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L’arresto di padre Stan Swamy, i soprusi e il trattamento disumano che gli sono stati inflitti, e infine la morte in prigionia, avvenuta in India il 5 luglio 2021, rivelano alcune caratteristiche importanti della nostra fede[1]. Tra esse, l’apparente inermità e la totale vulnerabilità di un credente di fronte a certi ingranaggi della macchina statale e a forze che disprezzano i princìpi costituzionali e per le quali l’equità, la giustizia, la pace e, in definitiva, qualsiasi nobile principio della moralità civile non hanno alcun senso.
In simili circostanze, un credente, che basa la propria vita di fede su giustizia, pace, fraternità, libertà, perdono e riconciliazione e cerca di vivere in modo coerente con quanto professa, finisce per diventare un facile bersaglio di fanatici e di forze fondamentaliste che mirano a distruggere ogni traccia di diversità e di dissenso per imporre alla nazione una tirannia ideologica omogeneizzante quanto a cultura, religione, lingua e governo.
In questo articolo cercheremo di riflettere sulle dimensioni «vulnerabili» della fede nel contesto conflittuale contemporaneo. Ovviamente, non è sempre facile distinguere tra fede genuina e fanatismo fondamentalista (sadico e violento, o masochistico e non violento). Quindi le nostre riflessioni esulano da questo tipo di problematica. Spiegheremo anche per quali vie la vulnerabilità di un credente possa giungere a essere vista come la sua vera forza.
La fede implica un «credere in» e un «credere a»
Il «credere in» (fides quae) si definisce in riferimento all’assenso intellettuale e alla professione di un insieme di credenze. Il «credere a» (fides qua) consiste invece nell’orientamento personale e devoto a Dio. Sono due dimensioni essenziali della fede. Si può affermare che la seconda è più importante della prima, tuttavia anche la prima fa parte della fede che si professa.
Si possono trovare autentiche «ragioni» per credere soltanto se si abbracciano una relazione e un impegno di fede. Ciò che deve avvenire, quindi, è un vero e proprio «salto» di fede personale, che comporta un rischio e un aspetto di vulnerabilità. Man mano che si cresce nella fede, questa vulnerabilità probabilmente passa al livello inconscio. Ma a volte può emergere nella coscienza, anche nel caso di un fedele credente. Per esempio, può accadere che alcune dimensioni della fede di un credente siano messe in discussione da fattori quali prospettive e scoperte scientifiche, il dolore innocente, l’enormità del male nel mondo, le preghiere dei sofferenti che non hanno risposta ecc. In circostanze simili, il credente può rivelarsi esposto all’assalto di seri dubbi, e allora la fede con cui si rivolge a Dio (fides qua) potrebbe indebolirsi.
Il sapiente stolto contro lo stolto sapiente
La vulnerabilità implicata nel proprio impegno di fede emerge anche dal paradosso che i «sapienti» si dimostrano «stolti», e gli «stolti» si dimostrano «sapienti». Non rientra nel «normale» buonsenso che ci si metta tanto a rischio per questioni relative alla fede, ossia a qualcosa che non è realmente visibile né ovvio. Pertanto, chi va avanti su questa strada e si accolla pericoli del genere appare «stolto» agli occhi di chi non crede. Eppure i «sapienti» che operano le proprie scelte soltanto se esse assicurano un ritorno immediato e visibile, o coloro che perseguono una vita sicura e protetta in questo mondo si dimostrano i veri «stolti» (cfr Lc 12,20) per la loro incapacità di distinguere tra le cose passeggere e quelle durature. Per quanto i «sapienti stolti» si troveranno meglio alla fine, tuttavia nell’immediato presente essi sono esposti agli sbeffeggiamenti, alle critiche, e persino alla persecuzione.
Dopo il martirio di sei gesuiti, della loro cuoca e della figlia quindicenne di quest’ultima, avvenuto a El Salvador nel 1980, una donna semplice e incolta, che aveva capito il significato di quell’evento, esclamò durante una funzione commemorativa: «Non piangete la loro morte…, imitate la loro vita»[2]. Proprio perché la vulnerabilità è connessa alla fede, una vita sinceramente fondata sulla fede diventa testimonianza viva del Vangelo. Il cardinale Emmanuel Suhard, arcivescovo di Parigi durante l’occupazione nazista, aveva descritto l’esperienza di fede come un «vivere in modo tale che tutta la propria vita sarebbe inspiegabile se Dio non esistesse»[3]. In effetti, una fede che eviti qualsiasi rischio e vulnerabilità non può testimoniare il Vangelo.
