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La dottrina della Chiesa è passata da un’accettazione condizionata della deterrenza nucleare, negli anni Ottanta, al rifiuto di essa come inaccettabile razionalizzazione morale per il riarmo nucleare, negli anni Duemila, e ultimamente a un forte sostegno al disarmo nucleare, che nel settembre del 2017 ha portato all’approvazione del trattato per la messa al bando delle armi nucleari. I cattolici hanno il diritto di chiedersi quale posizione debbano prendere.
A partire da questa convinzione, sarebbe ingenuo, da parte nostra, non segnalare una certa costernazione nelle persone che sono seriamente preoccupate della loro fede cattolica, ma non hanno ricevuto finora indicazioni più chiare su come affrontare i loro obblighi civili e professionali riguardo alle armi nucleari, alla luce dell’attuale dottrina della Chiesa, che condanna «il possesso e la minaccia di utilizzare armi nucleari».
I vescovi per lo più esitano a dare una risposta generale a questo problema, dimostrando così di esercitare il loro ufficio pastorale nel segno della prudenza, finché non avranno una maggiore chiarezza sulle problematiche coinvolte. Una simile esitazione non è senza precedenti: infatti, nelle passate generazioni papi, vescovi e concili consultavano spesso teologi e canonisti, e attendevano che questi risolvessero i problemi prima di pronunciarsi sulle questioni o di intervenire in una controversia.
Per offrire indicazioni morali più chiare i pastori della Chiesa hanno bisogno che si costituisca un consenso nella Chiesa, di attendere che esso prenda la forma di un giudizio accertato da parte dei teologi morali e dei vescovi e di una ferma convinzione di fede nel popolo di Dio. La risposta alla riflessione pluriennale e pubblica dei vescovi statunitensi, che si è tradotta nella redazione di The Challenge of Peace durante la prima presidenza Reagan (1981-85), dimostra che non soltanto un’effimera opinione pubblica, ma il più maturo giudizio pubblico può muoversi nella direzione dell’insegnamento della Chiesa là dove esiste un ampio e pieno impegno da parte dei fedeli.
Il percorso verso un consenso: il paradigma di Oakland
Se ci fermassimo a una considerazione puramente astratta di tali questioni, potremmo pensare che ci troviamo davanti a una situazione di stallo tra l’ideale morale e le pressanti realtà di un mondo armato di ordigni nucleari. Ma abbiamo un precedente storico a cui rifarci per vedere come le scelte degli scienziati possano cambiare con l’evolversi della dottrina della Chiesa: in questo caso, le scelte degli scienziati nel campo della fisica.
Dopo la pubblicazione di The Challenge of Peace, il vescovo di Oakland, John S. Cummins, promosse una serie di conferenze per affrontare le implicazioni della lettera per gli scienziati – cattolici e non cattolici – che operavano presso i laboratori Lawrence-Livermore della University of California, insieme ai teologi e agli esperti di etica della Graduate Theological Union di Berkeley. Insieme esaminarono le questioni poste dalla lettera.
Tali deliberazioni portarono a nuove scelte sia gli scienziati sia le loro istituzioni. Alcuni scienziati passarono dal progettare bombe al lavoro sulle tecniche di verifica. Aiutati dalle politiche energetiche impostate dalla precedente amministrazione Carter, altri scienziati e i loro laboratori spostarono la direzione della loro ricerca dalle armi nucleari allo sviluppo di energie alternative. Nell’attuale clima politico degli Stati Uniti, potrebbe non essere altrettanto facile cambiare i percorsi professionali e quelli politici. Tuttavia, i colloqui di Oakland si svolsero nei giorni non meno scoraggianti dell’amministrazione Reagan, e offrirono un modello pastorale ai vescovi e alle Conferenze episcopali per fare da coordinatori dei dibattiti morali e mettersi alla guida del discernimento morale per gli scienziati e per altri esperti nell’industria delle armi nucleari.
