – «il suo spirito, il suo cuore, il suo lavoro, la sua storia e il mito della sua tradizione».
Guardini mostra il problema che sorge quando si cerca di concettualizzare, vale a dire quando si ha la pretesa di esprimere con parole fissate («irreversibili») il carattere di unicità e il divenire vivente della vita. Si corre il rischio che il concetto non riesca a esprimere pienamente il dinamismo della vita e le tensioni del vivente. Per questo Guardini richiama l’attenzione sulla necessità di un metodo «più sottile» (325).
È necessario considerare la tensione dei contrasti sia nella realtà sia nel medesimo atto di percezione della realtà. La ragione (ratio) può percepire una situazione, un momento determinato e un problema puntuale – come fa una fotografia –, ma non esaurisce la realtà del vivente. Infatti, la vita del vivente si caratterizza per il suo dispiegarsi in processi – e quindi non come una fotografia, ma come un film –, e pertanto richiede che la «concettualizzazione» esprima la percezione di tale processo, che non sempre significa movimento, perché le tensioni possono essere esterne e interne, esistenziali e accidentali[22].
Questa condizione del vivente arriva a creare una situazione in cui sul piano della conoscenza va inserito un «elemento alogico» (326). Ma non si deve affatto credere che questo elemento alogico – che è «accessibile solo all’intuizione» (327) – sia di carattere inferiore a quello logico. Esso ne costituisce piuttosto il polo opposto, e dev’essere incluso nella concettualizzazione in quanto costitutivo della vita. Il che non significa che si debba considerare la ratio come un pericolo per la vita e per la comprensione della vita.
Secondo Guardini, si deve tener conto della tensione tra questi due elementi che convivono nell’uomo vivente e nelle sue relazioni con il mondo, con gli altri uomini e con Dio. Pertanto essi devono essere presenti nella comprensione e nella codificazione di quella realtà che è l’uomo[23]. Da ciò deriva che una concettualizzazione rispettosa di tale tensione non può mai avere i tratti di un pensiero finito: essa appare piuttosto come un’indicazione dinamica, che necessariamente lascia aperta la porta al movimento proprio della vita umana.
Guardini pensa che Dostoevskij descriva l’esistenza dei suoi personaggi considerando questi due poli in tensione: «il momento di pienezza dell’esistenza, il non-definito, l’elemento fluido sfuggente a ogni forma, l’improvviso e l’imprevedibile» (350). Questa ricchezza delle opere di Dostoevskij costituisce l’interesse più importante dello studio di Guardini sul mondo religioso dello scrittore. Egli infatti ritiene che questo modo di descrivere il mondo dei rapporti possa dare un «contributo all’edificazione di un’Europa umana e spirituale», e di conseguenza alla «conoscenza dello spirito e del cuore umano» (351).
[1]. R. Guardini, El universo religioso de Dostoyevski, Buenos Aires, 1954 (tr. it., Dostoevskij: il mondo religioso, Brescia, Morcelliana, 20005. Nell’articolo, i numeri tra parentesi si riferiscono alla pagina della traduzione italiana).
[2]. Cfr D. Fares, «L’arte di guardare il mondo», prefazione a R. Guardini, L’ opposizione polare, Milano, Corriere della Sera, 2014, V-XI; si veda anche M. Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale. Dialettica e Mistica, Milano, Jaca Book, 2017, 13 e 126.
[3]. A. Spadaro, «Le orme di un pastore. Una conversazione con Papa Francesco», in Papa Francesco, Nei tuoi occhi è la mia parola. Omelie e discorsi di Buenos Aires (1999-2013), Milano, Rizzoli, 2016, XV-XVI.
[4]. D. Wolton, Pape François. Rencontres avec Dominique Wolton. Politique et société. Un dialogue inédit, Paris 2017, 47 s (tr. it., Dio è un poeta. Papa Francesco con Dominique Wolton, Milano, Rizzoli, 2018, 37).
[5]. A. Spadaro , «Le orme di un pastore…», cit., XVI.
[6]. Cfr J. L. Narvaja, «Città visibili e città invisibili. Una riflessione a partire da Italo Calvino», in Civ. Catt. 2018 I 128-141.