La fede è un invito a riconoscere la forza nella debolezza
«Al centro della trama del piano redentore di Dio – dice Edmund Clowney – c’è il principio che il suo potere è reso perfetto nella debolezza»[4]. Nella Bibbia, questo principio paradossale risalta nella vita di alcuni personaggi, come il profeta Geremia, Paolo, Maria, alcune comunità (il Servo sofferente, che rappresenta Israele) e in Cristo stesso. Sebbene fosse stato scelto per essere lo strumento di Dio (cfr At 9,15), Paolo confessava ai Corinzi di soffrire a causa della spina che era stata messa nella sua carne dall’inviato di Satana (cfr 2 Cor 12,7). Trovava inoltre la propria forza nella debolezza che gli arrecavano oltraggi, difficoltà, persecuzioni e angosce, e forse anche nelle proprie debolezze spirituali. A questo in effetti potrebbero alludere «le debolezze» elencate in 2 Cor 12,10. Mentre sperimentava la propria vulnerabilità di fronte agli attacchi delle forze del male, sia fuori sia dentro di sé, l’Apostolo trovava forza nella fragilità, e addirittura se ne vantava, affinché la potenza di Cristo potesse risplendere dalla sua vita per testimoniare il suo Signore (cfr 2 Cor 12,9). Per Paolo era ben chiaro che Dio stava manifestando la propria forza nella sua debolezza, quando osservò che Dio rendeva perfetta la propria sapienza nella stoltezza della croce e che la potenza di Dio risplendeva nell’«impotenza» della croce (cfr 1 Cor 1,18–2,16). Proprio il fatto di testimoniare la fede nella nostra debolezza e vulnerabilità ci rende testimoni credibili.
Ovviamente la consapevolezza della propria indegnità o debolezza, da un lato, e l’assoluta impotenza di fronte all’enormità del male o alla preponderanza delle avverse situazioni esterne, dall’altro, possono rendere vulnerabili allo scoraggiamento. Ma i testi sopra citati mostrano chiaramente che proprio in tale vulnerabilità si manifestano il sostegno e la forza di Dio.
La vulnerabilità legata al non riuscire a praticare ciò che si professa
Chi non professa una fede o valori morali può concedersi il lusso di ritenersi «libero» da qualsiasi costrizione, compresa ogni potenziale critica al divario tra professare la fede e praticarla nella propria vita. Non è così per chi esercita la fede e la moralità che ne deriva. Proprio per questo egli diventa vulnerabile alle critiche quando, nella vita pratica, manifesta un’evidente carenza nei valori e nelle credenze che afferma. Il rimedio tuttavia non è rinunciare a proclamarli, ma scorgere in quella situazione un richiamo all’umiltà e a una maggiore fiducia in Dio.
Quella vulnerabilità, se viene accolta, in determinate circostanze può avere un grande valore di testimonianza. Per esempio, l’umile ammissione, fatta da papa Francesco, delle proprie imperfezioni e degli errori commessi dalla Chiesa cattolica in quanto istituzione ha accresciuto notevolmente il suo carisma personale. Invece, il lusso della «libertà» rivendicata da chi non afferma una fede potrebbe farlo cadere nella schiavitù delle sue pulsioni istintive.
«Sono forse il custode di mio fratello?». «Sì, lo sei!»
La fede implica la responsabilità della sensibilità sociale. Poiché «Dio è amore» (1 Gv 4,16), «chi non ama non ha conosciuto Dio» (1 Gv 4,8). Questa responsabilità può porre limiti alla propria «libertà». Dato che il più grande dei comandamenti riguarda l’amore, le esigenze della fede diventano esigenze di amore. Ce ne dà un bell’esempio il passo di 1 Cor 8,1-13: si può essere convinti, e a ragione, del fatto che mangiare la carne offerta agli idoli sia del tutto legittimo, e tuttavia Paolo, mosso dalla sollecitudine per i deboli nella fede, esorta i corinzi ad astenersi da quel cibo. I credenti non possono impedire ai loro sensi di percepire la realtà dolorosa che li circonda, e quindi non possono sottrarsi alla responsabilità di fare tutto il possibile per alleviarla. Si diventa vulnerabili a quelle richieste, perché si crede in Dio che è amore. È proprio l’impegno di fede verso un Dio pieno di amore, di compassione e di misericordia, un Dio di giustizia, che fa nascere un’irresistibile spinta interiore ad alzare la voce per protestare contro l’evidente sfruttamento dei deboli da parte dei forti, e a schierarsi con decisione dalla parte delle vittime dell’oppressione sistematica, anche a costo di terribili privazioni, di grandi sacrifici, di persecuzioni implacabili, e persino di una morte immeritata.