Formazione morale degli adulti. I colloqui di Oakland offrono anche un modello per la formazione morale degli adulti. Questi apprendono meglio quando si trovano in contesti di dialogo in cui viene chiamata in causa la loro esperienza, come accadde in quell’occasione. Inoltre, l’ampio dibattito pubblico sulle bozze di The Challenge of Peace ha portato a una conoscenza e accettazione dell’insegnamento episcopale più ampia di quanta ne avrebbe avuta se la lettera fosse stata emanata de caelo, basandosi unicamente sull’autorità dei vescovi, senza alcun coinvolgimento pubblico.
L’autorità morale della pastorale negli Stati Uniti, influente anche tra i militari statunitensi, fu dovuta in parte al modo aperto, invitante e fiducioso con cui i vescovi di allora impostarono quel documento prima di dargli la loro approvazione finale. Ci furono sessioni di ascolto in vari luoghi, e le successive stesure del documento pastorale vennero ampiamente distribuite ai media e discusse da persone all’interno e all’esterno della Chiesa. Di conseguenza, numerose circoscrizioni – anche quelle che inizialmente erano contrarie o critiche rispetto al progetto della lettera – alla fine accettarono tale dottrina, e la utilizzarono nel loro insegnamento e nella formazione professionale dei loro colleghi.
Comunità di discorso e discernimento morale. Il modello di Oakland offre anche l’occasione per riflettere sul discernimento morale collettivo nella Chiesa. Il Concilio Vaticano II ha affermato che «in ogni tempo è dovere della Chiesa scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo»[1]. Successivamente papa Paolo VI, e adesso papa Francesco, hanno parlato della responsabilità di tutta la Chiesa, e delle comunità all’interno di essa, di discernere i segni dei tempi[2]. Inoltre, data la diversità e complessità del mondo odierno, sia Paolo VI sia Francesco hanno confessato l’impossibilità, per il papa, di leggere da solo i segni dei tempi e, di conseguenza, la necessità che le diverse comunità intraprendano questo discernimento in comunione con i loro vescovi[3].
I colloqui di Oakland non furono, di per sé, espliciti esercizi di discernimento comunitario, sebbene molti scienziati abbiano fatto un reale discernimento in proposito sulla base di quegli incontri, ma per la Chiesa furono per lo meno un modello di «una comunità di discorso morale», un primo passo nel cammino del discernimento.
Maturazione del giudizio. Infine, il modello di discernimento insegnato da papa Paolo VI e da papa Francesco consente sia la maturazione del giudizio collettivo da parte dei fedeli, sia il suo graduale assorbimento nella Chiesa. Così l’insegnamento morale può sorgere, per dirla con le parole del cardinale Newman, come pastorum et fidelium conspiratio, come «una collaborazione tra vesovi e fedeli». Di conseguenza, la dottrina verrà più facilmente recepita come un’espressione autentica della fede della Chiesa. Tuttavia, come è stato previsto dal Concilio e proposto dai papi Paolo VI e Francesco, il discernimento comunitario presuppone comunità di fede non passive, ma impegnate e attive.
La dottrina recente della Chiesa
I primi sforzi del magistero della Chiesa per definire le responsabilità degli scienziati riguardo alla deterrenza nucleare sono stati di ordine generale. Essi ci forniscono una direzione, ma non indicazioni specifiche, né un metodo per individuare le responsabilità dei lavoratori della conoscenza.
La crisi missilistica di Cuba spinse papa Giovanni XXIII a scrivere l’enciclica Pacem in terris; ma in quei primi anni di emancipazione cattolica dal «Lungo XIX secolo»[4], il Papa concentrò la sua attenzione principalmente sulla necessità che i laici fossero competenti sotto il profilo scientifico e prendessero parte agli affari pubblici[5]. Egli si pronunciò contro una doppia cultura, una mentalità che acconsentisse a separare la vita di fede dalle competenze scientifiche e tecniche, e richiese invece che «gli esseri umani, nell’interiorità di se stessi, vivano il loro operare a contenuto temporale come una sintesi di elementi scientifico-tecnico-professionali e di valori spirituali»[6].
Nelle sue riflessioni sul potere distruttivo delle armi moderne, il Concilio Vaticano II ha semplicemente esortato le autorità di governo e i capi militari a «valutare continuamente una così grande responsabilità davanti a Dio e davanti all’intera umanità»[7].
