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La storiografia relativa al Ventennio mussoliniano ha considerato a lungo i temi dell’affarismo e della corruzione tutto sommato marginali. Le prime ricostruzioni generali del periodo non si occuparono affatto di questi argomenti, ma un gran numero di contributi più recenti ha messo in rilievo come simili fenomeni non abbiano caratterizzato solo il tardo fascismo, ma siano stati presenti anche in quello degli inizi e, rispetto allo Stato liberale, in una forma addirittura più estesa. Il quadro di insieme è apparso dunque caratterizzato da truffe, tangenti, legami con la mafia, arricchimenti rapidi e inspiegabili; quella di Mussolini fu, quindi, tutt’altro che una «dittatura degli onesti».
È quanto viene documentato in questa raccolta di saggi curata da Giovannini e Palla, ai quali va riconosciuto il merito di aver illustrato in maniera esauriente il nesso tra politica e affari, nonché quanto la prima componente di questo legame sia stata decisiva nell’agevolare il successo della seconda. Detto altrimenti: il regime che intendeva forgiare un «uomo nuovo» e correggere nel contempo le storture dell’Italia post-unitaria vide al contrario estendersi a macchia d’olio il malaffare, che raggiunse il cuore delle istituzioni statali.
Nel rapporto tra politica, corruzione e affarismo durante l’epoca fascista vi fu insomma un vero e proprio «salto di qualità»: una dinamica in grado di spiegare i successi e la notevole accumulazione di ricchezze che riuscirono a realizzare alcuni tra i protagonisti della scena economica e finanziaria di quegli anni: da Giuseppe Volpi, magnate dell’industria elettrica privata, al generale Ugo Cavallero, presidente dell’Ansaldo, fino all’imprenditore Alberto Pirelli.
Le cosiddette «mani sporche» furono però anche quelle di alcuni esponenti di primo piano del regime, come Costanzo Ciano, Roberto Farinacci, Carlo Scorza e il giovane pesarese Raffaello Riccardi, ai quali occorre aggiungere una miriade di «pesci piccoli» che, dopo la conquista dell’Africa orientale, ricercarono occasioni propizie nelle colonie, provando a «oliare» le ruote giuste.
Una pratica, quella della corruzione, della quale lo stesso Mussolini era pienamente consapevole, tanto da dedicare costanti attenzioni – mediante l’attività della censura e della propaganda – al suo occultamento. Così, da un lato, venne elaborato un «discorso pubblico» finalizzato a indicare nell’ormai consolidato regime fascista l’unico elemento moralizzatore presente nel sistema istituzionale italiano e, dall’altro, rimase costante la disponibilità del Duce a coprire scandali e ladrocini.
Frutto di un’attenta consultazione dei fondi conservati presso l’Archivio centrale dello Stato, questo volume sfata dunque il mito della presunta buona fede, moralità e incorruttibilità di Mussolini e, in parte, del suo sistema dittatoriale: un’immagine rimasta però curiosamente nella memoria di molti e che si sarebbe riaffacciata verso la fine del secolo, quando avrebbe preso piede la tendenza a contrapporre un sistema democratico ormai screditato a un regime che sarebbe rimasto invece sostanzialmente immune dalla corruttela affaristica. Osservano al riguardo i due Curatori: «Da Tangentopoli nel 1992 a oggi […], è parso più credibile, agli occhi di una parte notevole dell’opinione pubblica, che il fascismo fosse rimasto fuori dal “cono d’ombra” delle ruberie, del rampantismo amorale, della cura di interessi privati in luogo di quelli pubblici e collettivi» (p. VII).
È pertanto probabile che molti contributi forniti dalla storiografia non siano purtroppo riusciti a trovare gli opportuni canali di diffusione nell’ambito della cultura di massa né dei vari ordini e gradi nei quali si articola l’insegnamento scolastico.
Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo
a cura di PAOLO GIOVANNINI – MARCO PALLA
Roma – Bari, Laterza, 2019, 272, € 22,00.