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Una ricognizione storica
La temperanza si trova al quarto posto nella classificazione delle virtù cardinali. È ultima non per ordine di importanza, ma perché va a toccare la dimensione intima dell’essere umano, a differenza delle altre virtù che riguardano il bene comune. Ma proprio per questo è indispensabile per l’agire virtuoso, che ha come condizione la rettitudine della persona: «La prudenza guarda alla realtà concreta di tutti gli esseri; la giustizia regola i rapporti con altri; con la fortezza l’uomo, dimentico di se stesso, sacrifica beni e vita. La temperanza, invece, è ordinata all’uomo stesso […]. Temperanza significa: prendere di mira se stessi e la propria condizione, dirigere sguardo e volontà su noi stessi»[1]. La temperanza ha un carattere riflesso, ritorna sul soggetto e lo plasma, portando armonia interiore tra sensibilità, intelletto e volontà, consentendo alla persona di esprimere tutte le sue potenzialità.
Questa virtù era molto apprezzata nel mondo antico, come si può notare anche da una semplice ricognizione dei termini. La parola greca enkrateia viene dalla radice krat (potere, dominio, governo, autorità) unita a en (se stessi). La temperanza è la capacità di governare se stessi, di padroneggiare sensibilità e pensieri; è il punto di arrivo di un cammino di conoscenza e plasmazione di sé, l’ideale per eccellenza della filosofia antica – riscoperta recentemente soprattutto a opera di Michel Foucault e Pierre Hadot –, un ideale in seguito smarrito nel corso della modernità[2].
L’ambito specifico dell’enkrateia è la sensibilità (la facoltà chiamata concupiscibile, epithymētikon), tutto ciò che ha a che fare con la cura del corpo (sessualità, cibo, bevanda, attività, riposo), consentendo la sua integrazione con la parte razionale dell’anima. In quanto dominio di sé, la temperanza aiuta anche a padroneggiare l’aggressività – la facoltà chiamata «irascibile» –; perciò è indispensabile per l’azione e per ragionare in maniera lucida, non offuscata dalle passioni (cfr Pseudo-Platone, Definizioni, 412 b; Senofonte, Memorabili, II, 1, 1).
L’enkrateia diventa con Socrate una virtù centrale per l’etica e per il comportamento virtuoso, rendendo la persona degna di fiducia e capace di assumersi responsabilità (cfr Repubblica, III, 390 b); l’incontinente (akratēs), al contrario, essendo senza freni, è inaffidabile e pericoloso, incapace di portare a termine un incarico (cfr Senofonte, Symposium, 8, 27; Giuseppe Flavio, De Bello Iudaico, 1, 34).
Alla temperanza è dedicato il dialogo platonico Gorgia (492c-500c), tra Socrate e il «libertino» Callicle. Secondo il sofista, l’uomo esprime le sue capacità imponendosi sui deboli e dando libero corso ai sensi: in tal modo si dimostra capace di imporsi e quindi di governare. Temperare il desiderio è per lui qualcosa di risibile, proprio dell’uomo debole. Per Socrate, le cose stanno diversamente: è proprio l’intemperante a essere debole, incapace di controllo, ma soprattutto è un uomo infelice, perché non raggiunge mai il piacere che cerca disperatamente; è come una botte forata, impossibile da riempire. Il piacere inoltre non è sempre un ideale buono, richiede una disciplina dell’anima, una ascesi che renda l’uomo libero dalle passioni e capace di conseguire il bene nei suoi molteplici aspetti. Solo in tal caso si può provare un piacere autentico (cfr Gorgia, 492c-500c).
Aristotele tratta della temperanza nel VII libro dell’Etica Nicomachea. La persona continente obbedisce alle indicazioni della ragione e così padroneggia i propri desideri. La capacità di governare se stesso è ciò che distingue l’uomo dagli altri animali, per i quali non si può parlare di continenza o incontinenza. L’uomo invece può formulare giudizi sulla situazione concreta, che lo portano a compiere scelte buone o cattive (cfr Etica Nicomachea, 1147b 1-6).
