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Del dibattito sul futuro del rapporto tra l’uomo e le macchine traspaiono echi quando si parla delle automobili che si guideranno da sole, o di software medici che diagnosticheranno le malattie. E il discorso sull’intelligenza artificiale procede a fasi alterne da poco dopo la metà del secolo scorso.
L’autore, giornalista e professore di Digital Literacy, descrive il complesso di questi fenomeni, ma si discosta da una visione meccanicistica: mette invece in primo piano l’aspetto antropologico. Le dimensioni focalizzate sono due: da una parte, la genialità, la scienza, gli studi, le applicazioni e, soprattutto, le persone e le corporazioni che se ne avvantaggiano, creando imperi tecnologici che sono sostanzialmente meccanismi finanziari finalizzati al guadagno; dall’altra parte, noi, i miliardi di persone che abitano la Terra e che ci siamo consegnati a questo gioco.
Lo stile del volume è quello del pamphlet, in polemica con i luoghi comuni. L’autore fa il computo di quanto stiamo guadagnando e perdendo nell’evoluzione che ci ha portati alla globalizzazione non soltanto delle merci, ma anche dei dati e dei rapporti personali. Oggi la rete si è trasformata in una campana di vetro virtuale dove qualsiasi gesto, atto, discorso o preferenza di ciascuno di noi viene individuato, catalogato, rivenduto e utilizzato a fini di controllo commerciale o di altro genere.
Non è solo che qualcuno ci stia rubando le informazioni su noi stessi, dice l’autore: siamo proprio noi a concederle al modico prezzo dei gesti quotidiani che, distrattamente, compiamo sui terminali elettronici tenuti sempre accesi. E non ci ricordiamo che basta che funzionino perché qualcun altro ci guadagni. Questo succede quando ci spostiamo da un luogo all’altro, clicchiamo su un link, scambiamo messaggi, acquistiamo oggetti. E se facciamo ricerche in rete su una malattia, se clicchiamo su una certa notizia nel giornale online, se registriamo un film, una fiction, un concerto, tutto ciò non verrà più dimenticato: andrà a comporre un profilo sul quale operano potentissimi algoritmi probabilistici, e al quale molti professionisti hanno dedicato e dedicano ore di meticoloso lavoro, per poi avviare scambi commerciali e processi di persuasione personali e collettivi. Il gigantismo di queste multinazionali del digitale è così pronunciato che l’autore si domanda se non si tratti, ormai, di vere e proprie «meta-nazioni digitali».
Su tale visione, preoccupata ed esasperata, si può più o meno concordare nel dettaglio; quello che non si può fare è schivarla per ignoranza o per indolenza: come minimo, questa lettura induce a scuotersi e verificare se sia vero che abbiamo aperto le porte di vari ambienti di casa nostra a sconosciuti che obbediscono soltanto ai loro interessi.
E dopo la prima sezione, in cui si parla dei vari modi nei quali si concreta la rivoluzione dello «spazio digitale», la seconda è strettamente antropologica. Sotto il titolo-ombrello «Ciò che stiamo perdendo» vengono annoverati, come altrettanti capitoli, argomenti come «la nascita», «l’amore», «l’amicizia», «gli addii», «il diario», «la memoria», «lo sguardo», «la distrazione», «la morte».
La proposta dell’autore è di tradurre la «disobbedienza digitale» in azioni concrete. Egli scrive: «Un telefono, un GPS, un oscilloscopio, un cardiofrequenzimetro, un contenitore delle nostre canzoni preferite, dei nostri film preferiti, dei nostri appuntamenti quotidiani non sono per nulla presi singolarmente»; ma proviamo «a osservare da lontano: uniamo i puntini, sommiamo le funzioni, aggiungiamo un elemento alla volta. Se guardiamo il disegno dalla giusta distanza, ci rendiamo conto di quanto cediamo, di quanto regaliamo, di quanto perdiamo». E dunque occorrono azioni concrete e positive.
In chiusura c’è l’«ennalogo», il vademecum del disertore digitale: 100 punti da mettere in pratica e, possibilmente, da diffondere e ampliare.
NICOLA ZAMPERINI
Manuale di disobbedienza digitale
Roma, Castelvecchi, 2018, 240, € 17,50.