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Benché gli scritti del Bellarmino siano uno dei «più vasti oceani letterari del cattolicesimo moderno»[1] e le Controversie costituiscano le opere più rappresentative del tempo, la fama del cardinale è legata a un fugace incontro con Galileo avvenuto nel 1616 – quando gli comunicò l’avviso della Congregazione dell’Indice su Copernico e gli rilasciò un attestato di onorabilità – e a una lettera in cui faceva riferimento allo scienziato[2].
A quella data, il Bellarmino, il più autorevole rappresentante del Sant’Uffizio e della Congregazione dell’Indice, ha 74 anni ed è al termine dei suoi giorni. Per la storia di oggi, conta poco che egli sia stato uno dei più grandi oratori del Seicento o che sia divenuto il maggiore teologo-politico dell’epoca post-tridentina[3]. E conta poco, almeno per gli storici della scienza, che si sia interessato non soltanto di teologia e di esegesi, ma anche di cosmologia e di astronomia[4], e che a lui si debba il sostegno della scuola di matematica del Collegio Romano, dove il docente più illustre è p. Cristoforo Clavio, il riformatore del calendario di Gregorio XIII. Il cardinale, per la formazione dei sacerdoti, esigeva, insieme alla filosofia e alla teologia, anche la matematica. Pur sostenendo la sovranità del Papa – diretta o indiretta – su ogni comunità civile e religiosa, il Bellarmino è fautore «del diritto soprannaturale della verità»[5]: la ricerca della verità e l’autorità della verità sono il tracciato storico della sua vita e della sua opera.
Il primo incontro tra il Bellarmino e Galileo
Nonostante i suoi numerosi scritti, forse il testo più citato del cardinale, dal Novecento in poi, è una lettera del 1615 scritta a un carmelitano, p. Paolo Antonio Foscarini, sul copernicanesimo. La ragione del successo è chiara: il vero destinatario dello scritto è Galileo[6].
Già cinque anni prima, a proposito delle meraviglie suscitate dal Sidereus Nuncius del 1610, il Bellarmino, volendo conoscere che cosa davvero avesse scoperto Galileo con il cannocchiale, interrogò i padri del Collegio Romano. P. Clavio rispose confermando: la Via lattea è fatta di infinite stelle, Giove ha quattro satelliti, la superficie della luna è montagnosa (XI, 93)[7].
Il primo punto dei quesiti del cardinale riguardava le stelle non visibili a occhio nudo: questo era per lui un problema fondamentale, perché metteva in discussione i dati dell’esperienza sensibile, basilari nell’epistemologia aristotelica. D’altra parte, dal 1599 egli era stato uno dei giudici nel processo a Giordano Bruno, favorevole al copernicanesimo, che fu condannato per aver affermato l’esistenza di un numero infinito di mondi[8]. Ora le scoperte di Galileo facevano crollare una serie di certezze, radicate da secoli.
Il Bellarmino tuttavia non era sospettoso nei confronti di Galileo. Anzi, il tono della lettera indirizzata ai matematici del Collegio Romano, dove era stato rettore (dal 1592 al 1595), non rivela alcuna ostilità. In quegli anni p. Clavio aveva anche pubblicato diverse considerazioni su Copernico. Precedentemente, nel 1571, il cardinale, commentando la quaestio 69 della Summa Theologica, parlava anche del moto della Terra senza segnalare il possibile contrasto con la Scrittura, anzi dichiarando che l’esegeta poteva scegliere fra le teorie sostenute dagli astronomi quella che sembrava più conforme alla Bibbia[9]. Il Bellarmino quindi – nonostante diversi studiosi lo ritengano «digiuno di astronomia»[10] – conosceva il copernicanesimo.
«L’opinione del Copernico»
Nel 1615 apparve l’opera di Paolo Antonio Foscarini, Lettera sopra l’opinione dei Pittagorici e del Copernico, dove si presentava la compatibilità tra la Bibbia e il copernicanesimo[11] e come alcuni passi della Sacra Scrittura potessero accordarsi con tale teoria. Il Foscarini inviò il testo al Bellarmino per averne un parere. A quella data erano state già depositate a Roma due denunce, dai domenicani Caccini e Lorini, che ritenevano Galileo sospetto in fide per le sue idee sulla stabilità del Sole e sul movimento della Terra, ma soprattutto per la «pretesa» di spiegare la Bibbia contro l’opinione comune dei Padri della Chiesa[12].
Il 12 aprile 1615 il Bellarmino rispose con una breve lettera di tre capoversi. Nell’introduzione si rivolgeva a p. Foscarini e insieme al «signor Galileo», ma si ha l’impressione che la lettera sia rivolta a quest’ultimo piuttosto che all’autore del trattato.
La prima parte è ispirata a una semplice norma di prudenza: la dottrina copernicana può essere proposta come ipotesi scientifica, non come realtà. Poiché «affermare che realmente il sole stia al centro del mondo […] e che la terra […] giri con somma velocità intorno al sole, è cosa molto pericolosa non solo d’irritare tutti i filosofi e theologi scholastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante» (XII, 171 s). Dunque, il copernicanesimo potrebbe essere contro la Bibbia e contraddire la lettera di alcuni passi[13].
