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Oggi il contesto umanitario affronta una sfida seria: il numero di persone sfollate è il più elevato dai tempi della Seconda guerra mondiale. L’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha definito la situazione una «crisi monumentale», che richiede una risposta basata su una «solidarietà monumentale»[1]. Per proteggere l’umanità abbiamo bisogno di sviluppare strumenti molto migliori di quelli messi così chiaramente in crisi dalle tragedie dei nostri giorni.
La prima parte di questo articolo evidenzia alcune risorse presenti nelle grandi tradizioni religiose e spirituali che possono offrire una risposta a questa situazione critica. Viene data particolare attenzione all’ispirazione cristiana del servizio ai rifugiati e si propongono quindi alcune prospettive etiche più orientate alla politica.
Prospettive religiose e spirituali
Di recente alcuni filosofi politici laici, come Joseph Carens, e alcuni studiosi del problema dei rifugiati, come Philip Marfleet, hanno sostenuto che è giunto il momento di aprire le frontiere a tutti coloro che devono lasciare il proprio Paese a causa delle persecuzioni, dei conflitti o dei disastri naturali[2]. In un analogo spirito, il moderno movimento per i diritti umani afferma la dignità universale di tutte le persone e cerca di abbattere i muri che dividono i popoli fra quelli che contano e quelli che non contano, quando sono in gioco i più fondamentali requisiti dell’umanità.
Questo orientamento trova un forte sostegno anche nelle grandi tradizioni religiose di tutto il mondo. Sia nell’ebraismo sia nel cristianesimo ogni persona è stata creata a immagine e somiglianza di Dio e condivide una dignità che oltrepassa le frontiere tra gli Stati nazionali. Papa Francesco ha fatto ricorso a questa nozione biblica durante la sua visita all’isola greca di Lesbo, quando ha ricordato ai rifugiati siriani che «Dio ha creato il genere umano perché formi una sola famiglia», e ha chiamato l’Europa a «costruire ponti» anziché «erigere muri»[3].
Inoltre, ciascuna delle grandi tradizioni monoteistiche – ebraismo, cristianesimo e islam – sia pure con sfumature diverse, fa risalire le proprie origini al patriarca Abramo, che si è allontanato dalla sua terra natale per andare verso il paese di Canaan. L’identità degli ebrei è stata plasmata dalla storia dell’esodo: una migrazione dalla schiavitù in Egitto alla libertà nella terra promessa da Dio. E il Nuovo Testamento ci dice che Gesù, subito dopo la sua nascita, per sfuggire alla persecuzione, dovette lasciare Betlemme e rifugiarsi in Egitto insieme a Giuseppe e Maria. I musulmani misurano il tempo a partire dalla hijra – «migrazione» – di Maometto da La Mecca a Medina. Sicché ciascuna di queste comunità di fede vede i propri impegni religiosi ed etici come mete da raggiungere a prescindere dalle frontiere.
Perciò, nel 1963 papa Giovanni XXIII affermò che «per il fatto che si è cittadini di una determinata comunità politica, nulla perde di contenuto la propria appartenenza, in qualità di membri, alla stessa famiglia umana»[4]. Di conseguenza, ai «profughi […] vanno riconosciuti tutti i diritti inerenti alla persona: diritti che non vengono meno quando essi siano stati privati della cittadinanza nelle comunità politiche di cui erano membri»[5].
Papa Francesco ha ripetutamente insistito sul fatto che la vocazione cristiana comporta la responsabilità di accogliere i profughi con un atteggiamento di compassione e di misericordia.
