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Quando, nei primi anni Ottanta, i vescovi degli Stati Uniti iniziarono la stesura di The Challenge of Peace[1], la loro rivoluzionaria lettera pastorale sulle armi nucleari, Bill Spohn, gesuita ed esperto di etica, era nostro collega nel corpo docente della Jesuit School of Theology, a Berkeley. All’epoca, tutti i membri della facoltà dedicavano tempo a incontrare parrocchie e scuole in tutta la San Francisco Bay Area. Esponevamo i criteri che definivano la «guerra giusta», valutavamo la moralità della guerra nucleare e coordinavamo i dibattiti sulle bozze della lettera dei vescovi.
Negli incontri condotti da Bill Spohn ricorreva un’argomentazione che ci ha colpiti in modo particolare. Egli sosteneva che, nel loro esilio in Babilonia, gli israeliti avevano dovuto apprendere un nuovo modo di rivolgersi a Dio. Privati del loro tempio, lontani dalla Terra promessa, si chiedevano: «Come cantare i canti del Signore in terra straniera?» (Sal 137,4). Allo stesso modo, secondo lui, oggi gli americani e i cittadini degli altri Stati in possesso di armi nucleari dovrebbero domandarsi: «Come vivere senza che siano le armi nucleari a fare da ultimo baluardo della sicurezza nazionale e mondiale?».
Quasi quarant’anni dopo, non è diversa e meno decisiva la sfida di fronte alla quale si trovano oggi tutte le potenze nucleari. Come fare a vivere senza i loro arsenali nucleari? Come seguire il monito di Geremia a «cercare il benessere del paese» (Ger 29,7)? Come perseguire quel bene comune globale rappresentato da una pace positiva, non nucleare?
Gli specialisti in relazioni internazionali a volte si riferiscono con ironia a certe posizioni ideologiche, che definiscono «teologie», intendendo che i loro irremovibili sostenitori si comportano come se affermassero un dogma religioso. Negli ultimi settant’anni, al primo posto fra tali «dogmi secolari» si pone la teoria della deterrenza nucleare, ovvero la convinzione che la migliore difesa contro la minaccia di un attacco nucleare sia un’attendibile intimidazione basata sulla possibilità di rappresaglie. Sebbene dall’epoca della Guerra fredda a oggi il mondo sia profondamente cambiato, abbandonando sotto vari aspetti la logica della deterrenza nucleare, gli analisti militari, i politici e i diplomatici guardano ancora a quella dottrina come a un totem della sicurezza nazionale.
Bill Spohn sosteneva, come abbiamo detto, che gli statunitensi dell’epoca di Reagan, così come un tempo gli ebrei dell’esilio, avrebbero dovuto imparare un nuovo modo di pensare al dio laico della sicurezza nazionale. Gli eventi successivi, dopo il Vertice Reagan-Gorbaciov nel 1986 a Reykjavík, condussero le superpotenze a sottoscrivere e ad attuare nuovi trattati sul controllo delle armi, e questo forse ha indotto l’opinione pubblica a ritenere che la questione nucleare fosse ormai superata. Ma oggi, come se tutti noi ci risvegliassimo da un sogno, ci troviamo di fronte un mondo in cui il rischio di una catena di eventi incontrollabili si è fatto molto più vicino. Gli statunitensi, i loro alleati della Nato e i Paesi che si trovano sotto «l’ombrello nucleare degli Stati Uniti» – così come russi, cinesi, indiani, pakistani e altri popoli – hanno bisogno di imparare a vivere senza vedere nella «bomba» la loro salvaguardia contro la distruzione. La deterrenza è un dio fallace. Quella che era la relativa stabilità su cui contavano le due superpotenze negli anni Ottanta è stata rimpiazzata, quarant’anni dopo, da un mondo multipolare instabile, in cui la minaccia di una guerra nucleare è aumentata.