I vescovi statunitensi, sottolineando il ruolo della scienza nell’aggravarsi dei problemi dell’era nucleare, nella loro lettera pastorale del maggio 1983 hanno sollecitato il coinvolgimento degli scienziati nella soluzione di tali problemi. «Una dedizione equivalente degli intelletti scientifici – scrivevano i vescovi – a invertire le tendenze attuali e a perseguire concetti altrettanto audaci e avventurosi in favore della pace quanto quelli che in passato hanno esaltato i rischi della guerra, potrebbe arrecare straordinari benefici a tutta l’umanità»[8].
Dieci anni dopo, in The Harvest of Justice Is Sown in Peace, i vescovi statunitensi esortavano i cattolici a rinnovare il loro collettivo «no anche all’idea di una guerra nucleare»[9]. Ma non offrivano alcuna esplicita indicazione morale a chi si dedicava alla ricerca e alle analisi strategiche nel campo delle armi nucleari.
Nemmeno un importante studio dei teologi morali John Finnis, Germain Grisez e Joseph Boyle – che presentava una casistica dettagliata delle responsabilità dei diversi attori nell’arena nucleare – offriva alcun consiglio agli scienziati, fossero essi fisici o teorici nucleari. Venivano affrontate le responsabilità dei legislatori, dei comandanti di sottomarini e di chi «premeva il bottone», ma non quelle di chi progettava o costruiva le bombe, o degli esperti di strategia. Per i cittadini in generale veniva affermato un preciso obbligo: «Assumere simili opportunità come loro primaria responsabilità permette di testimoniare il proprio distacco rispetto alla politica di deterrenza della loro nazione»[10].
Noi ora qui vorremmo affrontare, in modo preliminare, le responsabilità di una categoria più ampia di ricercatori, vale a dire gli analisti della «guerra giusta» – e tra questi, in particolare, i teologi morali –, riguardo alla dottrina della Chiesa sulla politica delle armi nucleari e sulla strategia della deterrenza.
Responsabilità degli analisti della «guerra giusta»
L’individuazione delle responsabilità degli analisti della «guerra giusta» dovrebbe essere effettuata in base ai loro ruoli e rapporti e, laddove esistono codici di deontologia professionale o normative legali, anche alle prescrizioni delle norme che disciplinano la loro professione. Le relazioni sono la categoria fondamentale, e per i nostri presenti e limitati scopi le relazioni più attinenti sono quelle degli analisti con la Chiesa e con la società civile. Con la Chiesa, perché essa rimane un agente primario, come ha scritto papa Francesco, «con i continui sforzi per limitare l’uso della forza attraverso le norme morali»[11]. Con la società civile, perché essa costituisce la piazza pubblica dove discutere sui nostri valori fondamentali e valutare come dovrebbero modellarsi le istituzioni della nostra vita associata.
Ora, seguendo la condanna pronunciata da papa Francesco nei confronti della minaccia dell’uso e del possesso di armi nucleari, vorremmo proporre 8 responsabilità per gli analisti della «guerra giusta» riguardo alla deterrenza nucleare.
1) Pace positiva. Per quanto riguarda la messa al bando delle armi nucleari, il compito generale, come ha sostenuto John Howard Yoder, è quello di rendere «credibile» l’analisi della «guerra giusta», inserendola nella più ampia tradizione cattolica sulla pace. In questo nuovo momento, la prima responsabilità degli analisti della «guerra giusta» è, a nostro parere, valutare la politica delle armi nucleari, e in particolare la deterrenza, nel contesto più ampio di un’etica di pace. Per gli studiosi cattolici della «guerra giusta» questo dovrebbe abbracciare non soltanto lo sviluppo della dottrina della Chiesa sulla nonviolenza, ma anche la piena dottrina sulla pace positiva, compresi i diritti umani, lo sviluppo integrale e la cura del creato[12].
Solamente quando inseriranno le piene implicazioni dei diritti umani, dello sviluppo integrale e della cura del creato nel loro pensiero sulle questioni della guerra e della pace, gli analisti potranno onestamente e con competenza affrontare i rischi e i costi del conflitto armato e di una diretta azione nonviolenta.