Priorità di ordine etico per la politica
Alcuni anni fa la filosofa Martha Nussbaum ha definito la nazionalità una caratteristica «moralmente irrilevante» della personalità: una posizione etica che a sua volta implica l’apertura delle frontiere[6]. È evidente che gli Stati e le frontiere continuano ad avere un ruolo di primaria importanza nei confronti dei migranti. Esiste un dovere di amare tutti gli esseri umani in quanto nostro prossimo, ma ci sono anche doveri verso coloro con i quali si hanno relazioni speciali, come i membri della propria famiglia o del proprio Paese. Sicché determinare le priorità di ordine etico fra questi doveri costituisce un compito fondamentale. Tali priorità possono contribuire a formare un orientamento politico per fronteggiare la crisi umanitaria. In alcune circostanze le responsabilità verso coloro che sono più vicini dovrebbero avere la precedenza sulla preoccupazione per chi si trova più lontano. D’altra parte, quando chi è più lontano ha necessità maggiori, queste diventano una priorità.
La dottrina sociale cattolica ha espresso questo concetto nel «principio di sussidiarietà». Esso afferma che esistono speciali doveri all’interno delle comunità più piccole e più vicine. Ma sostiene altresì che, quando si presenta una grave necessità a una distanza maggiore, o quando le comunità locali non rispondono adeguatamente a tale necessità, sono le più ampie comunità regionali o la comunità internazionale nel suo insieme che devono impegnarsi a dare aiuto (subsidium)[7]. Questo principio di sussidiarietà, sebbene sia stato sviluppato nell’ambito della dottrina sociale cattolica, è stato adottato dalle Nazioni Unite[8]. Ciò significa che la responsabilità primaria verso i profughi ricade sul Paese di cui essi sono cittadini. Ma se il loro Paese non riesce a proteggerli, il dovere passa ai Paesi vicini e alle istituzioni internazionali.
Quindi, ci sono doveri sia verso i propri concittadini, sia verso i migranti forzati. Nessuno di questi due doveri è assoluto: i doveri verso i concittadini non sempre si impongono su quelli verso i rifugiati, né i doveri verso i rifugiati hanno sempre la precedenza su quelli verso i concittadini.
Vogliamo suggerire ora alcune priorità tra questi tipi di obblighi, mettendo a fuoco in primo luogo i doveri negativi, cioè quelli di non agire in modi che possano provocare le crisi umanitarie, e poi i doveri positivi verso chi si trova in una situazione critica.
La maggior parte delle migrazioni forzate nel mondo attuale è causata da guerre, come i conflitti in Siria, Afghanistan, Somalia, Sud Sudan e Yemen. I doveri negativi fondamentali riguardo a tali migrazioni si possono individuare facendo riferimento alla tradizione morale nota come «etica della guerra giusta». Questa tradizione richiede che l’impiego della forza sia strettamente limitato alla difesa dei diritti delle persone alla vita e alla libertà, e dei diritti degli Stati nazionali all’autodeterminazione e all’integrità territoriale. D’altra parte, esiste il dovere negativo di non usare la forza per sottrarre alle persone la libertà politica, per sfruttarle economicamente o a motivo delle loro differenze culturali. La violazione di tali diritti negativi è immorale e criminale.
È stata proprio una violazione di questo genere che si è verificata nel 1994, nell’orribile genocidio in Ruanda, dove si fece uso della forza per massacrare la maggior parte della popolazione tutsi. Identica violazione si è avuta nelle atrocità di Srebrenica, dove migliaia di musulmani bosniaci furono sterminati in una «pulizia etnica» a motivo della loro identità. Pertanto, una priorità fondamentale nell’impegno per prevenire le crisi umanitarie dovrebbe tradursi in sforzi molto più intensi per impedire l’iniquo uso della forza.
Le regole della «guerra giusta» vietano anche gli attacchi intenzionali contro la popolazione civile, nonché i danni collaterali sproporzionati nei suoi confronti. Il diritto internazionale ha sancito questo tipo di divieti specialmente nella Quarta Convenzione di Ginevra e nel I Protocollo. Alcuni recenti casi di migrazione forzata sono stati conseguenza di violazioni del genere. Per esempio, nella guerra civile scoppiata nel Sud Sudan nel dicembre 2013, come afferma Human Rights Watch, sia il governo di questo Paese sia le forze di opposizione «hanno commesso atti di straordinaria crudeltà che costituiscono crimini di guerra e in alcuni casi potenziali crimini contro l’umanità»[9]. Nel caos che ne è seguito, nel gennaio 2018 si sono contati circa 2,5 milioni di profughi sud sudanesi, mentre il numero degli sfollati interni (Internally Displaced Persons) si avvicinava ai 2 milioni[10]. In Siria, la violazione dei diritti fondamentali della popolazione civile ha portato alla più grande migrazione forzata nella storia recente.
