|
Lo sguardo del gesuita p. Ernesto Santucci sugli emarginati parte da lontano. È uno sguardo partecipe, che lo porta a schierarsi dalla parte degli ultimi, sin dai primi anni Ottanta, in una Napoli ferita dal terremoto, con una comunità-alloggio ai Quartieri Spagnoli, una delle zone più degradate della città, per poi fondare «Il Pioppo», comunità terapeutica per tossicodipendenti, e quindi approdare sull’altra sponda dell’Adriatico, in un’Albania ancora profondamente segnata dagli anni della dittatura, per ricostruire, materialmente, chiese e campanili.
L’autore affida a due racconti – quelli di Gigino e Salvatore, due ragazzi che hanno concluso tragicamente la loro vita, in una cella di Poggioreale o in uno scantinato con un ago infilato nel braccio – il grido di dolore di una città dai due volti, che da un lato produce, cerca una rinascita sociale, ma dall’altro alimenta il divario sociale, le marginalità, crea sacche di disagio. Napoli è l’emblema di fragilità sociale che in questi anni, complice la crisi, è aumentata a dismisura, causando «nuove povertà».
È lo «scarto», «una umanità dolente – scrive Santucci – che fa a pezzi il tuo perbenismo: le tue belle idee su un mondo ideale naufragano, si scontrano con le molte realtà che ti vengono incontro ogni giorno, che ti provocano e che molto spesso non hanno soluzione. Ti arrabbi, ti guardi attorno e non trovi nessun aiuto né dai privati né dalle istituzioni. Perché? Perché questi esseri umani, questi miei fratelli sono considerati “scarti”, pezzi venuti male, difficilmente inseribili. Uomini e donne che “non servono”, praticamente inutili, secondo il nostro modo di vedere miope e limitato, quindi non resta che scartarli, gettarli nella spazzatura» (p. 9). «Io – racconta p. Santucci –, proprio di questi “scarti” mi sono innamorato, li ho sentiti vicini, ho cercato in tutti i modi di recuperarli, di reinserirli in un contesto umano e sociale» (pp. 9 s).
Nella seconda parte del libro vengono esaminati i fattori che hanno portato al fallimento dell’inclusione e al paradosso di un’economia a due velocità, dove chi non regge il passo è inevitabilmente e drammaticamente tagliato fuori. In primo luogo, i meccanismi del mondo finanziario, con le «bolle speculative» che hanno divorato il piccolo risparmio, creato nuovi poveri ed estromesso, sovvertito e annullato quelli che erano i canoni dell’economia reale.
Non solo in Italia, nel Mediterraneo o in Europa, ma dappertutto la globalizzazione – e con essa la finanza che ne muove le fila – ha creato un effetto domino, dove i fattori moltiplicatori delle crisi partono da gigantesche compensazioni delle banche centrali e finiscono per alimentare lo sfruttamento di manodopera. Nasce da qui la progressiva emarginazione di chi non è utile, funzionale alla nuova società: «Non consumi, non servi».
In Italia la situazione è peggiore, e la crisi non è solo economico-lavorativa, ma ha provocato un crollo dei valori: oggi amicizia, famiglia, mutualità sembrano parole prive di senso.
C’è la possibilità di un cambiamento, di un’inversione di rotta? Piccoli, ma significativi segnali vengono, ad esempio, dall’economia della condivisione, dal riciclaggio e dal riuso dei rifiuti, con il recupero delle materie prime. Occorre promuovere un’economia che generi inclusione, ripristinando i legami sociali e ricostruendo le identità collettive.
Completano il libro i contributi di Luigi Ciotti, fondatore di «Libera»; del giudice minorile Piero Avallone; del sociologo Antonio D’Amore; e dello scrittore Domenico Verde, che evidenziano perché tanti ragazzi come Gigino e Salvatore vanno educati alla legalità e formati al lavoro.