Per Aristotele, questo è il problema di chi non riconosce l’intemperanza come un male: la sua valutazione si blocca sulla situazione puntuale, assolutizzandola (la cosiddetta «premessa minore» del sillogismo), senza metterla a confronto con ciò che è veramente bene (la «premessa maggiore»). In pratica, egli segue la sensibilità e disattende la ragione. Il che in qualche modo conferma quanto notava Socrate, che il male viene compiuto per un difetto di valutazione.
C’è però anche il caso dell’incontinente, il quale, a differenza dell’intemperante, riconosce il suo atto come cattivo, ma non ha la forza per contrastarlo. L’intemperante che persegue il male è come una città retta da leggi malvage; l’incontinente è una città con leggi buone, ma che non si possono eseguire. Ciò che manca in quest’ultimo caso non è la conoscenza, ma la prudenza, la capacità di ponderare con cura il da farsi senza precipitazione; chi difetta di temperanza è ancora un bambino, incapace di ascoltare la ragione e di dominarsi[3].
Per Aristotele, solo l’uomo saggio conosce il piacere autentico, frutto dell’armonia interiore tra ragione e desiderio, e il piacere rende la sua azione più incisiva (cfr Grande etica, 1206a 13).
Nella Stoa, l’enkrateia è la virtù che consente alla ragione di dominare il piacere astenendosene, diventando liberi da ogni condizionamento[4]. Cicerone traduce enkrateia con temperantia, che definisce come «la ferma e moderata padronanza della ragione sui desideri e le passioni e sulle sue altre sfrenate emozioni della mente» (De inventione, II, 164). Una definizione che, come si vedrà, coglie l’aspetto centrale della problematica: la valutazione della ragione e la sua capacità di intervenire in maniera moderata sulle passioni.
Nella Bibbia, il termine appare raramente: lo si trova nei libri sapienziali come potere di mettere un freno alle dissolutezze, specialmente sessuali (cfr Sir 18,30), ma non si può conseguire con gli sforzi umani, perché è un dono di Dio (cfr Sap 8,21).
Nel Nuovo Testamento, l’enkrateia è del tutto assente nei Vangeli. Compare in san Paolo con un significato sportivo: come l’atleta, se vuole vincere una gara, deve comportarsi da asceta, compiere delle rinunce per concentrarsi sull’impresa, così deve fare anche il discepolo per conseguire il premio (cfr 1 Cor 9,25); l’astinenza viene presentata anche come ideale di vita (cfr 1 Cor 7,9). L’enkrateia compare inoltre nell’elenco delle virtù, contrapposta alla sfrenatezza nei confronti del cibo, delle bevande e della sessualità (cfr Gal 5,23). Ha infine il significato di pazienza, padronanza nei confronti di sé, virtù indispensabile per il pastore, chiamato a governare la comunità (cfr Tt 1,8; 2 Pt 1,6).
Nel complesso, colpisce la scarsa presenza, nel Nuovo Testamento, di questo termine così rilevante per la filosofia greca. La prospettiva è infatti molto differente: non il dominio di sé, ma l’accoglienza della volontà salvifica di Dio, liberamente donata, è l’elemento centrale per l’uomo biblico. Il comportamento etico è la risposta a questo dono, che precede ogni iniziativa umana e la rende possibile[5].
I molteplici significati del termine
Interessante è anche il ventaglio di significati racchiusi nel termine «temperanza», che mostrano uno spettro estremamente ricco di possibili applicazioni alla vita ordinaria. «Temperare» rimanda all’atto di moderare, dare il giusto spazio, come il moderatore a una tavola rotonda ha il compito di dare la parola a ciascuno dei partecipanti, incoraggiando chi è riluttante e frenando chi tende a superare i limiti. In questo modo ognuno può portare il proprio contributo[6].