Quell’equilibrio tra superpotenze che allora rendeva plausibile la deterrenza nucleare oggi non c’è più. Inoltre, gli Stati non nucleari vengono fatti oggetto di intimidazioni e di soprusi da parte di quelli dotati di armi nucleari, si tratti dell’Ucraina rispetto alla Russia, o dell’Iran rispetto agli Stati Uniti[2]. Le reti terroristiche globali aggravano il pericolo all’estremo. Per le potenze mondiali è giunto il momento di voltare le spalle alla deterrenza come garante ultimo della sicurezza nazionale.
L’anno scorso, durante il suo viaggio in Giappone, papa Francesco ha condannato la deterrenza nuclere, definendola immorale. Alla folla che lo ascoltava nel Peace Memorial Park di Nagasaki ha detto: «Con convinzione desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche, come ho già detto due anni fa. Saremo giudicati su questo»[3].
Il possesso e la minaccia – entrambi condannati da papa Francesco – sono le due componenti principali della deterrenza. In The Challenge of Peace, nel 1983, i vescovi degli Stati Uniti, pur condannando i conflitti condotti con armi nucleari, tuttavia ammettevano che il possesso di simili armamenti potesse ancora giustificarsi esclusivamente a fini dissuasivi rispetto a un eventuale attacco nucleare. Poiché il Concilio Vaticano II aveva già condannato solennemente simili attacchi ad ampio raggio contro i territori e le loro popolazioni, i difensori morali della deterrenza sostenevano che bastasse «un centimetro di ambiguità» affinché un deterrente nucleare potesse considerarsi moralmente accettabile.
Eppure, l’ambiguità è un fondamento esile su cui poggiare la legittimità morale della minaccia di distruzione nucleare. Dopotutto, i vescovi condannavano le rappresaglie nucleari contro gli attacchi nucleari e approvavano le politiche No First Strike («Non sferrare il primo colpo») in vista di un equilibrio nucleare stabile. I moralisti cattolici accoglievano acriticamente la tesi dell’ambiguità, e la riduzione delle armi dopo il Vertice Reagan-Gorbaciov a Reykjavík, come pure la caduta della cortina di ferro (1989) e la dissoluzione dell’Unione Sovietica (1991), forse avevano ingenerato in tutti noi un miope compiacimento di fronte al venir meno del vecchio equilibrio strategico.
Finché è proseguita la riduzione delle armi nucleari, cioè fino ai primi anni del Duemila, l’idea di un deterrente morale condizionato è rimasta in qualche modo plausibile. Ma non appena il disarmo ha perso slancio con i velleitari trattati sulla riduzione e limitazione delle armi nucleari strategiche offensive degli anni 2003-10, la natura illusoria della «posizione ambiguista» sarebbe ormai dovuta risultare chiara agli osservatori attenti. In effetti, la Santa Sede l’ha notata. Nel 2013 l’arcivescovo Dominique Mamberti, allora ministro degli Esteri vaticano, affermò, alle Nazioni Unite, che i piani per la modernizzazione degli arsenali nucleari mettevano in discussione «la buona fede» degli Stati possessori di tali armi. E aggiunse che «l’ostacolo principale [al disarmo nucleare] è la persistente adesione alla dottrina della deterrenza nucleare»[4].
Sebbene le accademie militari e le scuole di guerra abbiano adottato The Challenge of Peace come lettura obbligatoria, molti strateghi nucleari non hanno mai considerato la deterrenza condizionata alla stregua di una dissuasione vera ed efficace. Secondo loro, la deterrenza richiede certezza. «Un centimetro di ambiguità» sull’uso delle armi nucleari non basta. Affinché la deterrenza sia reale, la minaccia del loro impiego dev’essere certa ed effettiva.