Ci sono due ragioni per inserire l’etica cattolica della pace nelle nostre analisi morali del conflitto. In primo luogo, si tende a prospettare l’idea della «guerra giusta» in una dimensione di crisi e di minaccia di pericolo. Gli studiosi della «guerra giusta» hanno invece bisogno di prendere in considerazione la crescente quantità di conoscenze e la pratica del processo di pace messa in atto sia da laici sia da religiosi.
Inoltre, l’identificazione, compiuta da sant’Agostino, della pace come la sostanza della retta intenzione in un conflitto non dovrebbe essere considerata una mera formalità, ma dev’essere pienamente aggiornata alla luce delle scienze sociali contemporanee, del diritto umanitario internazionale, della filosofia morale, della teologia e della dottrina della Chiesa.
2) Coinvolgere le diverse scuole di pensiero. La comunità degli studiosi della «guerra giusta», invero assai ampia, mostra al suo interno due diversi ordini di demarcazione. In primo luogo, c’è una linea che divide coloro che definiamo «studiosi permissivi della guerra giusta» – che tendono ad approvare qualsiasi pratica o politica militare – dagli altri che, intenti a prevenire e a limitare i conflitti armati, applicano la tradizione in modo più stringente. La seconda spaccatura divide gli studiosi della «guerra giusta», anche i più rigorosi, da quelli che si attengono alle tradizioni nonviolente e di pace giusta.
La credibilità del pensiero contemporaneo sulla «guerra giusta» sarebbe notevolmente accresciuta se, quantomeno, i suoi praticanti avvertissero il loro pubblico circa il loro schieramento in questi dibattiti. Ma la seconda responsabilità degli analisti della pace e della guerra dovrebbe essere quella di coinvolgere seriamente gli studiosi in tutti gli aspetti delle divisioni teoretiche: permissivi/rigorosi e guerra giusta/nonviolenza.
È necessario coinvolgere la scuola permissiva per evitare e, se è possibile, correggere gli abusi della tradizione della «guerra giusta» che portano a razionalizzare gli estremi del conflitto armato: una necessità straordinariamente grave nel caso delle armi nucleari. Coinvolgere l’avanguardia della scuola «nonviolenza/pace giusta» è doveroso, affinché l’analisi dei problemi della guerra e della pace sia informata dalle migliori conoscenze attuali sulle alternative alla forza armata e anche per stabilire che cosa conti per il successo in un determinato conflitto. Su quest’ultimo punto c’è stato un sempre maggiore chiarimento nella recente discussione sullo ius post bellum, cioè sulle norme della giustizia postbellica.
3) Mantenere la barriera. Gli strateghi nucleari parlano di barriera tra la guerra nucleare e quella convenzionale. Un problema ricorrente nell’etica nucleare è che, quando questa barriera viene tirata in ballo ripetutamente nel corso del tempo, finisce per apparire soltanto come un esercizio tra gli altri nella casistica bellica. Proprio come i progettisti di armi tentano di rendere più utilizzabili le armi nucleari, così alcuni esperti di etica nucleare cercano di individuare le particolari circostanze in cui, tutto sommato, potrebbe risultare ammissibile l’impiego di quelle armi. Ma questa deriva verso la normalità dev’essere contrastata. Nell’etica, così come nella strategia militare, la barriera va mantenuta.
Come papa Giovanni Paolo II e i vescovi degli Stati Uniti chiesero ai cristiani e alle persone di buona volontà «di dire “no” alla guerra nucleare»[13], così noi oggi dobbiamo dire «no» al possesso e allo sviluppo delle armi nucleari, come l’anno scorso ha fatto il Trattato delle Nazioni Unite per proibire le armi nucleari. La terza responsabilità degli studiosi della «guerra giusta» è quella di mantenere la barriera tra la casistica delle guerre armate convenzionali e quella della politica delle armi nucleari. Si deve trattare della guerra e dell’uso delle armi nucleari come di una classe di problemi completamente diversa, che richiede un grado eccezionale di cautela nella loro analisi. Dovremmo smettere di immaginare le armi nucleari come strumenti che possiamo gestire, ma vederle piuttosto come una maledizione da bandire. Alle armi nucleari dobbiamo pensare, come il Concilio Vaticano II ha detto a proposito della guerra moderna, «con mentalità completamente nuova»[14].
