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Riflessione perennemente presente nella vita umana, la ricerca sul senso della sofferenza può portare a dubitare di Dio e di un’evoluzione in senso positivo di un «progetto mondo». Da qui provengono disperazione, dubbio, rifiuto della vita, e persino fuga da essa. In questo libro gli AA., Vito Antonio Amodio, neuropsichiatra, ed Edmondo Cesarini, counselor, intendono indagare il possibile valore «educativo» del dolore, che, se viene accettato, compreso e valorizzato, può farci crescere fino alla piena realizzazione della nostra umanità.
Gli AA. constatano come la sofferenza disgreghi la personalità, distrugga le strutture cognitive ed emotive, renda impossibile la relazione, la condivisione sociale e affettiva, ci renda estranei a noi stessi e al mondo. Quindi cercano di individuarne le cause e gli ambiti: la sofferenza come finitudine, come sintomo, come incompiutezza e desiderio di compimento.
Confrontarsi con il dolore dell’anima fa emergere spesso tutta l’insufficienza degli strumenti delle discipline psicologiche, se non sono accompagnate dalla forza e dalla vitalità che sono proprie della «speranza».
Secondo gli AA., l’identità non completamente realizzata e vissuta è spesso la fonte delle maggiori sofferenze per le conseguenze psichiche alienanti che comporta. Non rispettare la verità del proprio Sé significa identificarsi con un sistema di strutture psichiche alienanti che, quando vanno in frantumi nei duri incontri-confronti-scontri della vita, generano sofferenza.
L’ermeneutica della sofferenza è strettamente connessa con il significato della propria esistenza. Alla domanda sul senso della vita non c’è una risposta valida per tutti, ma, «diversamente dal significato che si modifica di volta in volta col mutare delle circostanze, ciò che tuttavia rimane costante è la responsabilità […], il vero stato ontologico da cui origina l’esercizio della propria libertà». Si arriva così a una visione più allargata della sofferenza, che confluisce in un più ampio disegno di cura dell’umano, facendosi carico di chi è più vulnerabile.
La causa di un passo sbagliato, origine della sofferenza, può anche essere fatta risalire al biblico «voler essere come Dio», il peccato che secondo la Bibbia è all’origine dei mali dell’umanità. Ma un passato fallimentare può essere riscattato; i peccati, invece di alimentare inutili sensi di colpa, devono essere «superati e perdonati», per adempiere, come dice Teilhard de Chardin, «l’amabile dovere di crescere».
Centrale nel testo in questione è la virtù della speranza, che è capace di aprirsi al futuro. La sua importanza è stata riconosciuta anche in ambito clinico, sia dalla psichiatria sia dalla psicodinamica, ogni volta che l’Io si apre al Tu, all’altro, per farlo diventare oggetto di interesse e di cura. La speranza fa parte della relazione di cura: «Se la speranza diventa “stoffa” costituente della propria esistenza, ciascun uomo può diventare co-evolutore e co-protagonista» dell’incessante azione creatrice del Padre. Ogni uomo, «attraverso l’intreccio di rapporti causali (uno sguardo, un gesto, una parola), è mediatore nella trasmissione virtuosa della speranza».
Nell’opera di Teilhard de Chardin la vicenda umana, con tutta la sofferenza che comporta, è un processo di crescita della persona, finalizzata alla partecipazione al Corpo di Cristo. E in tutte le religioni esiste il sacrificio, come accettazione delle sofferenze della vita per renderle «sacre» (sacrum facere). Le sofferenze del Mondo sono il Pane e il Vino offerti da Teilhard nella sua celebrazione della Messa sul Mondo, paradigma di tutte le liturgie. La discesa dello Spirito opera il passaggio dalla disperazione alla speranza. La sofferenza umana è un sacramento in cui Cristo si manifesta. E nella nostra capacità di trarne ulteriore vita si glorifica il Padre, come Gesù l’ha glorificato accettando il calice della croce. «Questa è la sola teodicea possibile: che ogni sofferenza umana è sofferenza divina».
In appendice, si ricordano alcune vicende e si citano alcuni testi di Teilhard de Chardin, Pavel A. Florenskij, Etty Hillesum e Viktor Frankl, che mostrano come la capacità di trasformare il dolore in vita nuova possa suscitare «virtù eroiche» anche in persone del tutto comuni.