«Temperanza» rinvia anche al tempo, alla temperatura, al temperamento, termini impiegati per indicare la misura e l’umore, indispensabili per vivere bene. O anche al corretto intervento da compiersi su un prodotto grezzo: si tempera il vino (mescolandolo con la quantità giusta di acqua per renderlo bevibile), un metallo (perché abbia la giusta consistenza), una matita (perché possa essere appuntita e incisiva, in modo da far scrivere bene). Sono le condizioni per essere efficaci, equilibrati, profondi, capaci di agire bene. Azioni che rimandano a una «ascesi» – si deve togliere qualcosa perché il prodotto sia efficace, raggiungendo lo scopo per cui esso è fatto – e alle possibili applicazioni in ambito etico: la temperanza richiede un lavoro su di sé, faticoso ma necessario per la corretta integrazione dei vari aspetti della personalità, propri di un carattere stabile (ēthikē), soprattutto nel campo degli affetti.
La temperanza, si notava, comporta anche la capacità di frenarsi, indispensabile per la riflessione e il governo di sé, e per non essere succubi dell’impulso del momento.
Il contributo di san Tommaso
Per Tommaso, la temperanza ha il compito di regolare le passioni legate al tatto – grazie all’apporto della saggezza e al governo della volontà –, ordinandole al bene proprio dell’uomo: la capacità di amare, quello che egli chiama, riprendendo Agostino, ordo amoris, l’amore ordinato, indispensabile per la virtù e sua radice[7]. Tra le passioni oggetto della temperanza vengono menzionate in particolare quelle che mirano alla conservazione dell’individuo (mangiare, bere, vestire, cura di sé, denaro) e a quella della specie, l’unione tra l’uomo e la donna, raggiungendo il piacere proprio del bene conseguito[8].
Il trattato sulla temperanza evidenzia ancora una volta l’antropologia unitaria di Tommaso: sensibilità e intelletto collaborano strettamente a livello conoscitivo e pratico. Il tatto, per Tommaso, è indispensabile per l’intelligenza, anzi è il senso più appropriato per l’attività intellettuale[9]. D’altra parte, esso ha ovviamente un influsso rilevante sul corpo, nella sua dimensione di piacere e di sofferenza. Per questo la temperanza consente di vivere al meglio il primo e di padroneggiare la seconda, conferendo pace all’anima e dominio di sé[10].
Tommaso, nel suo trattato, riprende molti aspetti noti alla riflessione dei classici. Anzitutto, le analisi compiute da Aristotele nell’Etica Nicomachea circa il valore della sobrietà, castità e continenza, decisive per la padronanza di sé e la libertà interiore. L’Aquinate ne farà la base speculativa per parlare all’amore come agapē, come donazione di sé e partecipazione dell’amore di Dio. Tra gli autori pagani, figurano anche Seneca (soprattutto il De ira e il De clementia), Cicerone e Macrobio. Essi vengono integrati con il pensiero cristiano, in particolare con la Bibbia – soprattutto per precisare il significato delle singole questioni –, e gli autori cristiani, specialmente Agostino: l’intera opera del vescovo di Ippona è continuamente citata in queste pagine.
Questi molteplici filoni di pensiero vengono tuttavia rielaborati da Tommaso in modo del tutto originale, offrendo spunti significativi, che verranno ripresi in sede di psicologia dello sviluppo. Si consideri, per esempio, la ragione principale che viene invocata per mostrare la gravità dell’incontinenza: Tommaso entra in merito all’importanza che la madre e il padre, in tempi e modi differenti e complementari, rivestono per lo sviluppo del bambino[11].
Il ruolo del piacere
A differenza dello stoicismo, dell’etica puritana e del razionalismo, il piacere ha per Tommaso un valore importante per la bontà dell’atto. La sua assenza non viene considerata positivamente per la moralità dell’azione; gli anaffettivi, i flemmatici, i tiepidi, gli insensibili non possono essere considerati uomini virtuosi, perché mancano dell’energia per compiere il bene, indispensabile per la temperanza; essa infatti non è un’inclinazione spontanea, ma un atto deliberato che richiede il governo di sé[12].
L’importanza etica del piacere è legata al fatto che per Tommaso esso è un bene proprio dell’anima, che avverte quando ha raggiunto un bene oggettivo. Il piacere infatti è sfuggente, gratuito e paradossale, conseguenza indiretta del valore conseguito, mai fine in se stesso. Il suo carattere irriducibile alla sensibilità è mostrato dal fatto che, tutte le volte che lo si cerca come scopo dell’azione, non lo si raggiunge. Freud giungerà alla medesima conclusione in Al di là del principio del piacere: quando diventa fine a se stesso, il piacere muore. Una conclusione condivisa dalla ricerca psicologica successiva[13].