4) Riconoscere il cambiamento nell’opinione pubblica mondiale. La quarta responsabilità segue la terza: gli analisti odierni della «guerra giusta», soprattutto ma non esclusivamente quelli cattolici, hanno la responsabilità di integrare nella loro cultura di studiosi il rifiuto delle armi nucleari espresso dal Trattato per la proibizione delle armi nucleari, approvato l’anno scorso dalle Nazioni Unite[15]. Il Trattato vieta lo sviluppo, i test produttivi, la costruzione, l’acquisizione, il possesso o l’accumulo di armi nucleari o altri ordigni esplosivi nucleari[16].
Gli analisti devono tener conto di questo cambiamento nel diritto delle nazioni (ius gentium), come è stato rappresentato dalla maggioranza degli Stati membri delle Nazioni Unite (che ha autorizzato la conferenza a negoziare il trattato), dalle nazioni appartenenti alle zone libere dalle armi nucleari e dalle organizzazioni della società civile che sostengono l’abolizione nucleare, e respingere l’ulteriore legittimazione di strategie di difesa basate sulle armi nucleari come presunta eredità dei diritti preesistenti dei cosiddetti Stati P5 (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti) nell’ambito del Trattato di non proliferazione nucleare.
5) Trasmettere l’insegnamento «al livello ecclesiale e a quello parrocchiale». Gerald Schlabach ha scritto che la sfida per il cattolicesimo riguardo alla nonviolenza è quella di trasmettere la dottrina della Chiesa «al livello ecclesiale e a quello parrocchiale»[17]. Vorremmo adattare questa massima come quinta responsabilità dei teologi morali che ragionano sui problemi della pace e della guerra: i teologi morali cattolici che sono anche analisti della «guerra giusta» hanno la responsabilità – riguardo ai problemi morali globali, soprattutto sull’abolizione nucleare – di trasmettere la dottrina della Chiesa «al livello ecclesiale e a quello parrocchiale».
La Chiesa ha bisogno della loro competenza per colmare un enorme divario pastorale nella conoscenza e nella pratica della moderna dottrina sociale cattolica su tale argomento. I professori hanno diritto a conservare la loro autonomia, ma il senso di estraneità che talvolta affligge le relazioni tra i vescovi e l’accademia va superato per amore del bene comune globale. In questo nuovo momento, per il bene della Chiesa e per il futuro del pianeta, il magistero accademico e quello episcopale devono cooperare.
6) Un processo scientifico pratico. L’analisi della «guerra giusta» o, più esattamente, l’analisi morale dei problemi della pace e della guerra non è un’attività accademica distaccata e neutrale: è piuttosto un esercizio scientifico pratico, un contributo al dibattito ecclesiale e pubblico, che articola la pastorale e la politica pubblica come parti della nostra vita comune. Opera all’interno di un sistema sociale che definisce, applica e sostiene le norme e le politiche relative alla costruzione della pace e alla prevenzione e limitazione della guerra.
Nel novero dei suoi partecipanti rientrano non soltanto i filosofi, i teologi e i giuristi, i vescovi e i pastori, i confessori e i consiglieri pastorali, ma anche gli avvocati militari, le corti marziali, i sistemi di formazione militare e gli obiettori di coscienza. Pertanto, la sesta responsabilità degli analisti dei problemi della pace e della guerra è quella di partecipare e di contribuire a un dialogo pubblico che stabilisca, adatti, applichi e sostenga le norme sociali relative alla costruzione della pace e alla conduzione della guerra.
Oggi il carattere scientifico e giuridico della questione relativa alla «guerra giusta» esige dagli analisti il coinvolgimento nella critica della deterrenza nucleare e percorsi pionieristici verso una pace non nucleare. Gli analisti condividono responsabilità nella più ampia rete di studiosi e professionisti che insieme costruiscono le condizioni di pace e la difendono contro gli effetti distruttivi del conflitto violento e contro le tentazioni di una mentalità bellicosa. È da questo insieme di interazioni che emergeranno risposte più chiare, più dirette e più soddisfacenti ai dubbi e agli onesti interrogativi degli scienziati nucleari.