Inoltre, sebbene i vescovi abbiano stabilito che le armi nucleari si possano utilizzare esclusivamente per scoraggiare gli attacchi nucleari, gli indefessi negoziatori del controllo degli armamenti affermano che, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti, l’attenersi a un ricorso rigoroso alla deterrenza esclusivamente a fini di scoraggiamento probabilmente non è mai stato un presupposto politico attendibile. Di più: tutta una serie di Nuclear Posture Reviews (i Rapporti del Pentagono sulla strategia nucleare degli Stati Uniti) conferma che spesso l’uso delle armi nucleari veniva contemplato come una risposta a minacce non nucleari. Risulta improbabile, soprattutto negli ultimi due decenni, che una qualsiasi altra potenza nucleare abbia considerato le condizioni morali di The Challenge of Peace come un quadro restrittivo riguardo al proprio utilizzo delle armi nucleari.
Nel suo intervento del 2013, l’arcivescovo Mamberti dichiarò che «il re era nudo», sostenendo che «le dottrine militari basate sulle armi nucleari come strumento di sicurezza e di difesa di un gruppo elitario, in una esibizione di potere e supremazia, ritardano e mettono a repentaglio il processo di disarmo nucleare e di non proliferazione». E arrivò a questa conclusione: «Urge iniziare a lavorare su un approccio globale per offrire sicurezza senza affidarsi alla deterrenza nucleare»[5].
Un nuovo contesto strategico
La richiesta di una rinnovata attenzione sull’abolizione del nucleare si è concentrata in gran parte sui maggiori rischi conseguenti alla modernizzazione degli arsenali nucleari. Il drone sottomarino e il missile ipersonico, come pure altri nuovi sistemi balistici progettati per eludere il rilevamento e le contromisure esistenti, accrescono i rischi connessi all’uso preventivo delle armi nucleari, riducendo al minimo il pericolo di rappresaglia. Aumentano gli incentivi all’uso di armi nucleari, e quindi si rendono ancora più urgenti nuovi approcci al disarmo. Tra l’altro, un recente studio, integrando il «Movimento sulle conseguenze umanitarie» che si è sviluppato all’inizio di questo decennio, ha dimostrato che anche un conflitto nucleare in un’area limitata potrebbe tradursi in un inverno nucleare per l’intero Pianeta[6]. La complessità degli attuali contesti geostrategici aumenta le ragioni non soltanto per un allarme diffuso, ma anche per quella condanna morale della deterrenza nucleare che papa Francesco ha espresso negli ultimi due anni.
L’attuale regime di controllo degli armamenti e del disarmo, risalente alla Guerra fredda e soprattutto all’era Reagan-Gorbaciov, è allo sbando. Esso presupponeva un mondo bipolare, dominato dalla competizione fra superpotenze, e in seguito a un’intesa tra la Russia e gli Stati Uniti. Da qualche tempo, il numero delle potenze nucleari è salito a nove, e quattro di esse (Israele, India, Pakistan e Corea del Nord) non fanno parte del Trattato di non proliferazione (Tnp). Inoltre, gli Stati possessori di armi nucleari che fanno parte del Tnp (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia) nel corso degli ultimi due decenni per lo più hanno disatteso il loro impegno sul disarmo secondo l’articolo VI del Trattato. Questo prevedeva, da parte degli Stati firmatari, che «ciascuna Parte si impegna a concludere in buona fede trattative su misure efficaci per una prossima cessazione della corsa agli armamenti nucleari e per il disarmo nucleare, come pure per un trattato sul disarmo generale e completo sotto stretto ed efficace controllo internazionale»[7].
Nel contesto strategico inaugurato dalla tragedia dell’11 settembre 2001, la minaccia del terrorismo globale ha esasperato il pericolo, prospettando il timore che attori non statali, come al Qaeda e Isis, siano in grado di acquisire a loro volta armi nucleari. La rete di Abdul Qadeer Khan (il «padre» della prima bomba atomica pakistana) ha già sostenuto quelli che gli Stati Uniti hanno definito «Stati canaglia», come Libia, Siria e Corea del Nord, nell’intraprendere propri programmi nucleari. Dal momento del ritiro degli Stati Uniti dal Piano d’azione congiunto globale (Pacg), e dopo l’assassinio del generale Qasem Soleimani[8], la Repubblica islamica ha annunciato che riprenderà la produzione su vasta scala di uranio arricchito con un anticipo di cinque anni rispetto alla data stabilita dal Pacg. Se l’Iran avvierà la produzione di armi, probabilmente lo seguiranno a breve l’Arabia Saudita e altri Stati, come l’Egitto.