Il piacere, essendo proprio dell’anima, ha una dimensione intellettuale. Per questo il piacere virtuoso è superiore a quello vizioso, perché nel vizio il bene cercato era apparente. Il giusto ordinamento delle azioni presenta sempre una dimensione piacevole, sia che si tratti di un lavoro manuale, dello studio, dello sport, di una relazione o di un servizio al prossimo.
Tommaso distingue inoltre piacere da gioia: il primo è proprio dei sensi esterni, mentre la gioia (come la memoria e la fantasia) è legata ai sensi interni e alla volontà guidata dalla retta ragione. Una avvertenza preziosa, capace di rendere ragione di situazioni della vita non certamente piacevoli, ma che, misteriosamente, sono fonte di gioia, come nel caso dei martiri[14].
L’intemperanza e i suoi rimedi
Se la temperanza è una virtù dell’anima, anche la sua corruzione trova in quella sede le sue radici: la fantasia è il vero alimento della lussuria, che porta la ragione ad asservirsi alle passioni. Come si è visto nel corso della trattazione di questo vizio e dagli studi sulla dipendenza sessuale online, la lussuria è un disturbo della mente, una ricerca malata dell’Assoluto; la sua facoltà principe è l’immaginazione, non la sensibilità, che anzi pone resistenza alle sue fantasie perverse. E poiché l’immaginazione è potenzialmente infinita, non trova mai soddisfazione. In tal modo, la ricerca viziosa del piacere è anche la maniera con cui si punisce, fino a distruggersi[15].
La lussuria non è il vizio più grave, ma quello che degrada maggiormente l’uomo, imbruttendolo, spogliandolo della sua dignità, perché infetta la sua facoltà più alta, l’intelligenza. Indebolendo i freni inibitori, indispensabili per la riflessione, la valutazione e la decisione – che richiedono calma e ponderazione –, la persona diventa schiava del capriccio del momento: «Nei piaceri che sono oggetto dell’Intemperanza la luce della ragione, da cui dipende tutto lo Splendore e la Bellezza della virtù, viene oscurata al massimo. Cosicché questi piaceri si dicono sommamente da schiavi»[16]. Questa bruttezza dell’anima è stata espressa in forma letterariamente eloquente nel romanzo di Oscar Wilde Il ritratto di Dorian Gray.
Tommaso, in linea con Aristotele, nota che l’intemperanza è propria di chi è rimasto allo stadio infantile, concentrato sul piacere e incapace di affrontare la durezza della vita. La rabbia e la frustrazione che ne derivano impediscono di godere della propria vita e aprono la porta dell’anima a ulteriori vizi: ira, superbia, gola, ubriachezza, violenza sessuale.
La castità, cioè la capacità di vivere relazioni all’insegna del rispetto, del dono di sé e del non possesso, corregge questa tendenza, la modera, e consente di vivere un piacere autentico e integrato[17]. Castità e temperanza sono alleati potenti per vivere l’affettività come dono, e sono alla base di ogni possibile progetto di vita, così come il loro smarrimento ne preclude la strada. Non è un caso che la crisi del celibato e la crisi del matrimonio siano nate insieme, perché hanno alla loro radice questa comune carenza[18]. Henri Nouwen fa notare come il segreto della bellezza di una relazione consista propriamente nell’esercizio della castità come rinuncia vicendevole a possedersi, che consente l’emergere di uno spazio comune che nessuno può riempire – lo spazio proprio della vita spirituale – e che dà significato alla relazione. Proprio come gli spazi verdi di una città offrono ristoro e ricreano chi li frequenta: spazi «inutili», gratuiti, ma proprio per questo essenziali per la qualità della vita.
