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La figura narrativa del detective ha un’intrinseca componente filosofica. Egli cerca un colpevole, ma non lo trova, se non ne possiede già un identikit ideale, verso il quale far convergere gli indizi, le tracce, i segni del crimine. L’investigazione ha quindi una doppia direzione: verso chi si è macchiato di un reato e verso il contesto che ha alimentato la violenza. Lo scenario delittuoso offre uno spaccato sempre sorprendente della realtà umana. Ciò che il detective riteneva una colpa può rivelarsi una semplice pressione ambientale, il prodotto di una causalità fisica, il frutto di una natura innocente e crudele. D’altra parte, ciò che appariva una veniale trasgressione può rivelarsi il sintomo un’efferatezza tremenda, di una mostruosa aberrazione, di una premeditazione perversa. Infine, ciò che l’indagine espone mette a dura prova l’ingenua, primitiva visione del mondo: come ha potuto il male irrompere nella tranquilla routine di una pacifica cittadina? Che senso ha scovare un delinquente, se molti altri sono più o meno consapevolmente collusi con lui e preparano nuove nefandezze? Come credere ancora nella giustizia, e persino in un Dio buono, se gli attori maligni sembrano operare indisturbati?
La serie televisiva True Detective (Usa 2014, canale via cavo HBO, 3 stagioni, 24 episodi) ideata e sceneggiata da Nic Pizzolato, ha dato rappresentazione a questi dilemmi teorici, permeando regia, dialoghi, musica e fotografia di eloquenti riferimenti a importanti filosofi: Schopenhauer, Nietzsche, Benatar; e a scrittori di fama: Chambers, Canetti, Ligotti, Zapffe. La serie antologica, che a ogni stagione rinnova interpreti e trame, documenta lo stretto rapporto tra narrazione e trattato, tra simbolo e concetto, tra mito e logos.
Antonio Lucci è ricercatore presso il Forschungsinstitut für Philosophie di Hannover e ricostruisce nel sintetico volume, corredato di immagini, le visioni del mondo che i personaggi incarnano. Si tratta spesso di prospettive gnostiche, pessimistiche, antinataliste, secolariste, immanentiste, apocalittiche, frutto della frequentazione di un ambiente corrotto, perverso, violento, in cui le ferocie perpetrate verso bambini innocenti tolgono il respiro e soffocano il coraggio di chi lotta per il bene. L’autore ricostruisce la «filosofia del negativo», che soprattutto la prima serie di True Detective espone. Poco alla volta le indagini rivelano il significato rituale e l’orizzonte sacrificale che il misterioso killer e la sua «setta» portano all’azione. Non si tratta di una perversione meramente psicologica, ma di cerimoniali antropologici, un mix di «amore carnale, fantasie e pratiche vietate dalla società» (p. 19), in cui cadono le barriere tra uomo e animale, ci si immerge in una spirale extra-temporale (il «cerchio piatto») e ultramondana (per sfuggire alla linea biografica mortale e arrestare l’orrendo ripetersi della sofferenza), accrescendo la volontà di potenza attraverso la devozione pagana a divinità primigenie anteriori alla creazione.
In particolare, l’attore McConaughey, che interpreta Rust Cole, il disincantato detective attivo in Lousiana, offre un disegno memorabile di un investigatore «vero» (true), segnato da contraddizioni personali e da un superficiale razionalismo scientifico, ma comunque un eroe «umano», vicino ai deboli, paladino di una testarda etica minima, volta a «cercare un senso nelle paludi ontologiche di questo pianeta» (p. 124). Per Rust, tutti noi «siamo cose che si affannano nell’illusione di avere una coscienza»; siamo marionette di un teatro grottesco che cercano di adattarsi agli incubi quotidiani. Eppure, «agire è un obbligo morale, che ci porta a tentare di fare del nostro meglio al fine di minimizzare il dolore e l’orrore» (p. 50). «Una volta c’era solo oscurità. Adesso la luce sta vincendo» (p. 119).
ANTONIO LUCCI
True Detective. Una filosofia del negativo
Genova, Il nuovo Melangolo, 2019, 144, € 9,50.