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Sappiamo che i generi, come il talento, non muoiono mai, ma il rischio che John McPhee – wordsmith senza pari, maestro indiscusso del saggio narrativo, ricercatore ed esploratore eclettico e instancabile, mentore di due generazioni di scrittori prestigiosi – sia l’ultimo della sua specie è probabilmente un fatto incontestabile. Mutano i tempi e i gusti, crescono gli affanni editoriali, decrescono i lettori e la loro attenzione. Eppure, questo libretto coglie ancora nel segno e si colloca in un solco – quello di libri immaginati in una vita di scrittura, ma non pubblicati – il cui precedente più illustre è l’elenco compilato da George Steiner ne I libri che non ho scritto.
John McPhee nasce nel 1931 a Princeton, in New Jersey, la cittadina bucolica dove ha sempre vissuto e tuttora abita, sede di una famosa università. Questo primo volume è apparso nell’aprile 2021 sul New Yorker ed è accessibile in rete (www.newyorker.com/magazine/2020/01/13/tabula-rasa-volume-one).
Una passione per i progetti di fine vita, quella di McPhee, intrapresa a occhi aperti, ossia senza dubitare per un momento che, finché c’è scrittura, vale la pena distillare in narrazione la materia cruda del mondo, la sua idiosincratica fenomenologia: «I progetti geriatrici sono un modo come un altro per rimanere vecchi. Anche perché, quando non sei più vecchio, sei morto. Il progetto geriatrico di Mark Twain era la sua autobiografia, dettata con regolarità dai settant’anni in poi».
La prosa di McPhee è la definizione stessa di stile: asciutta ed elegante, gentilmente ironica, di una precisione impressionante e capace di conseguire il più limpido risultato espressivo; una scrittura libera da qualsiasi compiacimento dell’io narrante, una forma puramente al servizio della storia.
Tabula rasa racconta i progetti di scrittura a cui McPhee ha molto pensato, ma che non sono stati realizzati, nei suoi decenni di collaborazione con il New Yorker e con altri editori. Una produzione, quella dell’autore – più di 30 libri e centinaia di articoli e saggi – che spazia in un ampio scibile: lunghi servizi e diari di viaggio, come la serie sulla geologia americana o Coming into the Country (1977), la cronaca di un anno vissuto nella natura selvaggia dell’Alaska, o Tennis (1969), dedicato alla storica semifinale degli US Open del 1968 tra Arthur Ashe e Clark Graebner, che è una cronaca più esistenziale che sportiva.
L’autore seleziona un tema, non importa quanto marginale o distante da sé e dalla propria cultura e ambiente – come, ad esempio, la storia delle arance –, e ne fa esercizio di esplorazione profonda, una sorta di fascinazione tematica e una prossimità personale alla materia scelta per l’indagine e ai suoi protagonisti, spesso anonimi. Sempre con un rispetto per la nudità dei fatti, la somma delle parti, capace di esprimere bellezza e autenticità, non per intensificazione stilistica, ma per amore della verità. E in una sorta di chiusura del cerchio generazionale, McPhee rievoca un memorabile incontro di gioventù con il grande e prolifico drammaturgo e romanziere Thornton Wilder (1897-1975): «Era un vecchio con un progetto di catalogazione che gli avrebbe portato via almeno dodici anni. E così, da vero pivello, gli avevo chiesto: “Ma perché mai buttarsi in un’impresa del genere?”. Gli occhi di Wilder si erano come contratti. Ardevano. La faccia era stravolta dall’ira: “Giovanotto, non chieda mai perché qualcuno studia qualcosa”. A ottantotto anni capisco benissimo perché Wilder aveva deciso di dedicarsi a quelle 431 commedie: per allungarsi la vita. Leggerle e catalogarle significava avere qualcosa da fare, e fare, e fare. Sconfiggere la morte. Era un progetto pensato per non avere fine». Ars longa, vita brevis.
JOHN MCPHEE
Tabula rasa. Volume primo
Milano, Adelphi, 2021, 64, € 5,00.