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Nel corso dei mesi che precedettero la fine della Seconda guerra mondiale le forze armate alleate fecero il loro ingresso nei Lager, liberandovi i pochi superstiti, ormai ridotti allo stremo. Poco dopo sarebbe iniziato anche il graduale smantellamento dell’intero sistema concentrazionario che era stato allestito dalla Germania nazista per eliminare fisicamente e sistematicamente soprattutto gli ebrei d’Europa. In quel periodo venne così interamente alla luce il complesso delle atrocità che erano state perpetrate per anni dai nazionalsocialisti. Per i prigionieri che invece erano riusciti a sopravvivere all’inimmaginabile cominciò, dopo la gioia iniziale, un lento e logorante ritorno alla vita: un processo che sarebbe avvenuto, in qualche caso, in un lasso di tempo assai lungo.
Si tratta di un tema che non sembra sia stato approfondito dalla storiografia. Per questo il contributo di Dan Stone, autorevole studioso della Shoah, giunge a colmare tale lacuna. Il saggio considera questo fenomeno complesso, inserendolo nell’ambito decisamente più ampio del secondo dopoguerra europeo. L’autore afferma che tali avvenimenti hanno rivestito un’importanza fondamentale «per la geopolitica della guerra fredda e, a motivo delle loro ripercussioni sulla Palestina, per il futuro dell’Impero britannico in generale e del Medio Oriente in particolare» (p. VIII). In altri termini, furono soprattutto le decisioni degli Alleati, poco attente alle angosce e alle speranze dei superstiti, a indurre questi ultimi a non ritenere l’Europa una patria e a convincerli che avrebbero potuto avere un futuro accettabile soltanto in Palestina.
Alla stessa conclusione erano giunti altri sopravvissuti ai Lager, non tutti ebrei, i quali, ormai cittadini dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti, si erano resi ben presto conto di essere diventati moneta di scambio nel quadro delle relazioni tra gli Alleati occidentali e i sovietici.
Riguardo alla liberazione dei campi, va osservato come l’autore utilizzi molte fonti di archivio, fotografie e testimonianze, sia scritte sia orali, per raccontare le innumerevoli vicissitudini che gli ormai ex prigionieri si videro costretti ad affrontare e le grandi difficoltà incontrate da quanti intendevano aiutarli a ridare un senso alla loro vita.
Stone sceglie dunque di concentrare la sua attenzione sui sopravvissuti: sul loro senso di colpa, sulla vergogna derivante dall’essere rimasti in vita, sul lancinante dolore provocato dalla perdita dei familiari e degli amici, sui gravi problemi di salute da cui erano afflitti. Da tutto ciò avrebbe avuto origine quella paralizzante apatia che sembra caratterizzare le testimonianze di tanti superstiti dopo essere stati liberati, e della quale costituiscono un valido esempio le parole di Lisa Scheuer, sopravvissuta a Mauthausen: «Avevo sempre pensato e immaginato tra me e me che questo momento sarebbe stato qualcosa di particolarmente entusiasmante, magari anche di sconvolgente, ma soprattutto di festoso. Non provai nulla di tutto ciò! Nessuna felicità, nessun entusiasmo, solamente un vuoto disperante e una paura terribile, paura di andare a casa, paura suscitata dalla domanda di che cosa vi avrei trovato, di chi avrei atteso invano. […] Ero incapace di essere felice» (p. 69).
La condizione della gran parte dei sopravvissuti, divenuti in seguito «sfollati», sarebbe diventata poi ancora più difficile. Lo storico inglese parla in proposito di «pene della liberazione», per definire il conflitto che coinvolse gli scampati ebrei e i loro soccorritori, provocando il passaggio da stati d’animo contraddistinti da amicizia e affetto a sentimenti reciproci improntati invece all’amarezza, alla delusione e al risentimento. Una situazione che avrebbe spinto molti ex prigionieri verso l’emigrazione illegale e ad entrare in conflitto sia con le popolazioni palestinesi sia con le autorità britanniche.
DAN STONE
La liberazione dei campi. La fine della Shoah e la sua eredità
Torino, Einaudi, 2017, 274, € 30,00.