Inoltre, il vano tentativo del Presidente degli Stati Uniti e del leader della Corea del Nord di concordare secondo quali modalità sarebbe possibile avviare un processo di denuclearizzazione della penisola coreana, mentre entrambi i Paesi portano avanti lo sviluppo di nuovi sistemi d’arma, dimostra come sia difficile impedire a quelli che gli Usa definiscono «Stati canaglia» e ad altre nazioni bellicose di destabilizzare la sicurezza internazionale e di aumentare notevolmente il rischio di una guerra nucleare. La Corea del Nord ha fatto vedere come anche uno Stato impoverito possa riuscire a «passare al nucleare». Inoltre, in passato l’ardua impresa di sviluppare sistemi di missili balistici sembrava ridurre la minaccia di attacchi strategici da parte di «Stati polveriera» come la Corea del Nord; ma, elaborando sofisticate apparecchiature missilistiche, questo Paese ha dimostrato che gli ultimi arrivati potrebbero avere colmato lo svantaggio. Una dopo l’altra, tutte le barriere alla non proliferazione sono state scavalcate. La nuova corsa agli armamenti nucleari si prospetta incontrollata, in un contesto in cui sia gli Stati avanzati sia quelli che lo sono meno fanno a gara per costruire i propri arsenali nucleari.
Allo stesso tempo, sono stati abbandonati quegli schemi di controllo degli armamenti che erano retaggio della Guerra fredda e del periodo successivo; a sancirlo, in particolare, è stato il recedere degli Stati Uniti e della Russia dal Trattato Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty (Inf), che è stato annullato nell’agosto 2019. E mentre la Russia ha considerato la possibilità di prolungare il New Start prima della sua scadenza, fissata per il 2021, gli interlocutori dell’amministrazione statunitense hanno rifiutato di impegnarvisi, adducendo la scusa che il Trattato favorirebbe la Russia. In sostanza, si sono gravemente indeboliti sia l’apparato giuridico sia quello tecnico che finora in larga misura avevano protetto il mondo da un conflitto nucleare, e ciò accresce notevolmente l’urgenza di trovare un nuovo percorso per giungere all’eliminazione delle armi nucleari.
Tutti questi cambiamenti intervenuti nel quadro geostrategico hanno portato al sorgere di un nuovo clima morale riguardo alle armi nucleari. Ne fa parte un ridimensionamento dell’accettazione morale condizionale, in questo XXI secolo, della deterrenza nucleare che era stata formulata negli anni Ottanta.
Un nuovo contesto morale
Furono i pericoli connessi alla caotica situazione successiva all’11 settembre a convincere vari anziani politici americani, guidati dall’ex segretario di Stato George P. Shultz, a schierarsi nel 2005 in favore dell’abolizione degli armamenti nucleari come rimedio a una strategia di deterrenza che era stata messa a dura prova. Quei veterani politici – Shultz, Henry Kissinger, William Perry e Sam Nunn – si resero conto che nell’attuale quadro geostrategico non è più ragionevole riporre la propria fiducia nella deterrenza, con la vana speranza che essa garantisca la sicurezza e la stabilità internazionali. Come Kissinger ha detto ai suoi colleghi, «gli Stati Uniti non possono più sostenere che nessun altro possa incrementare o allestire propri arsenali nucleari finché noi stessi continuiamo a fare affidamento esclusivamente sulle armi nucleari»[9].