Tutto ciò solleva la questione dei nostri obblighi positivi di assistere gli sfollati, tenendo conto delle nostre responsabilità verso le persone del nostro Paese. Per risolvere tale problema possiamo ricorrere a un tipo di analisi morale originariamente sviluppato negli anni Settanta del secolo scorso, nel contesto del dibattito sulla risposta da dare al regime di apartheid che divideva il popolo del Sudafrica secondo la razza e l’etnia.
In tale dibattito, c’era chi sosteneva che soltanto coloro che avevano creato il sistema dell’apartheid avevano il dovere di adoperarsi per superarlo: vale a dire, i sudafricani bianchi. Ma alcuni studiosi della Yale University richiamarono l’attenzione su un criterio etico diverso: in determinate circostanze noi abbiamo il dovere positivo di contribuire a rimediare a danni di cui non siamo stati la causa[11]. Chiamarono tale criterio Kew Gardens Principle, prendendo spunto da un caso tragico verificatosi a Kew Gardens, un quartiere della città di New York. Qui, nel 1964, una giovane donna, Kitty Genovese, era stata ferocemente assalita e accoltellata a morte davanti a ben 38 testimoni, che avevano assistito all’episodio senza intervenire e senza neppure chiamare la polizia[12]. L’indignazione pubblica destata da quell’episodio dimostra che la maggior parte delle persone sono convinte che in alcuni casi l’omissione può essere un male non minore dell’assassinio.
Basandosi su questa convinzione, il Kew Gardens Principle dichiara che si ha il dovere positivo di aiutare, quando sono presenti queste 4 condizioni: 1) esiste un bisogno grave; 2) ci si trova in prossimità del bisogno; 3) si hanno le capacità per aiutare; 4) si è probabilmente l’ultima risorsa da cui ci si può attendere un aiuto. In seguito è stata aggiunta una quinta condizione: l’azione può essere intrapresa senza gravissimi danni per chi presta soccorso. Pur considerando la differenza di applicazione del principio nel caso di singole persone e in quello di Stati sovrani, questi criteri possono comunque aiutarci a riflettere sul campo di applicazione dei doveri positivi verso gli sfollati di oggi.
Innanzitutto, il bisogno. Non c’è alcun dubbio che oggi molte persone abbiano un grande bisogno di protezione in Siria e nel Sud Sudan. Chi si trova all’interno di questi Paesi devastati dalla crisi affronta situazioni che potrebbero essergli fatali, e fugge a causa di tale vulnerabilità. Il dovere di rispondere ricade in primo luogo su quanti per la loro prossimità sono a conoscenza del bisogno e possono comprendere meglio come rispondervi. Il che significa che il governo della nazione in cui si verifica la crisi e le sue comunità locali hanno la responsabilità principale. Nel Sud Sudan e in Siria sia i governi sia le forze di opposizione hanno il dovere negativo di fermare le loro atrocità e il dovere positivo di contribuire ad alleviare il peso delle sofferenze.
Tuttavia, il dovere di intraprendere un’azione positiva non è limitato ai confini nazionali dei Paesi in cui si verifica la crisi. Quando gli abitanti di un Paese limitrofo o anche di un Paese che si trova a grande distanza diventano consapevoli di tale crisi, questo li deve spingere a quella che potremmo chiamare «prossimità intellettuale o psicologica», che li pone in una prossimità morale rispetto a coloro che sono nella sofferenza. Nel caso del Sud Sudan, l’organizzazione regionale dei Paesi confinanti con il Sudan, la Intergovernmental Authority on Development (Igad), ha svolto un ruolo diplomatico, cercando di mediare nel conflitto di quel Paese.