Coltivare la temperanza
Tommaso, riprendendo Agostino, nota che un grande aiuto per la temperanza è educare l’anima alla bellezza delle realtà spirituali: «Agostino afferma che “quando l’anima s’innalza e si fissa nelle cose spirituali, la forza dell’abitudine”, cioè della concupiscenza carnale, “si spezza, e un po’ per volta si smorza e si estingue. Se l’avessimo assecondata, sarebbe diventata più grande: col reprimerla non è annientata, ma è certo diventata più debole”»[19].
Tra gli aiuti per coltivare questa bellezza, sorprendentemente, Tommaso nomina il gioco. In esso infatti possono trovare espressione la relazione più alta, quella tra Dio e l’uomo, e il piacere più intenso, proprio della sapienza, capace di riempire il cuore, un piacere essenzialmente gratuito. Un gioco e un piacere che nascono dalla contemplazione della Sapienza, capace di ricreare l’uomo nella maniera più eccelsa. La temperanza cresce quando si coltiva in sé il desiderio di questa bellezza, porta di ingresso alla verità di se stessi, quando ci si riconosce parte di un disegno più grande[20].
E come il piacere si raggiunge in modo indiretto, lo stesso può dirsi per contrastare le tentazioni: concentrarsi su ciò che dà gusto allo spirito consente di superarle. Come nel racconto della presa di Gerico (cfr Gs 6,1-27), dove il popolo, invece di attaccare la città, è invitato a concentrarsi su altre cose, e a un certo punto, inaspettatamente, le mura crollano da sole. Questo testo ha profondi insegnamenti per la vita affettiva: non è saggio affrontare di petto gli ostacoli che si frappongono all’esercizio della castità. È invece molto più importante coltivare «ciò che dà gusto e sazia l’anima», per riprendere la celebre espressione di Ignazio negli Esercizi Spirituali (n. 2). Quando il cuore è pieno, la volontà si rafforza e le tentazioni perdono mordente[21].
L’evangelista Matteo conclude il brano delle tentazioni di Gesù con questa annotazione: «Il diavolo lo lasciò» (Mt 4,11: tote afiēsin auton): una espressione che ritorna in questo Vangelo soltanto un’altra volta, a proposito del battesimo di Gesù. Il Battista non vuole battezzare Gesù, pone delle obiezioni, ma, di fronte alla sua risolutezza, lo lascia fare: «Allora Giovanni acconsentì» (Mt 3,15: tote afiēsin auton). Due situazioni di resistenza alla missione ricevuta che giungono da prospettive antitetiche; ma entrambe, quando trovano una volontà risoluta, consapevole dell’importanza della missione ricevuta, cedono il passo e lasciano libero corso al cammino.
Una virtù svalutata
La modernità, sotto l’influsso del puritanesimo e dell’etica vittoriana, ha deformato il significato della temperanza, riducendola a regolamentazione dei comportamenti sessuali mediante norme e proibizioni, contrapponendosi al suo originario contesto di riferimento; il desiderio, gli affetti, il bene, la felicità, vengono anzi considerati con sospetto quali pericolosi nemici della virtù, intesa come mero dovere. La morale viene così a contrapporsi a ciò che dà gusto e gioia, proponendo un modello di vita castigata. Nietzsche avrà buon gioco a smascherare questa costruzione, mostrando come la persona «virtuosa» sia in realtà acida e risentita verso il mondo e guardi con invidia il dissoluto che ha rifiutato ogni norma[22].
Da qui anche l’inarrestabile crisi della morale nel corso dell’epoca moderna, fino al suo rifiuto. Non a caso al puritanesimo si contrappone, proprio nei medesimi anni, il movimento libertino, di cui de Sade è l’esponente più celebre e controverso. In esso si è invitati a liberarsi di ogni norma e proibizione, per dare libero corso alle fantasie più perverse, considerate espressioni di una vita pienamente vissuta. Una concezione molto condivisa e diffusa nella cultura odierna, dove i termini hanno finito per capovolgersi: la morale diventa sinonimo di condanna del desiderio e di una vita triste e spenta, e l’immoralità invece diventa espressione di felicità, frutto del piacere sfrenato. Un’analisi più attenta mostra però le disastrose conseguenze di questa impostazione di vita: «Un noto cantautore italiano cantava: “Voglio una vita spericolata, voglio una vita esagerata… voglio una vita che se ne frega di tutto, sì!”. Vivere pericolosamente: lo si diceva già agli inizi del secolo XX e molti anche allora usavano gridare chi se ne frega. La vicenda non pare sia finita molto bene. In effetti gli uomini d’oggi vengono abitualmente iperstimolati. Pubblicità e consumi sono i contrassegni delle società industriali avanzate. Ma è per la medesima ragione che gli uomini contemporanei spesso o talvolta si sentono delusi se non addirittura frustrati»[23].