Ai nostri giorni, inoltre, i fori pubblici sono i luoghi principali in cui può essere costruita un’opinione pubblica per contrastare le politiche di deterrenza. Come i vescovi degli Stati Uniti hanno scritto in The Challenge of Peace, «soprattutto in una democrazia, l’opinione pubblica può acconsentire passivamente alle politiche e alle strategie, oppure può, attraverso una serie di misure, indicare i limiti oltre i quali un governo non dovrebbe procedere»[18].
Come negli anni Ottanta i vescovi statunitensi incoraggiavano la «resistenza» alla guerra nucleare, così oggi è necessario che i cattolici e le persone di buona volontà affermino la propria opposizione alla deterrenza nucleare come politica di difesa. Come hanno riconosciuto i vescovi degli Stati Uniti, i cittadini – costituiscono un pubblico fondamentale per l’analisi della «guerra giusta». Mentre i social media oggi avranno certamente un ruolo nella costruzione dell’opposizione alla deterrenza, i metodi del passato avranno ancora un ruolo significativo nel determinare un giudizio pubblico in relazione alla deterrenza, fornendo solide fondamenta intellettuali, politiche e religiose a tale giudizio. Nei processi dell’istruzione e deliberazione pubblica, gli studiosi della «guerra giusta» avranno senza dubbio un compito importante da svolgere.
Per secoli i teologi morali, i confessori e i direttori spirituali hanno avuto un ruolo significativo nella formazione della coscienza dei responsabili politici, dei leader militari e dei ministri coinvolti nelle politiche statali. I vescovi possono convocare i fedeli per il dialogo e il discernimento morale; dovrebbero esporre la dottrina sociale della Chiesa cattolica e predicarla, e possono esercitare in modo discrezionale la loro autorità disciplinare nei confronti di peccatori pubblici[19]. Anche il Concilio li ha invitati ad affrontare le grandi questioni pubbliche attuali e ha proposto l’istituzione di Conferenze episcopali affinché possano collaborare per il bene comune.
Studiosi della «guerra giusta», teologi e filosofi morali possono e dovrebbero aiutare i vescovi nel loro lavoro. Essi sono al servizio di una tradizione di saggezza morale, ma operano anche alle frontiere e nelle periferie della vita della Chiesa, dove quella tradizione incontra nuove sfide e terreni inesplorati. Papa Francesco ha invitato i teologi a partecipare a un dialogo con la scienza e ha raccomandato l’università come luogo di tale incontro[20].
7) Una casistica per coloro che lavorano nel sistema di deterrenza. In base alla condanna della deterrenza fatta da papa Francesco, è necessario che teologi e filosofi morali e studiosi del diritto umanitario internazionale discutano con militari professionisti, teorici della strategia, responsabili politici e altri professionisti, e con coloro che lavorano nel settore delle armi nucleari, le questioni morali che affrontano nel loro lavoro, e forniscano una guida alle persone attualmente incaricate della manutenzione e del funzionamento delle forze di deterrenza nucleare. La settima responsabilità degli studiosi della pace e della guerra è quella di sviluppare una casistica per quanti lavorano nel campo delle armi nucleari, per aiutarli a riflettere nel contesto dei conflitti e delle scelte etiche e morali che devono affrontare nell’esercizio delle loro responsabilità di ruolo all’interno del sistema nucleare.
Papa Giovanni Paolo II ci ha fornito una traccia per discernere queste responsabilità nell’enciclica Evangelium vitae[21]. Papa Francesco, nell’ Amoris laetitia, soprattutto nel capitolo ottavo («Accompagnare, discernere e integrare la fragilità»)[22], ha dato a sua volta ulteriori indicazioni su come esercitare questo ruolo pastorale.
Gli studiosi dovranno tener conto, per quanto riguarda il disarmo nucleare, della gravità dei doveri che incombono su coloro che ricoprono vari ruoli, compresi quelli che possono continuare a credere in coscienza che la deterrenza sia moralmente giustificata. Dovranno affrontare conflitti tra doveri e situazioni marginali che richiedono ulteriori chiarimenti.