«Dov’è il tuo Dio?» (Sal 42,4.11). L’irrisione degli avversari
Possiamo riconoscere tale irrisione sotto molte forme nella storia di tutti i popoli. Per quanto la teodicea possa offrire un percorso filosofico-teologico per affrontare questo problema, la derisione di per sé non ha mai perso la sua posizione di vantaggio. Essa prospera sulla vulnerabilità del credente, che in alcune circostanze particolarmente difficili non riesce a sperimentare la presenza confortante e attiva di Dio. Lo scherno del carnefice sparge sale sulle ferite di chi è già maltrattato e malconcio, aggiungendo la beffa al danno. Giobbe ha affrontato con successo una situazione di questo tipo (cfr Gb 2,9-10). Anche Gesù sulla croce ha dovuto affrontare la derisione (cfr Mt 27,40-43). Entrambi l’hanno fatto per mezzo di un totale abbandono a Dio, senza soccombere miseramente a quelle provocazioni. Il loro è stato davvero un perfetto atto di fede.
In questo contesto, affiora una domanda: l’apparente silenzio di Dio nella sofferenza umana rivela la sua assenza, o piuttosto la sua profonda solidarietà con l’umanità sofferente? Il significato della crocifissione del Figlio di Dio punta verso la seconda alternativa. Il nostro naturale istinto di vendetta, punizione e rivalsa può far nascere in noi il desiderio che Dio in qualche modo possa prendere le nostre difese e intervenire, schiacciando i nostri oppressori. Ma, come ci dice Isaia, Dio non pensa come pensiamo noi e le sue vie non sono le nostre vie (cfr Is 55,8). Piuttosto, come ci ricorda Paolo, «tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). Questa è la lezione del Calvario. Lì il tremendo silenzio di Dio ha proclamato un messaggio inaudito, forte e chiaro circa il suo modo di agire, capovolgendo radicalmente l’evento quando coloro che avevano assaporato la sconfitta, l’oscurità e la desolazione del Venerdì santo hanno provato gioia, trionfo e speranza sovrabbondanti al mattino di Pasqua, mentre quanti avevano celebrato la loro vittoria il Venerdì santo sono risultati sonoramente sconfitti.
È sempre stato così nei 2000 anni della storia cristiana, si trattasse dei primi martiri romani, o dei martiri di epoche successive, o di quelli del nostro tempo, come sant’Oscar Romero, la beata Rani Maria, il missionario gesuita Anchanikal T. Thomas e altri ancora. Sarà così anche per la vicenda di padre Stan Swamy. Il vero credente persevera nella fede, nel fervore e nella fratellanza, «sperando contro ogni speranza» e mantenendosi coraggiosamente vulnerabile, lasciando a Dio qualsiasi rivalsa e l’ultima parola.
«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Sal 22,2)
Questa è l’estrema vulnerabilità che un essere umano possa mai provare: la sensazione di essere stato completamente abbandonato da Colui in cui «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28), da Colui che è sempre stato l’àncora assoluta della sua fede, la roccia su cui egli ha fondato la sua speranza, la fonte inesauribile della sua capacità di amare fino allo svuotamento di sé. Il nostro impegno per la fede potrebbe condurci fino al punto di un’angoscia così radicale. Ne abbiamo un esempio in persone, come santa Teresa di Calcutta, che hanno sofferto lunghi periodi di oscurità spirituale nonostante la loro vita santa[5].