Per Aristotele e Tommaso, passioni e felicità costituiscono al contrario i veri pilastri dell’edificio etico. In maniera analoga a quanto notato a proposito della giustizia, considerare una virtù sganciata dalle altre porta alla sua totale incomprensione.
«Se esiste l’amore, esiste Dio»
La temperanza è anche la virtù che più di ogni altra consente di fare esperienza di Dio. Il luogo per eccellenza del sacro è proprio la sessualità: si pensi all’importanza che essa riveste nella Bibbia e nella mistica per parlare della relazione tra Dio e l’uomo. L’essere «immagine e somiglianza di Dio» è il fondamento della dignità dell’uomo come persona, che lo pone su un piano qualitativamente differente rispetto a tutti gli altri esseri. Una dignità che si consegue solo nella relazione sessuata, nell’essere maschio e femmina (cfr Gen 1,27).
Allo stesso tempo, la sua svalutazione comporta una grave incapacità, da parte della cultura odierna, di parlare della dimensione misterica dell’essere umano. Come nota Christiane Singer: «La sessualità è sempre una manifestazione del sacro, di questo ingresso dell’uomo e della donna nella risonanza della creazione. Quando una società vuol separare l’uomo dalla sua trascendenza, non ha bisogno di attaccare i grandi edifici delle chiese o delle religioni, le basta degradare la relazione tra l’uomo e la donna»[24].
Un segno di questa crisi, a livello ecclesiale, si può ritrovare nella progressiva scomparsa dei simboli nuziali dalla professione religiosa, per concentrarsi piuttosto su aspetti più «funzionali», come il servizio, la ricerca, l’impegno sociale.
Per Tommaso, l’amore reca in sé il segno del divino in tre modi differenti: 1) a livello naturale, come risposta di ogni creatura alla voce del Creatore impressa con le sue leggi in tutte le cose («L’amor che move il sole e l’altre stelle», dice Dante in Paradiso, XXXIII, 145); 2) a livello sensibile, come passione, il motore alla base dell’agire (amor); 3) nella vita intellettuale (dilectio), frutto della valutazione e decisione. La caritas è la dilectio che ha Dio come suo oggetto proprio, ed è la perfezione dell’amore[25].
Ma a questo punto Tommaso aggiunge una precisazione decisiva: non si può con questo sostenere la superiorità della dilectio sull’amor. Quest’ultimo, infatti, proprio perché passionale, presenta una passività che può diventare docilità a lasciar operare Dio in sé; in tal modo l’uomo può essere reso partecipe della vita divina in una maniera superiore a quanto potrebbe conseguire con la dilectio: «L’uomo può tendere a Dio mediante l’amore, lasciandosi come attrarre passivamente da Dio stesso, meglio di come possa farlo sotto la guida della propria intelligenza, il che appartiene al concetto di dilezione, come si è visto. E per questo motivo l’amore è più divino della dilezione»[26]. In questa annotazione si mostra non soltanto la genialità di Tommaso, ma anche la sua grande valorizzazione delle passioni umane: l’uomo fa esperienza di Dio anzitutto a livello passionale, ogni volta che si innamora. Questa è una esperienza che egli può soltanto accogliere e che lo trasforma nell’intimo, lo divinizza. Nessun’altra esperienza potrebbe raggiungere un tale vertice.
Ogni amore è religioso, perché reca in sé l’impronta dell’Amore, e anela all’unione (re-ligo) con ciò che è perfetto: è tensione e nostalgia di pienezza e di eternità. Come notava Pascal, rovesciando l’affermazione di san Giovanni, «se esiste l’amore, esiste Dio».