8) Guida pastorale di coloro che lavorano nel sistema di deterrenza nucleare. Sebbene nei loro scritti accademici traccino vari livelli di complicità rispetto al comportamento illecito, i teologi moralisti, gli altri operatori pastorali e gli analisti della «guerra giusta» dovrebbero, nell’applicare queste idee, tener conto del principio pastorale di «gradualità» espresso da Giovanni Paolo II, vale a dire «una gradualità nell’esercizio prudenziale degli atti liberi in soggetti che non sono in condizione di comprendere, apprezzare o praticare pienamente le esigenze oggettive della legge»[23]. Questa attenzione è particolarmente necessaria verso chi dimostra di avere uno spirito impaziente di profezia o una mentalità esagerata e apocalittica nei riguardi della minaccia nucleare.
Inoltre, secondo l’insegnamento di papa Francesco, occorre prestare attenzione ad altri due princìpi: l’accompagnamento e il discernimento. La Chiesa ha il dovere di accompagnare chi affronta cambiamenti di carriera e sfide alla propria identità professionale in seguito al mutamento dello status morale della deterrenza nucleare nella dottrina sociale cattolica. Per gli studiosi, ciò può comportare un impegno diretto con gli specialisti del nucleare, in conversazioni volte a comprendere come soddisfare le esigenze dell’insegnamento della Chiesa, quando esse sono in conflitto con altre loro responsabilità in quanto professionisti, personale militare o semplici cittadini. Inoltre, anche per coloro che dissentono dall’insegnamento della Chiesa sulla deterrenza è necessario affermare l’opportunità di continuare a partecipare alla vita della Chiesa, come è stata espressa nel Sinodo sulla famiglia[24].
In particolare, il discernimento richiede che il processo decisionale tenga conto dell’intera vita spirituale di una persona[25]. Come ha fatto notare papa Francesco, «sono da evitare “giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione”»[26]. Un tale discernimento richiede anche una guida attenta riguardo al percorso spirituale complessivo della vita della persona: vanno valutati gli impegni personali di vita evangelica, lo sviluppo (o la perdita) delle virtù cristiane e le ispirazioni dello Spirito.
Come ha scritto papa Francesco nell’ Amoris laetitia riguardo alle coppie divorziate, «“compete alla Chiesa rivelare loro [in questo caso, le persone che lavorano nel campo nucleare] la divina pedagogia della grazia nella loro vita e aiutarle a raggiungere la pienezza del piano di Dio in loro”, sempre possibile con la forza dello Spirito Santo»[27]. Quindi, l’ottava raccomandazione è che gli operatori pastorali, nell’applicare la condanna della deterrenza nucleare ai casi dei lavoratori del settore, dovrebbero farlo con sensibilità pastorale verso le dinamiche spirituali nella vita concreta delle persone con cui operano.
Analogamente, gli studiosi, mentre dovranno lavorare con precisione concettuale e coerenza logica nell’elaborare la casistica dell’abolizione delle armi nucleari, dovranno essere consapevoli del fatto che oggi la loro casistica sarà applicata secondo una modalità pastorale, più simile alla direzione spirituale che a un vecchio modello giuridico di confessione basato sulla legge scritta.
Conclusione
In questo articolo abbiamo cercato di fornire un abbozzo preliminare delle responsabilità dei lavoratori della conoscenza nel campo nucleare, prendendo come punto di partenza alcune linee guida per gli analisti della «guerra giusta» – in particolare per i teologi morali –, con la consapevolezza che la pastorale e i requisiti accademici di esperti in altri settori, come gli analisti strategici o i progettisti di bombe, richiederanno opportune, e forse anche differenti, regole e aggiunte al modello che abbiamo presentato qui.
La nostra speranza è che gli studiosi lavorino – insieme con i vescovi e gli altri operatori pastorali – allo sviluppo di questo tipo di aiuto all’attuazione della dottrina della Chiesa sull’immoralità della deterrenza, espressa da papa Francesco il 10 novembre 2017. La Chiesa lavora al meglio quando i vescovi e i fedeli in tutti i settori possono, secondo le parole di Newman, «collaborare insieme» per articolare e mettere in atto il suo insegnamento su gravi questioni morali.
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[1]. Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, n. 4.
[2]. Cfr Paolo VI, Octogesima adveniens, n. 48; Francesco, Evangelii gaudium, n. 51.