Purtroppo, interessi particolari economici e politici hanno talvolta deviato gli sforzi di mediazione di vari Paesi dell’Igad, in particolare dell’Uganda e dell’Etiopia. Ciò ha indotto molti Paesi esterni alla regione a mettere in atto un tentativo noto come Igad Plus, a cui partecipano l’Unione Africana, l’Onu, la Cina, gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Norvegia e l’Unione Europea. La prossimità della consapevolezza ha fatto affiorare un senso di responsabilità morale in questi Paesi più lontani. I tentativi congiunti degli attori regionali e di quelli globali certamente non sono stati perfetti, ma sono stati utili e hanno suggerito nuove modalità con cui si può agire a distanza.
A sua volta, il criterio della capacità getta luce anche sui doveri positivi nella risposta alle crisi umanitarie. È ovvio che chi non sa nuotare non è tenuto ad aiutare un bambino che sta annegando, mentre lo deve fare un buon nuotatore. Il Libano, la Turchia e la Giordania oggi ospitano già un gran numero di rifugiati siriani; perciò non sono in grado di fornire asilo a molti altri rifugiati. D’altro canto, le nazioni ricche del Nord Europa e del Nord America e gli Stati produttori di petrolio del Golfo sono in grado di accogliere molti più richiedenti asilo e di condividere gli oneri ormai insostenibili per le nazioni vicine alla Siria. I Paesi che hanno maggiori possibilità economiche e politiche per aiutare hanno responsabilità proporzionalmente maggiori di farlo. Questi doveri si possono adempiere concedendo il diritto di asilo a un numero più grande di rifugiati, fornendo maggiori opportunità di reinsediamento, e in particolare offrendo assistenza economica alla Turchia, al Libano e alla Giordania, che stanno già sopportando un peso eccessivo[13].
L’esistenza di questi doveri positivi è stata alla base della nascita del principio morale e politico noto come Responsibility to Protect, «responsabilità di proteggere» (R2P). Quando si parla di «responsabilità di proteggere» nell’odierno dibattito internazionale, si fa riferimento a concetti più precisi di quelli relativi alla responsabilità primaria dello Stato di far rispettare i diritti dell’uomo e di proteggere l’ordine pubblico, l’armonia sociale e la sicurezza delle persone, delle loro famiglie e delle loro proprietà. La «responsabilità di proteggere» viene quindi definita sulla base di tre princìpi fondamentali: 1) Lo Stato ha la responsabilità di proteggere la propria popolazione da qualsiasi crimine grave, ossia da qualsiasi violazione di diritti considerati parte dello ius cogens, ossia valori fondamentali e inderogabili in qualsiasi situazione, come genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
2) Nello svolgere questo compito lo Stato deve essere supportato dalla comunità internazionale, che ha la responsabilità di assisterlo durante l’esercizio della protezione. 3) La comunità internazionale assume la responsabilità di usare ogni mezzo diplomatico, umanitario e pacifico per proteggere le popolazioni nel caso in cui lo Stato dove stanno avvenendo determinati crimini fallisca nel suo obbligo. Ogni azione della comunità internazionale deve, infine, seguire i princìpi del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite[14].