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[1]. J. Pieper, La temperanza, Brescia, Morcelliana, 2001, 28 (corsivo nostro); cfr Sum. Theol. II-II, q. 141, aa. 7-8.
[2]. «La filosofia antica ha proposto all’umanità un’arte di vivere. Al contrario, la filosofia moderna appare innanzitutto come un costrutto teorico composto di proposizioni espresse in linguaggio tecnico e riservato ai soli specialisti» (P. Hadot, Philosophy as a Way of Life: Spiritual Exercises from Socrates to Foucault, New York, Wiley & Blackwell, 1995, 272). Cfr M. Foucault, La cura di sé. Storia della sessualità, vol. 3, Milano, Feltrinelli, 2014. Tuttavia, come emerge dalla ricerca di Simone D’Agostino (Esercizi spirituali e filosofia moderna, Pisa, Ets, 2017), questo tema ha continuato a essere presente nella filosofia moderna, almeno fino alla metà del XVII secolo.
[3]. Cfr Aristotele, Etica Nicomachea, 1147a 25-1152a 25. Cfr G. Cucci, «La prudenza. Una virtù scomparsa?», in Civ. Catt. 2021 III 11-22.
[4]. «L’enkrateia è la disposizione invalicabile di ciò che avviene secondo retta ragione, ossia la virtù suprema che ci rende capaci di astenerci da ciò da cui sembra essere difficilissimo astenersi» (Sesto Empirico, Contro i matematici, IX, 153).
[5]. Cfr W. Grundmann, «ἐγκράτεια», in G. Kittel – G. Friedrich (edd.), Grande Lessico del Nuovo Testamento, vol. III, Brescia, Paideia, 1967, 39-42; H. Goldstein, «ἐγκράτεια», in H. Balz – G. Schneider, Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, vol. 1, ivi, 1995, 1002 s.
[6]. Cfr L. Galli, Dal corpo alla persona. Il sesso come lo spiegherei ai miei figli, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2009, 19 s.
[7]. Cfr Sum. Theol. I-II, q. 55, a. 1, ad 4um; q. 62, a. 2, ad 3um.
[8]. Cfr Sum. Theol. II-II, q. 141, aa. 3-4; a. 4, ad 3um.
[9] . «Tra gli stessi uomini, hanno facoltà intellettive migliori quelli che sono anche dotati di un tatto migliore» (Sum. Theol. I, q. 76, a. 5; cfr De veritate, q. 2, a. 3, ob. 19; De anima, 2, 19).
[10]. Cfr Sum. Theol. III, q. 15, a. 6; II-II, q. 141, a. 2 ad 2um; a. 3.
[11]. «Per educare un uomo non si richiede soltanto la cura della madre, che deve allattarlo, ma ancora di più quella del padre, che deve istruirlo e difenderlo, e provvederlo di beni sia interni che esterni. Perciò è contro la natura dell’uomo l’unione sessuale occasionale, ed è invece necessaria l’unione dell’uomo con una determinata donna, con la quale egli deve convivere non per un certo tempo, ma a lungo, o anche per tutta la vita […]. Ora, questa scelta di una data donna prende il nome di matrimonio. Ed è per questo che si dice che esso è di diritto naturale […]. Siccome quindi la fornicazione è un’unione sessuale occasionale, avvenendo fuori del matrimonio, essa è contraria al bene della prole» (Sum. Theol. II-II, q. 154, a. 2; Summa contra Gentiles III, 122). Sull’importanza dei genitori nella psicologia dello sviluppo, cfr G. Cucci, «Il padre è chiamato a svolgere un ruolo decisivo nella vita di fede», in Civ. Catt. 2009 III 118-127; Id., «Il ruolo della madre nello sviluppo del bambino», ivi 2019 IV 334-347.