[3]. Sull’inopportunità che sia il Papa a fornire una risposta universale di lettura dei segni dei tempi, cfr Paolo VI, Octogesima adveniens, n. 48; Francesco, Evangelii gaudium, n. 16. Tuttavia, nel caso della minaccia delle armi nucleari, l’importanza della lettura dei segni dei tempi da parte del Papa è molto evidente, perché si tratta di un problema globale relativo al bene comune universale, sul quale il giudizio del Papa in quanto pastore universale sarebbe particolarmente rilevante. Ma la responsabilità papale non esonera gli altri dal dovere di discernere lo stesso problema nel proprio contesto sociale. La responsabilità del discernimento morale appartiene a tutta la Chiesa.
[4]. Per l’applicazione dell’espressione «il Lungo XIX secolo» alla storia della Chiesa cattolica, cfr J. W. O’Malley, What Happened at Vatican II, Harvard (Ma), Harvard University Press, 2010, 53-92.
[5]. Cfr Giovanni XXIII, s., Pacem in terris, nn. 77-78 sulla competenza tecnica, e n. 76 sulla partecipazione alla vita pubblica.
[6]. Ivi, n. 78.
[7]. Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, n. 80.
[8]. Conferenza Nazionale dei Vescovi cattolici Usa, The Challenge of Peace: God’s Promise and Our Response, Washington, USCC, 1983, n. 320.
[9]. «The Harvest of Justice Is Sown in Peace: A Reflection on the Tenth Anniversary of “The Challenge of Peace”», in G. F. Powers et Al. (eds), Peacemaking: Moral and Policy Challenges for a New World, ivi, 1994, 333.
[10]. J. Finnis – G. Grisez – J. Boyle, Nuclear Deterrence, Morality and Realism, Oxford, Oxford University Press, 1987, 253.
[11]. Francesco, Messaggio per la celebrazione della 50a Giornata mondiale della pace 2017, «La nonviolenza: stile di una politica per la pace», n. 6.
[12]. Sulla nozione di «pace positiva», cfr Conferenza Nazionale dei Vescovi cattolici Usa, The Challenge of Peace…, cit., nn. 68-69.
[13]. Per il «no» alla guerra nucleare, cfr ivi, n. 132, 139-141.
[14]. Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, n. 80.
[15]. Sul rifiuto della deterrenza da parte della Chiesa, cfr J. Finnis – G. Grisez – J. Boyle, Nuclear Deterrence…, cit. Il numero identificativo Onu del testo approvato del trattato è A/CONF.229/2017/L.3/Rev.1.
[16]. Ivi.
[17]. Cfr G. W. Schlabach (a cura di), Just Policing, Not War: An Alternative Response to World Violence, Collegeville (Mn), Liturgical Press, 2007, 101.
[18]. Conferenza Nazionale dei Vescovi cattolici Usa, The Challenge of Peace…, cit., n. 140.
[19]. Cfr Concilio Ecumenico Vaticano II, Christus Dominus, n. 19.
[20]. Cfr Francesco, Evangelii gaudium, nn. 133-134.
[21]. Cfr Giovanni Paolo II, s., Evangelium vitae, nn. 68-77.
[22]. Francesco, Amoris laetitia, nn. 291-312.
[23]. Cfr Giovanni Paolo II, s., Familiaris consortio, n. 34; Francesco, Amoris laetitia, n. 295.
[24]. Cfr Francesco, Amoris laetitia, n. 299. Cfr A. Spadaro, «Intervista a papa Francesco», in Civ. Catt. 2013 III 461-464.
[25]. Sul discernimento, cfr Francesco, Amoris laetitia, nn. 296-300.
[26]. Ivi, n. 296.
[27]. Ivi, n. 297.
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THE «NO» OF THE CHURCH TO NUCLEAR WEAPONS. Moral and pastoral implications
The article seeks to provide a preliminary sketch of the responsibilities of knowledge workers in the nuclear field, taking as a starting point some guidelines for analysts of the «just war», especially for moral theologians. With the awareness that pastoral care and academic requirements of experts in other fields, such as strategic analysts or bomb designers, will require appropriate adjustments and additions to the model presented here. The hope is that scholars work, together with pastoral workers, to develop this kind of help to put the Church’s doctrine on the immorality of deterrence into practice.