La responsabilità di proteggere è stata al centro di accese polemiche quando, nel 2005, è stata approvata dai capi di Stato nell’Assemblea Generale dell’Onu. Occorre considerare infatti che esistono difficoltà tecniche giuridiche con la R2P rispetto alla Carta delle Nazioni Unite. Il secondo e il terzo principio sollevano importanti questioni internazionali, sia per la difficoltà di armonizzare l’eventuale obbligo di proteggere a carico della comunità internazionale con il diritto alla non ingerenza, sancito dall’articolo 2.7 dello Statuto delle Nazioni Unite, sia perché non esiste ancora un testo legale internazionale che autorizzi l’uso della forza collettiva al di là delle tipologie del capitolo VII dello stesso Statuto. Una formalizzazione giuridica del principio esigerebbe per lo meno una riforma dell’articolo 39, per includere tra le tipologie che autorizzano l’intervento del Consiglio di Sicurezza anche i crimini cui fa riferimento il concetto della responsabilità di proteggere. Occorrerebbe anche una riforma, o almeno un’interpretazione autorevole dell’articolo 2.7 per definire la competenza delle Nazioni Unite nel caso dei crimini cui fa riferimento la responsabilità di proteggere. Invece, l’arrogarsi, da parte di uno Stato, di un certo diritto di intervenire con la forza in altro Stato per una pretesa applicazione del principio della responsabilità di proteggere comporterebbe una negazione di tutta la costruzione del diritto internazionale del secolo XX.
Nonostante le critiche che le sono state rivolte, è importante notare che la R2P ha portato a un’efficace protezione delle popolazioni in diverse situazioni critiche. Per esempio, quando è scoppiato il conflitto in Kenya dopo le controverse elezioni del 2007, l’Onu, l’Unione Africana e un buon numero di altri governi, compresi gli Stati Uniti, hanno preso iniziative per porre fine al conflitto. Ciò ha portato a un accordo per la condivisione del potere e ha interrotto la corsa verso la guerra civile[15]. La R2P si può attuare positivamente con mezzi politici e diplomatici nonviolenti.
Il ricorso alla R2P è stato invocato anche per giustificare l’uso della forza militare per proteggere la popolazione dalle violenze. Per esempio, nel 2012 la Francia e la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale hanno adottato un’azione militare, con l’approvazione dell’Onu, per riportare la pace in Mali. E nel 2013 truppe della Francia e dell’Unione Africana sono intervenute per fermare le violenze e lo sterminio di quasi un milione di persone che si stavano verificando nella Repubblica Centrafricana[16]. Sebbene queste situazioni non siano state completamente risolte, tuttavia tali iniziative dimostrano che la dottrina della responsabilità di proteggere può contribuire a ridurre le crisi.
Le situazioni presenti in Libia e in Siria pongono ora degli interrogativi circa l’attuale adeguatezza della R2P. In Libia, l’Onu a suo tempo aveva autorizzato l’uso di «tutte le misure necessarie» per proteggere i civili di fronte al pericolo che il leader Muammar Gheddafi stesse per commettere efferatezze[17]. La Nato è intervenuta con le forze aeree, Gheddafi è stato ucciso e il suo regime è stato rovesciato. Purtroppo la Libia da allora è precipitata nel caos. Ciò ha indotto alcuni a pensare che il perseguimento di obiettivi umanitari non richiesti dal Paese interessato rischi di fare più male che bene[18]. Ma si può anche pensare che l’intervento in Libia sia fallito non perché fosse eccessivo, ma perché è stato incompleto. La Nato e gli Stati Uniti avrebbero dovuto dar seguito al loro intervento con azioni di ricostruzione e prevenire il caos che poi si è verificato.
Anche la vicenda della Siria è stata citata per dimostrare la fine della R2P. Le radici della complessità politica e dell’ambiguità morale della situazione siriana sono profonde. Ma tale complessità non esime dal dovere di proteggere le persone dalle atrocità, quando questa protezione è possibile.
Il dovere di proteggere il popolo siriano impone di proseguire le iniziative politiche e diplomatiche volte a tal fine. Non soltanto Assad e i ribelli, ma anche i vari attori internazionali stanno tenendo viva la crisi siriana[19]. La comunità mondiale ha pertanto il dovere di impegnarsi a livello diplomatico con quelle potenze, per cercare modi efficaci per proteggere chi è coinvolto in quella terribile crisi.