[12]. «La natura ha legato il piacere alle funzioni necessarie per la vita dell’uomo. Perciò l’ordine naturale richiede che l’uomo usi di codesti piaceri, quanto è necessario al benessere umano, sia per la conservazione dell’individuo che per la conservazione della specie. Perciò se uno si astenesse da questi piaceri al punto di trascurare ciò che è necessario per la conservazione della natura, commetterebbe peccato, violando così l’ordine naturale» (Sum. Theol. II-II, q. 142, a. 1; cfr q. 153, a. 2, ad 2um).
[13]. Cfr Sum. Theol. I-II, q. 2, a. 6; q. 4, a. 2. Viktor Frankl parla di «assuefazione del piacere» e di «caduta del desiderio», quando li si considera motivo esclusivo dell’azione (V. Frankl, Psychotherapy and Existentialism, New York, Simon & Schuster, 1967, 5). Lo stesso autore mostra, in uno studio più dettagliato, che chi cerca il piacere come fine in se stesso non lo trova mai (Id., The Will to Meaning, New York, Penguin Books, 1970, 31-49). Mihály Csíkszentmihályi collega il piacere a un’esperienza di coinvolgente impegno, dove non si avverte il trascorrere del tempo (la cosiddetta «Teoria del Flow»): cfr M. Csíkszentmihályi, «Play and Intrinsic Rewards», in Journal of Humanistic Psychology 15 (1975/3) 41-63.
[14]. Cfr Sum. Theol. I-II, q. 31, aa. 3-4; II-II, q. 141, a. 4, ad 3um; R. Cessario, Le virtù, Milano, Jaca Book, 1994, 194 s.
[15]. Cfr G. Cucci, «La lussuria, una ricerca malata dell’Assoluto», in Id., Il fascino del male. I vizi capitali, Roma, AdP, 2011, 280-313; Id., Dipendenza sessuale online, Milano, Àncora – La Civiltà Cattolica, 2015; Sum. Theol. II-II, q. 142, a. 2, ad 2um; q. 156, a. 1.
[16]. Sum. Theol. II-II, q. 142, a. 4; cfr qq. 148-158.
[17]. Cfr ivi, II-II, q. 151, a. 2, ad 2um; Aristotele, Etica Nicomachea, 1119b 1-15.
[18]. «Nel medesimo periodo in cui molti preti e molte persone religiose abbandonano la vita celibataria, vediamo molte coppie mettere in questione il valore del loro impegno reciproco […]. Difatti matrimonio e celibato sono due modi di vivere nella comunità cristiana che si sostengono l’un l’altro» (H. J. M. Nouwen, I clown di Dio, Brescia, Queriniana, 2002, 77 s).
[19]. Sum. Theol. II-II, q. 142, a. 2.
[20]. Cfr Tommaso d’Aquino, s., Expositio libri Boetii De ebdomadibus, I, 268a; Sum. Theol. II-II, q. 168, aa. 2-4.
[21]. Per un approfondimento, cfr G. Cucci, Il fascino del male…, cit., 300-313; Id., «Affrontare la piaga della pornografia “online”», in Civ. Catt. 2019 III 23-34.
[22]. Cfr J. Pieper, La luce delle virtù, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 1999, 33; F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Milano, Adelphi, 1977, nn. 29-30.
[23]. S. Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Milano, Feltrinelli, 1999, 122 s.
[24]. Ch. Singer, Del buon uso delle crisi, Sotto il Monte (Bg), Servitium, 2006, 47.
[25]. Cfr Sum. Theol. I-II, q. 26, aa. 1-3.
[26]. Sum. Theol. I-II, q. 26, a. 3, ad 4um; cfr R. Miner, Thomas Aquinas on the Passions: A Study of Summa Theologiae, 1a2ae 22-48, Cambridge, Cambridge University Press, 2009, 121.
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TEMPERANCE. The difficult art of loving
Temperance holds the fourth place in the classification of the cardinal virtues. It may be last of the virtues -but not in order of importance-, because it touches upon the intimate dimension of the human being, unlike the other virtues, which concern the common good. Nevertheless, for this very reason it is indispensable for virtuous action, which has as its condition the rectitude of the person and self-control. Even a simple recognition of terminology shows the great wealth of meaning of this virtue and the need for its presence in the most important areas of human life. In particular, it makes the capacity to love and the relationship with God possible.