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A giudizio del filosofo francese Redeker, la morte è diventata insopportabile (e quindi viene elusa, eclissata, rimossa), perché l’immaginario dominante, di tipo industriale, la de-simbolizza, cioè la distacca da un universo di senso che la renderebbe comprensibile e nominabile, legandola ad altre figure linguistiche, ad altre esperienze di scacco, a riti pubblici, a rappresentazioni condivise. Lo strazio della separazione andrebbe riconosciuto, e non cancellato da liturgie secolari di tipo analgesico, o da facili illusioni di stampo religioso-idolatrico.
Redeker distingue il timore (una normale reazione etologica) dalla paura (segnata da un senso antropologico) e dallo spavento (legato allo spettacolo sublime di un’entità che ci sovrasta e che accende la sensibilità dell’artista e del mistico). Noi purtroppo «temiamo la paura della morte» e interponiamo la distrazione tra la paura e noi stessi.
La tesi dell’autore non è nuova. Si pensi ai testi di Norbert Elias sulla solitudine del morente e di Philippe Ariès sull’occultamento della morte, vissuta oggi come evento selvaggio, innominabile. Redeker non segue però l’approccio pessimistico di Emil Cioran, secondo il quale è un inconveniente il fatto stesso di essere nati. L’autore ama la vita e desidera che sia celebrata in pienezza, risvegliando paradossalmente il sentimento di angoscia e il senso del tragico, proprio per opporsi a euforiche consolazioni a basso costo, che vengono sfornate da una diffusa ideologia consumista, edonista, falsamente progressista.
Diversi punti dello scritto meriterebbero un approfondimento e una discussione più intensa. La critica del femminismo, offerta da Redeker a p. 118, ci pare sbrigativa e ingenerosa. Inoltre, se è vero che la spettacolarizzazione televisiva della morte e il ritmo frenetico della civiltà industriale ostacolano la meditazione sulle cose ultime, è altrettanto vero che molta letteratura e molta arte contemporanea – anche videotrasmesse – hanno elaborato metafore e icone che riscattano, senza dissimularlo, il dolore della fine.
D’altro canto, il desiderio d’immortalità, che alimenta in parte l’attuale medicalizzazione della vita, non è necessariamente una resa codarda o opportunista al fanatismo per la salute, al potere tecnologico e alle lusinghe del mercato, ma rappresenta talora il simbolo di un’aspirazione legittima di ordine escatologico: la tensione cioè a un mondo liberato dalla morte, la fiducia in una promessa integrale di salvezza, che redima corpo e anima e che svincoli carne e spirito dal giogo del negativo.
Non convince nemmeno l’apologia della mortalità (che l’autore non distingue adeguatamente dalla «finitudine» dei viventi) quale carattere costitutivo della natura umana, quale utile strappo dalla bestialità animale e dal culto narcisistico, quale dolorosa ascesi, quale condizione necessaria per la crescita spirituale e per il rinnovamento di generazioni e civiltà. Contro le derive doloriste, andrebbe piuttosto ricordato che Dio non ha creato la morte (come recita il libro della Sapienza); egli ha fatto le creature per l’esistenza; è invece per l’invidia del diavolo che la morte è entrata nel mondo.
ROBERT REDEKER
L’eclissi della morte
Brescia, Queriniana, 2019, 216, € 18,00.