Inoltre, c’è la responsabilità verso il gran numero di siriani che oggi cercano asilo in Europa e in tutto il mondo sviluppato. Dobbiamo quantomeno mettere in atto l’appello della Convenzione sullo statuto dei rifugiati del 1951 a garantire asilo alle persone che fuggono dalle persecuzioni. I Paesi dell’Europa e del Nord America hanno la capacità e le risorse per concedere asilo a un numero di rifugiati siriani decisamente più alto di quello attuale. Di fatto, i richiedenti asilo siriani in Europa sono pochissimi rispetto a quelli presenti nei Paesi limitrofi alla Siria.
Quando, nell’autunno del 2015, l’allora primo ministro del Regno Unito, David Cameron, annunciò che il suo Paese avrebbe potuto concedere asilo a 20.000 siriani nei successivi 5 anni, gli fu ricordato che il Libano aveva accolto altrettanti siriani nei soli due ultimi weekend. I Paesi in via di sviluppo oggi ospitano l’84% dei rifugiati di tutto il mondo, e i Paesi più poveri danno asilo al 25% del loro totale[20].
Oggi un’esigenza prioritaria è quella di incrementare in modo sostanziale i fondi che il Nord del mondo stanzia per i Paesi confinanti con la Siria. Per raggiungere questo obiettivo, le nazioni ricche del Nord del mondo devono vincere la loro xenofobia a sfondo razziale o religioso e la falsa paura che i rifugiati potrebbero essere terroristi sotto mentite spoglie.
I recenti lavori di alcuni studiosi hanno dimostrato che l’attività di advocacy sugli standard etici può avere un impatto fortemente positivo in alcuni campi della politica internazionale contemporanea[21]. Per esempio, nel secolo scorso le norme del diritto internazionale sulla protezione dei rifugiati e la legislazione sui conflitti armati sono state il risultato di attività di advocacy in materia normativa da parte di organizzazioni come il Comitato internazionale della Croce Rossa. Più di recente, alcuni «imprenditori normativi» hanno proposto che i leader politici vengano considerati responsabili delle violazioni delle normative davanti a diversi tribunali internazionali. Ciò suggerisce che gli standard etici potrebbero arrivare ad avere un impatto concreto sul comportamento delle nazioni.
La comunità cristiana ha il compito di far progredire questi sforzi. Papa Francesco ha ripetutamente richiamato la comunità cattolica e tutte le persone di buona volontà a unirsi in questa direzione. C’è la speranza che con la pressione normativa da parte di un gran numero di organismi non governativi, comprese le comunità religiose, in futuro si potranno compiere progressi nel vivere pienamente quelle responsabilità di cui oggi, come abbiamo qui indicato, ci facciamo carico in modo incompleto. Il compito è urgente, e altrettanto urgente dovrebbe essere la risposta.
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[1]. Ban Ki-moon, «Remarks on Forced Displacement: A Global Challenge», Speech at UN News Centre (in www.un.org/apps/news/infocus/sgspeeches/statments_full.asp?statID=2997#.V0DRKCMrIb1), Washington, D.C., 15 aprile 2016.
[2]. Cfr J. Carens, «Aliens and Citizens: The Case for Open Borders», in Review of Politics 49/2 (1987) 251-273; Ph. Marfleet, Refugees in a Global Era, New York, Palgrave Macmillan, 2006, 288-290.
[3]. Cfr Francesco, Discorso al «Moria refugee camp» di Lesbo (Grecia), 16 aprile 2016, in w2.vatican.va/; Id., Incontro con la cittadinanza e con la comunità cattolica. Memoria delle vittime delle migrazioni, 16 aprile 2016, ivi. Cfr anche A. Spadaro, «Roma e Costantinopoli si incontrano a Lesbo. L’ecumenismo delle frontiere», in Civ. Catt. 2016 II 237-248.
[4]. Giovanni XXIII, s., Enciclica Pacem in terris, n. 12, in w2.vatican.va
[5]. Ivi, n. 57.