Per andare oltre la deterrenza, il «gruppo Shultz» proponeva misure concrete capaci di aprire la strada verso un mondo senza armi nucleari, nella convinzione che la cooperazione, tramite passi possibili a breve termine, avrebbe fatto capire alla gente che il Nuclear Zero rappresenta un obiettivo politico realizzabile. Secondo la Nuclear Threat Initiative, a cui quel gruppo di persone ha dato vita, i due terzi degli ex segretari di Stato, della difesa e dei consiglieri per la sicurezza nazionale degli Usa hanno sottoscritto la proposta, dimostrando che l’abolizione non è una politica per sprovveduti dilettanti, ma viene abbracciata da gran parte dell’establishment nucleare degli Stati Uniti[10].
Oltre al progetto Shultz, hanno contribuito ad avviare una nuova dinamica politica e giuridica favorevole all’abolizione come obiettivo di politica internazionale con il «Movimento sulle conseguenze umanitarie» (2013-15) e con il Trattato delle Nazioni Unite per la proibizione delle armi nucleari (2017). Entrambi hanno evidenziato l’ampliamento del divario tra gli Stati con armi nucleari e gli altri. Le loro differenze hanno portato a relazioni tese riguardo al Tnp, in cui le potenze nucleari si sono rifiutate di unirsi al consenso di maggioranza nella Conferenza di revisione del 2015 e a quello espresso dal PrepCon, il Comitato preparatorio del 2019 in vista della Conferenza di revisione del Tnp del 2020. Queste differenze, inoltre, hanno indotto le potenze nucleari a fare marcia indietro sugli impegni precedentemente assunti nel quadro del Tnp, come quello di favorire la creazione di una Nuclear Free Zone in Medio Oriente.
L’attuale clima geopolitico che circonda la politica nucleare è di progressivo allontanamento tra le potenze nucleari e i loro soci, da un lato, e gli Stati non nucleari, dall’altro, la maggior parte dei quali appartengono a Nuclear Weapons Free Zones. Il consenso sul Tnp è venuto meno. Dedicandosi al riarmo, gli Stati dotati di armi nucleari non rispettano più il proprio impegno al disarmo e fanno favoritismi, lasciando impuniti alcuni proliferatori e penalizzandone altri. Di conseguenza, il grande patto tra il resto del mondo e chi è dotato di armi nucleari è stato, a quanto pare, irrimediabilmente compromesso.
Alla base del nuovo contesto morale riguardo alla politica sulle armi nucleari ci sono due condizioni: 1) la perdita di fiducia negli Stati possessori di armi nucleari come interlocutori responsabili all’interno della comunità internazionale; 2) l’aperta sfida alle norme morali precedentemente sancite riguardo alla politica sulle armi nucleari, e in particolare a quelle relative alla deterrenza nucleare. Ad esse si aggiunge una maggiore consapevolezza delle conseguenze umanitarie delle armi nucleari. La Chiesa, ovviamente, ha ulteriori motivi per contrastare le armi nucleari: in particolare, il grande costo che comportano in termini di perdita di risorse necessarie per il benessere generale e per risollevare le condizioni dei poveri[11].
Su questo sfondo va letta la ripetuta condanna di papa Francesco alle armi nucleari. Si tratta di un giudizio di riprovazione nei confronti di un sistema di difesa nazionale e di alleanze che ha dissipato la sua legittimità morale e che in un ambiente geostrategico molto instabile presenta un elevato rischio per il futuro del Pianeta[12].
Non c’è etica provvisoria che possa giustificare moralmente l’odierna mancanza di regole sul nucleare. L’abolizione, di conseguenza, non è più soltanto un obiettivo politico auspicabile, ma è diventata una necessità morale. La condanna, espressa da papa Francesco a Hiroshima, alla deterrenza nucleare – in cui sono incluse le armi nucleari, «la minaccia del loro uso, nonché il loro stesso possesso» – è una solenne affermazione di quella innegabile esigenza morale. Le giustificazioni etiche di ogni singolo passo verso il disarmo vanno giudicate in primo luogo alla luce del loro contributo all’eliminazione delle armi nucleari.