[7]. Dostoevskij disprezza gli intellettuali. Troyat spiega che Dostoevskij, deluso dagli intellettuali della sua epoca, i quali cercavano di imitare la cultura europea occidentale e pertanto disprezzavano la cultura e il popolo russi, si trova «diviso dal mondo intellettuale. Non riceve più lettere, non legge libri. Il Vangelo è il suo unico alimento morale, e il Vangelo è proprio il trionfo del cuore sulla mente» (H. Troyat, Dostoievski, Buenos Aires, Emecé Editores, 1996, 143; tr. it., Id., Dostoievski. Vita tragica e avventurosa, Milano, Poligono, 1948).
[8]. «Si pretende – scrive Dostoevskij – che il popolo russo non conosca il Vangelo, che addirittura ignori i comandamenti che sono alla base della nostra fede. Sì, in effetti è così, ma il popolo conosce Cristo e se lo porta nel cuore per l’eternità», (H. Troyat, Dostoievski…, cit., 318).
[9]. Cfr anche ivi, 226.
[10]. «La Russia avanza. La vera Russia. Non quella degli intellettuali inaciditi, dei rivoluzionari, degli “invasati”, ma la Russia della terra, del lavoro, della fede. Quella che salverà l’altra» (ivi, 285).
[11]. In maniera analoga afferma Troyat: «Per Dostoevskij […] nulla è vile sulla terra tranne l’uomo privo di desideri, lo spirito arido, l’intellettuale orgoglioso. Nessun delitto uccide il diritto al perdono. L’amore salva tutto. L’amore è umiltà. Giacché l’amore umano deve essere umile» (ivi, 231).
[12]. Ivi, 144.
[13]. Ivi, 60.
[14]. Ivi, 115.
[15]. Ivi, 106.
[16]. Ivi, 318.
[17]. Ivi, 139.
[18]. J. M. Bergoglio, Meditaciones para religiosos, Buenos Aires, 1982, 46 s.
[19]. Id., El verdadero poder es el servicio, Buenos Aires, Editorial Claretianum, 2007, 88.
[20]. Francesco, «Discorso all’Associazione teologica italiana», 29 dicembre 2017.
[21]. Nel «Discurso inaugural» al Congreso Internacional de Teología «Evangelización de la cultura e inculturación del Evangelio», Bergoglio ha affermato che «le culture sono il luogo in cui la creazione si fa autocosciente nel suo grado più alto. Per questo chiamiamo “cultura” il meglio dei popoli, il culmine della loro arte, il vertice della loro tecnica, ciò che permette alle loro organizzazioni politiche di perseguire il bene comune, alla loro filosofia di dare ragione del loro essere, e alle loro religioni di legarsi al trascendente attraverso il “culto”. Ma questa sapienza dell’uomo, che lo porta a giudicare e a ordinare la sua vita a partire dalla contemplazione, non si dà né in astratto, né individualmente, né istantaneamente: piuttosto è contemplazione di ciò che si è lavorato con le mani; contemplazione che ha origine dal cuore e dalla memoria dei popoli; contemplazione che si fa attraverso la storia e in base al tempo» (J. M. Bergoglio, «Discurso inaugural», in Stromata 41 [1985] 162).
[22]. Cfr H.-B. Gerl, «Vita che regge alla tensione. La dottrina di Romano Guardini sull’opposizione polare», epilogo a R. Guardini, L’ opposizione polare, Milano, Corriere della Sera, 2014, 235-262.
[23]. Guardini afferma che «il pensiero moderno occidentale non ha più ritrovato la necessaria posizione di equilibrio e, passando da un estremo all’altro, ha eluso i problemi fondamentali del pensiero e dell’azione» (330).
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THE ‘MYTHICAL’ CONCEPT OF PEOPLE. Pope Francis, reader of Dostoevsky
Pope Francis’ thought has gradually formed – coupled with his academic studies – through his personal reading and reflection; and, thanks to an intellectual confrontation with the various areas in which he has lived and worked. Among the many authors who have enriched his thought, in this study we have focused on Dostoevsky, taking into particular consideration Romano Guardini’s monograph Dostoevskij: il mondo religioso. Here we see how the “mythical” category of a people occupies centrestage in Guardini’s text, and how Dostoevsky’s novels confer a concrete content to this category.