[6]. Cfr M. C. Nussbaum, «Patriotism and Cosmopolitanism», in Id., For Love of Country, Boston, Beacon Press, 2002, 5. La Nussbaum in seguito ha cambiato la sua idea sull’importanza degli Stati-nazione.
[7]. Cfr Pio XI, Enciclica Quadragesimo anno, nn. 79-80, in w2.vatican.va
[8]. Cfr United Nations High Commissioner of Refugees, South Sudan emergency, in www.unhcr.org/en-us/south-sudan-emergency.html
[9] . Human Rights Watch, South Sudan’s New War: Abuses by Government and Opposition Forces (Human Rights Watch, 2014), 1, 82 e 83. Cfr anche Interim Report of the Panel of Experts on South Sudan established pursuant to Security Council resolution 2206 (2015), in www.southsudanhumanitarianproject.com/reports/docr-532
[10]. Cfr www.unhcr.org/en-us/south-sudan-emergency.html/; A. Rusatsi, «Il Sud Sudan. A sei anni dalla travagliata indipendenza», in Civ. Catt. 2017 IV 466-474.
[11]. Peraltro si tratta di un principio già noto alla teologia morale cattolica.
[12]. Cfr J. G. Simon – Ch. W. Powers – J. P. Gunnemann, The Ethical Investor: Universities and Corporate Responsibility, New Haven, Yale University Press, 1972, 22-25. Per una conoscenza di ciò che si è appreso successivamente sui fatti dell’omicidio, cfr N. Lemann, «A Call for Help: What the Kitty Genovese Story Really Means», in New Yorker, 10 marzo 2014, 73 ss.
[13]. Cfr United Nations High Commissioner of Refugees, Greater support in countries of first asylum needed to stem refugee outflows, in www.unhcr.org/55ddd2c86.html/, 26 agosto 2015.
[14]. Riguardo all’approvazione di R2P da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite, cfr 2005 Word Summit Outcome Document, nn. 138-139, in www.globalr2p.org/media/files/wsod_2005.pdf
[15]. Cfr The International Coalition for the Responsibility to Protect, The Crisis in Kenya, II. International Response to Halt the Spread of Violence, in www.responsibilitytoprotect.org/index.php/crises/crisis-in-kenya
[16]. Sull’azione delle Nazioni Unite riguardo alla Repubblica Centrafricana, cfr UN Security Council Resolution 2127 (2013), in www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=S/RES/2127(2013)&referer=http://www.un.org/en/sc/documents/resolutions/2013.shtml&Lang=E
[17]. Cfr UN Security Council, Resolution 1973 (2011), n. 4 e 6, in www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=S/RES/1973%282011%29
[18]. Cfr A. J. Kuperman, «Obama’s Libya Debacle: How a Well-Meaning Intervention Ended in Failure», in Foreign Affairs 94 (2015) 66-77.
[19]. Cfr G. Sale, «Il “martirio” di Aleppo», in Civ. Catt. 2017 I 34-45; Id., «La Turchia e le “enclave” curde in Siria», ivi 2018 I 476-490; Id., «La guerra in Siria», in questo stesso quaderno, 63-76.
[20]. United Nations High Commissioner of Refugees, Global Trends: Forced Displacement in 2016, 2, in www.unhcr.org/en-us/statistics/unhcrstats/5943e8a34/global-trends-forced-displacement-2016.html?query=Global%20Trends
[21]. Cfr M. Finnemore – K. Sikkink, «International Norm Dynamics and Political Change», in International Organization 52 (1998) 887-917.
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HUMANITARIAN CRISES AND REFUGEES. Religious perspectives and ethical principles
The first part of this article highlights certain resources present in the great religious and spiritual traditions of the world which can offer an answer to humanitarian crises and to today’s migrations. The second part proposes some ethical perspectives which are more politically oriented, yet also inspired by the social doctrine of the Church. Recently, some scholars have shown that advocacy on ethical standards can have a significantly positive impact in some fields of contemporary international politics. The Author is a professor at the School of Foreign Service of Georgetown University in Washington.