Il Trattato per la proibizione delle armi nucleari, per quanto imperfetto, è un quadro importante entro cui può essere collocata l’abolizione. Le sue limitate disposizioni circa il disarmo e le relative verifiche devono essere rafforzate, tramite modifiche o aggiunte di trattati supplementari, ma il trattato in sé delinea i contorni di un nuovo mondo privo di armi nucleari.
Gli statisti americani avevano oltrepassato il confine fra la deterrenza e l’abolizione grazie a un discorso di Max Kampelman, già negoziatore di Reagan sugli armamenti, il cui intervento su «The Power of “The Ought”» («Il potere del “dovere morale”») ha decretato il loro passaggio, dopo lunghe esitazioni, da custodi della deterrenza a fautori dell’abolizione[13]. Quanto alla Chiesa, il cambiamento fondamentale è avvenuto nel 1965, con il Concilio Vaticano II. La Costituzione pastorale Gaudium et spes (GS) ha condannato la guerra totale, le armi di distruzione di massa e la corsa agli armamenti nucleari come «una delle piaghe più gravi dell’umanità»[14].
Due decenni più tardi, con la Centesimus annus, Giovanni Paolo II lodò i manifestanti non violenti del 1989 per aver saputo discernere, attraverso la loro unione con le sofferenze di Cristo, «il sentiero spesso angusto tra la viltà che cede al male e la violenza che, illudendosi di combatterlo, lo aggrava» (una critica indiretta della guerra come strumento di giusta pace)[15].
Gli eventi degli ultimi vent’anni – in particolare le occasioni di disarmo perdute dopo la caduta del comunismo nel 1989 – fanno capire i pericoli che si nascondono nell’accordare spazio alla deterrenza nucleare. Perciò, in considerazione dell’aggravata situazione geostrategica, è opportuno riaccogliere con rinnovata convinzione l’invito del Concilio ad avvicinarci al tema della guerra nucleare e della deterrenza «con mentalità completamente nuova»[16].
In primo luogo, a qualsiasi livello, i cattolici devono fare pienamente propria la condanna della guerra totale pronunciata dal Vaticano II e comprendere che essa vale in particolare, ma non esclusivamente, per la guerra nucleare.
In secondo luogo, i cattolici, il grande pubblico, cioè quello degli uomini e delle donne di buona volontà, e in particolare gli studiosi della guerra giusta dovrebbero avvicinarsi con sospetto critico alle distinzioni che cercano di trovare scappatoie al divieto della guerra totale.
In terzo luogo, si richiede da parte di tutti un’onesta memoria storica dell’insufficienza dei precedenti sforzi per limitare lo sviluppo delle armi nucleari mediante accurate e specifiche restrizioni etiche.
In quarto luogo, la conseguenza di tale mentalità nuova comporta che si punti al Nuclear Zero come a uno sviluppo fattibile e, come hanno fatto l’ex segretario Shultz e la Nuclear Security Initiative, che si cerchino misure adeguate per avviare gli Stati dotati di armi nucleari sulla strada del Nuclear Zero[17].
In quinto luogo, tutte le persone coscienziose dovrebbero tener d’occhio i modi in cui la casistica contemporanea sulla «guerra giusta» potrebbe contribuire al passaggio verso l’abolizione.
Infine, non dovremmo mai perdere di vista l’obiettivo, che è l’eliminazione delle armi nucleari. A tal fine dovremmo vigilare, piuttosto che cullarci in un’accettazione acritica di qualsiasi condizione che non sia la completa abolizione come un risultato stabile.
In breve, è giunto il momento, come sosteneva Bill Spohn, di imparare a vivere senza armi nucleari, di abbandonare il mito della deterrenza nucleare e di valutare la sicurezza internazionale in modi nuovi e coerenti con il messaggio della Chiesa di una pace positiva.