A chi vive di fede non vengono date garanzie che l’esistenza sarà sempre piena di pace e di tranquillità. C’è solo la convinzione, la fiducia e la speranza che le promesse di Dio siano affidabili e che Dio alla fine farà in modo che portino frutto. La fede, alimentata da tale speranza, costituisce la «spina dorsale» della vita di un credente[6]. Pertanto, l’abbandono apparente può condurre a una maggiore speranza, a una fede più forte e a un amore più ardente. In un discorso dell’aprile del 1960, Martin Luther King illustrò questa realtà in modo vivo e intenso. Per questo lo vogliamo citare qui diffusamente: «Il mio impegno nella lotta per la libertà del mio popolo ha fatto sì che negli ultimi anni io abbia conosciuto pochissimi giorni tranquilli. Sono stato arrestato cinque volte e rinchiuso nelle carceri dell’Alabama. La mia casa ha subìto due attentati. Di rado una giornata si conclude senza che io e la mia famiglia riceviamo minacce di morte. Sono stato accoltellato in maniera quasi fatale. Quindi, è proprio vero, sono stato investito dalla tempesta della persecuzione. Devo ammettere che a volte mi è parso di non poter più sopportare un fardello così pesante e sono stato tentato di ritirarmi a una vita più tranquilla e serena. Ma ogni volta che si manifestava una tentazione del genere, qualcosa veniva a rafforzare e a sostenere la mia determinazione. Ormai ho imparato che il fardello del Maestro è leggero, proprio quando prendiamo il suo giogo su di noi.
Le prove personali che ho subìto mi hanno anche insegnato il valore della sofferenza immeritata. Presto, man mano che le mie sofferenze aumentavano, mi sono reso conto che alla mia situazione potevo rispondere in due modi: o reagendo con amarezza, oppure impegnandomi a trasformare la sofferenza in una forza creativa. Ho deciso di seguire questa seconda strada. Riconoscendo la necessità della sofferenza, ho cercato di farne una virtù. Se non altro per salvarmi dall’amarezza, ho cercato di scorgere nelle mie prove personali un’opportunità per trasformarmi e per prendermi cura delle persone coinvolte nella tragica situazione che si stava verificando. Ho vissuto questi ultimi anni nella convinzione che la sofferenza immeritata è redentrice.
Alcuni credono ancora che la croce sia un ostacolo, e altri la considerano una follia, ma io sono convinto più che mai che essa sia la potenza di Dio per la salvezza sociale e individuale. Quindi, come l’apostolo Paolo, ora posso dire umilmente, ma con orgoglio: “Porto nel mio corpo i segni del Signore Gesù”. I momenti dolorosi e strazianti che ho attraversato negli ultimi anni mi hanno avvicinato a Dio. Più che mai sono convinto della realtà di un Dio personale»[7].
Ovviamente non mancano esempi anche di persone che cedono alla disperazione. Non le giudichiamo. Ci sono alcuni che in condizioni difficili abbandonano la «via stretta» e scelgono quella larga. Cerchiamo di capire le loro difficoltà! Tuttavia, gli esempi di coloro che continuano a percorrere la «via stretta» a dispetto di tutto diventano modelli luminosi, da imitare. Padre Stan Swamy è stato uno di essi, uno di coloro che continuano ad arrancare tra le spine e le pietre della via stretta, indifesi di fronte alla continua persecuzione, alle orribili angherie, alle indicibili umiliazioni, alle false accuse, alla negazione di un giusto processo e infine alla morte del tutto immeritata in prigionia: una vera Via crucis.
L’interesse ultimo e le domande ultime
La fede opera ai livelli decisivi della nostra esistenza. Paul Tillich la definisce appunto «l’interesse ultimo». Possiamo essere d’accordo o meno con tale definizione, ma non possiamo negare il fatto che la fede ci coinvolge in maniera assoluta. La fede ha richiesto ad Abramo il suo «unico» figlio; la fiducia di Dio nell’umanità e il suo amore per noi gli hanno richiesto il suo Figlio «unigenito»; la fede ha richiesto a Maria il suo «unico» figlio; la fede ha richiesto a Paolo la rinuncia a tutti i suoi preziosi «guadagni» (cfr Fil 3,7-10), compresa la sua «unica retta fede» che aveva avuto fino ad allora: quella dei suoi padri.
I credenti sono vulnerabili a simili richieste della loro fede. Anche le realtà «uniche» vanno relativizzate, quando la fede lo richiede. Se non accogliamo le esigenze radicali della nostra fede, e quindi non sperimentiamo una «morte a noi stessi», possiamo dire sinceramente di avere fede? Oscar Romero, Madre Teresa, il Mahatma Gandhi e moltissimi altri uomini e donne straordinari nel corso del tempo hanno rinunciato alle loro carriere e si sono avventurati nelle periferie sconosciute, incerte e non abituali, e così ci hanno mostrato che cosa significhi credere, essere vulnerabili alle esigenze poste dalla fede, fino a dare la vita per coloro che sono l’oggetto del proprio amore. Padre Stan Swamy è solo l’ultimo di un lungo elenco di eroici, vulnerabili testimoni della fede.