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ABANDONING THE MYTH OF NUCLEAR DETERRENCE
Pope Francis’ condemnation of nuclear weapons should be seen in the light of changes in the geostrategic context and ethical climate surrounding nuclear weapons policy. Today’s geostrategic and technical environment is much more complex, unstable, and less bound by arms control agreements than it was in the 1980s. The nuclear weaponized nations’ moral environment is undermined by two factors: the loss of confidence by non-nuclear states in their commitment to disarm, and their open challenge to the conditional moral acceptance of deterrence that was formulated more than thirty years ago.
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[1]. Il testo completo è stato tradotto e pubblicato da Aggiornamenti Sociali, con il titolo «La sfida della pace: la promessa di Dio e la nostra risposta», nei nn. 7-8 e 9-10 del 1983. Su questo tema, cfr anche D. Christiansen, «Il “no” della Chiesa alle armi nucleari. Implicazioni morali e pastorali», in Civ. Catt. 2018 I 544-557; Id., «È tempo di abolizione delle armi nucleari», ivi 2019 IV 156-162.
[2]. Sulla disuguaglianza indotta dalle armi nucleari nel sistema mondiale, cfr Nuclear Disarmament: Time for Abolition, il contributo della Santa Sede alla Conferenza di Vienna del 2014 sull’impatto umanitario delle armi nucleari (www.fciv.org/downloads/Holy%20See%20Contribution-Vienna-8-DEC-2014.pdf).
[3]. Francesco, Discorso nell’Incontro per la pace, Hiroshima, 24 novembre 2019.
[4]. D. Mamberti, Intervento all’Incontro di alto livello dell’ Assemblea generale delle Nazioni Unite sul disarmo nucleare, 26 settembre 2013.
[5]. Ivi.
[6]. International Physicians for the Prevention of Nuclear War, «Nuclear Famine: Two Billion at Risk».
[7]. «Trattato di non proliferazione nucleare», 1 luglio 1968 (https://www.isprambiente.gov.it/files/temi/trattato-non-proliferazione.pdf).
[8]. Cfr G. Sale, «L’uccisione del generale Soleimani e lo scontro tra Usa e Iran», in Civ. Catt. 2020 I 249-262.
[9] . P. Taubman, The Partnership: Five Cold Warriors and Their Quest to Ban the Bomb, New York, HarperCollins, 2012
[10]. Cfr Nuclear Threat Initiative, «Nuclear Security Project: Working Toward a World without Nuclear Weapons».
[11]. Sulla preoccupazione della Chiesa per il costo delle armi nucleari a scapito dei poveri, cfr Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, n. 81; Giovanni Paolo II, s., Discorso alle Nazioni Unite, 7 giugno 1982; Francesco, Discorso ai partecipanti al Convegno «Prospettive per un mondo libero dalle armi nucleari e per un disarmo integrale», 10 novembre 2017.
[12]. Sull’instabilità in una regione critica, cfr M. Krepon et Al., Deterrence Instability and Nuclear Weapons in South Asia, Washington, Stimson, 2015.
[13]. Sul consenso di Shultz al discorso di Kampelman, cfr il suo «The Power of the Ought», in Hoover Digest, 9 ottobre 2009.
[14]. Cfr GS 80-81.
[15]. Giovanni Paolo II, s., Centesimus annus. Nel centenario della «Rerum novarum», n. 25; il corsivo è nostro.
[16]. GS 80.
[17]. Sui passi che si possono fare verso l’obiettivo dell’abolizione, cfr S. D. Drell – J. E. Goodby, The Gravest Danger: Nuclear Weapons, Washington, Hoover, 2003; S. Lodgaard (ed.), Stable Nuclear Zero: The Vision and Its Implications for Disarmament Policy, New York, Routledge, 2017, 53-130.