La pietra scartata diventa la pietra d’angolo
Come era necessario che il Messia dovesse soffrire prima di entrare nella sua gloria (cfr Lc 24,26), e prima di ritornare come giudice del mondo, così un credente deve rimanere vulnerabile, sotto molti aspetti, nel cammino che lo conduce a diventare «pietra d’angolo». La proverbiale «pietra scartata» che diventa «pietra d’angolo» (cfr Mt 21,42; Mc 12,10; Lc 20,17; Ef 2,20) non è solo una pietra portante, ma anche un punto a partire dal quale si misurano tutte le distanze e gli angoli di un edificio. Pertanto è la «pietra prospettica», o anche la «pietra di paragone». In questo senso, una vita di fede si rivela un faro luminoso che indica la via a molti che camminano nelle tenebre, un araldo di speranza che infonde coraggio a chi ha paura, e una fonte d’amore per coloro che hanno lasciato raffreddare il loro primo amore di fronte alle esigenze che esso comporta.
Dai dubbi di fede ai dubbi basati sulla fede
Sebbene i dubbi di fede dei credenti manifestino la loro vulnerabilità, un impegno di fede fermo e irremovibile mette a sua volta in discussione tutto ciò che si oppone al Regno. In effetti, si tratta di un grande paradosso: la fede vulnerabile rende vulnerabile alla sua critica tutto ciò che è contrario al Regno. Il teologo francese Jacques Ellul ha affermato: «La fede è una sostanza terribilmente caustica, un acido bruciante. Mette alla prova ogni elemento della mia vita e della società, non risparmia niente. Mi porta inevitabilmente a mettere in discussione le mie certezze, tutta la mia moralità, le mie convinzioni e i miei comportamenti. Mi proibisce di attribuire un significato ultimo a qualsiasi espressione dell’attività umana»[8]. Sebbene i dubbi di fede costituiscano un’esperienza dolorosa per i credenti, i dubbi che essi stessi pongono – basati sulla fede e sulle azioni che ne derivano – li rendono profeti del loro tempo, e noi sappiamo, sia dalla storia sia dagli avvenimenti attuali, che ogni profeta è destinato a camminare come, con e per Cristo fino al Calvario, portando la croce, e a pagare lì il prezzo supremo per essersi impegnato nella vocazione profetica.
Creazione e incarnazione mostrano la vulnerabilità di Dio stesso
Forse non coglieremo mai questo mistero: Dio ha voluto essere, in Gesù di Nazaret, un essere umano vulnerabile piuttosto che un potente despota, anche per sconfiggere la potenza del Maligno. Sembra anche che, da parte di Dio, ci sia stata una vulnerabilità fondamentale al momento della creazione dell’essere umano: la vulnerabilità a essere rifiutato dalla sua stessa creatura razionale, dalla creatura fatta a sua immagine e somiglianza. La stessa fiducia che Dio ha in noi, dotandoci della nostra libertà e rispettandola anche quando ne abusiamo, non è esente da tale vulnerabilità.
In definitiva, è questa vulnerabilità divina che noi condividiamo quando ci assumiamo un radicale impegno di fede nei confronti di Dio e, per quanto ciò possa sorprendere, è proprio perché condividiamo tale vulnerabilità di Dio che essa alla fine verrà esaltata. Ecco perché riusciamo a credere di fronte a eventi che suscitano dubbi; perché possiamo ancora sperare di fronte a evidenti violazioni dei diritti umani che inducono alla disperazione; perché riusciamo a continuare ad amare anche quando tutto appare buio e desolato, privo di ogni luce di verità e giustizia.
La beatitudine dei vulnerabili
Contrariamente a quanto alcuni credono, le beatitudini evangeliche (cfr Mt 5,1-11) non sono norme morali cristiane, e neppure una sorta di princìpi etici transitori (da seguire fino all’avvento del regno di Dio), praticando i quali si può sperimentare il Regno. Esse invece sono il Vangelo stesso, la sua sintesi e la sua sostanza. Tuttavia, ciascuna di esse riflette un elevato livello di vulnerabilità, e proprio per questo non è facile accettarla come prassi praticabile. Eppure, poiché sono Vangelo, esse rappresentano un modo di vivere che è la conseguenza – e non la precondizione – dell’esperienza del Regno. Poco importa essere vulnerabili, una volta che si è sperimentato il Regno. Chi lo fa è davvero benedetto. Dobbiamo sperimentare il Regno prima di poterlo servire. La giustizia presuppone la fede. La giustizia per cui operiamo è quella del Vangelo, delle beatitudini, del Regno. Il credente che lavora, lotta, si sacrifica e persino muore per la giustizia è infiammato dallo zelo per il Regno, dallo spirito delle beatitudini, dall’ideale del Vangelo.
Occorre diffidare di una fede priva di vulnerabilità
Ogni essere umano cerca istintivamente di non rendersi vulnerabile. Ciò spiega il desiderio umano di potere, di influenza, di sicurezza fisica e via dicendo. Ma la vera fede a volte compie scelte di tipo opposto. Solo chi ha contemplato profondamente la vulnerabilità di Dio può trovare un senso nell’abbracciare una fede che esige dalla propria vita una simile dedizione. Paolo lo ha capito bene; perciò ha potuto affermare: «Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1 Cor 2,2). E ancora: «Noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Cor 1,23-24).
Che cosa può significare annunciare Cristo, e lui crocifisso, nella società di oggi? Che tipo di Cristo rappresentiamo effettivamente? Qual è il nostro atteggiamento verso i potenti? Di ammirazione? Di deferenza e di timore? Di lusinga e di adulazione? Di cercare disperatamente di conquistarne il favore? O invece, quello di un rispetto critico? Di un riguardo animato dal discernimento? Della libertà dei poveri? Del coraggio dei miti? Della passione del cercatore di giustizia? Dell’imparzialità del pacificatore? Della vulnerabilità del discepolo? In che modo viviamo la nostra vulnerabilità legata alla fede nelle nostre parrocchie, istituzioni e comunità?
Conclusione
Lo «svantaggio» dell’essere credenti, dunque, è una realtà paradossale: la fedeltà del credente, pur essendo vulnerabile di fronte agli attacchi, diventa essa stessa la norma che manifesta l’errore degli aggressori (cfr Gv 16,8-11). Infatti, la vera testimonianza del Vangelo avviene quando i credenti rifiutano di scendere a compromessi e vivono la loro vulnerabilità di credenti. Coloro che trafiggono vengono indotti a guardare a colui che hanno trafitto (cfr Gv 19,37). Possa la vulnerabilità vissuta per tanto tempo da Stan Swamy, e da molti altri che ancora soffrono, essere un faro di luce profetica per tutti noi, invitandoci a una conversione radicale al Vangelo di Gesù Cristo, a un impegno pieno per il Regno e a una lotta incessante per trasformare la società umana in una famiglia unica, di fratelli e sorelle, sotto la comune paternità di Dio, dove tutti gli emarginati, i defraudati e gli scartati trovano una nuova casa di fede, comunione e libertà, dove la mente è senza paura e si sta a testa alta!
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[1]. Cfr S. Alla, «L’arresto di Stan Swamy in India», in Civ. Catt. 2020 IV 349-355.
[2]. Citato in R. McAfee Brown, «The Vulnerable Posture of Faith», in The Living Pulpit, 2, 1992, 18.
[3]. Ivi.
[4]. E. P. Clowney, The Unfolding Mystery: Discovering Christ in the Old Testament, Phillipsburg, NJ, P & R Publishing, 2013, 84. Cfr J. Edwards, «Religious Affections», in J. E. Smith (ed.), The Works of Jonathan Edwards, New Haven, Yale University Press, 1959, 139 s.
[5]. Cfr Mother Teresa, Come be my Light: The Private Writings of the Saint of Calcutta, New York, Doubleday, 2007 (in it. Sii la mia luce. Gli scritti più intimi della «santa di Calcutta», Milano, Rizzoli, 2009).
[6]. R. McAfee Brown, «The Vulnerable Posture of Faith», cit., 18.
[7]. Cfr Martin Luther King, «Discorso del 27 aprile 1960», in Martin Luther King Jr., «Suffering and Faith», Research and Education Institute, Stanford (kinginstitute.stanford.edu/king-papers/documents/suffering-and-faith).
[8]. Citato in D. J. Hall, «Against religion: The case for faith», in The Christian Century 128 (2011) 33.