La Bibbia e il Concilio di Trento
Il secondo punto riguarda il nodo della questione: l’interpretazione della Bibbia secondo le direttive tridentine. «Il Concilio prohibisce esporre le Scritture contra il commune consenso de’ Santi Padri e […] i commentarii moderni […] convengono in esporre ad literam ch’il sole è nel cielo e gira intorno alla terra […], e che la terra […] sta nel centro del mondo, immobile» (XII, 172). La norma tridentina affermava che la lettera della Scrittura non può essere messa in dubbio. Questo era accettato da Galileo ed era riconosciuto perfino dai protestanti[14].
Il Bellarmino completa il discorso con una vigorosa stretta rispetto ai suoi insegnamenti del 1571: dire che la scienza «non è materia di fede» non conclude nulla, perché, se non è materia di fede per il suo contenuto – ex parte obiecti –, lo è certamente per l’autorità di Dio – ex parte dicentis – che parla nella Scrittura (XII, 172).
Il rinvio al Concilio di Trento fatto dal porporato è, in certo modo, parziale. Il Decreto sulle fonti della rivelazione proibisce, sì, di interpretare la Scrittura in contrasto con l’esegesi della Chiesa o dei Padri, ma in argomenti di fede e di morale[15]; non si riferisce a temi profani e tanto meno astronomici; anzi, stando agli Atti del Concilio, sarebbe un abuso impiegare parole o pericopi della Scrittura per cose o argomenti profani[16].
L’affermazione del Bellarmino è confortata da alcuni esempi: «Così sarebbe heretico chi dicesse che Abramo non habbia havuti due figlioli […]; come chi dicesse che Christo non è nato di vergine» (XII, 172). E si potrebbe aggiungere: è eretico chi afferma che il Sole non sorge e non tramonta. Una volta affermato tale principio, il «caso Galileo» è chiuso.
La vera dimostrazione
Ma il Bellarmino non si ferma qui. Il riferimento ai due figli di Abramo e il fatto che la Bibbia non è di fede nei temi profani non hanno alcun collegamento con il trattato del Foscarini, ma hanno un riscontro nella lettera che Galileo aveva scritto qualche tempo prima a don Benedetto Castelli, suo discepolo. Il Bellarmino l’ha in mano (cfr XII, 151), ed è ben informato sul pensiero del matematico, che distingue più volte «gli articoli concernenti la salute e lo stabilimento della Fede» da quelli «che non sono de Fide» (V, 284 s), anche se presenti nella Scrittura. In questi ultimi ambiti è concessa una libertà di ricerca e di interpretazione.
La terza parte della lettera sembra, per così dire, un ripensamento: «Dico che quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro del mondo e […] la terra circondi il sole, allhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra» (XII, 172).
Gli studiosi discutono su cosa debba intendersi per «vera dimostrazione»[17], o quale prova il porporato consideri valida[18]. In ogni caso, per il Bellarmino, un’eventuale dimostrazione del sistema copernicano andrebbe accettata, e di conseguenza si dovrebbe rivedere il senso di alcuni passi biblici che sarebbero in contrasto.
Occorre rilevare qui il rispetto del cardinale per la ricerca della verità, che ha caratterizzato la sua intera vita. Tuttavia il Bellarmino ribadisce l’affermazione del p. Grienberger, successore del Clavio al Collegio Romano, il quale, pur avendo verificato le scoperte di Galileo, rilevava che la prova della mobilità della Terra e dell’eliocentrismo non era stata data, ed egli stesso l’aveva chiesta a Galileo[19]. «Dunque niente, in Bellarmino e nell’ambiente del Collegio Romano, prova una chiusura di principio alle procedure scientifiche»[20].
Egli tuttavia conclude: «Ma io non crederò che ci sia una tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata: […] et in caso di dubbio non si deve lasciare la Scrittura» (XII, 172)[21].
Il paradosso del Bellarmino
Il cardinale era preoccupato dal Decreto tridentino sulla Scrittura che rivalutava l’interpretazione letterale sul senso allegorico del testo[22], per cui ogni singola parola è di fede. Si dava anche una lettura più ristretta: diventava normativo il senso materiale del testo biblico, tale da escludere qualsiasi relativizzazione alla cultura del tempo e al linguaggio impiegato dall’agiografo[23].
In tal modo la questione copernicana poteva venire incontro alla preoccupazione del cardinale, perché aveva una conseguenza che toccava anche l’interpretazione della Scrittura: il senso letterale del testo biblico non coinciderebbe semplicemente col senso materiale, e quindi l’interpretazione restrittiva verrebbe a cadere.
La difficoltà vera per il Bellarmino, come pure per i gesuiti del Collegio Romano, stava nel fatto che pareva improbabile dimostrare la tesi copernicana: per una ragione che il porporato coglieva solo di riflesso, ma che si fondava sulla relatività della descrizione del moto a un sistema di riferimento scelto a piacere. Nella stessa risposta a Foscarini, il cardinale riprende l’esempio della nave che si allontana dal porto. L’osservazione è giusta. Quando una nave prende il largo, si può avere l’illusione che il litorale si allontani dalla nave, se il sistema di riferimento è la nave su cui si viaggia. Ma qui interviene la ragione, per dire che si tratta di un’illusione e per indicare quale sia il giusto sistema di riferimento (cfr XII, 172). Quindi un’affermazione assoluta del copernicanesimo risulterebbe in sé inverificabile.
La «Lettera a Cristina di Lorena»
Benché lo scritto al Foscarini sia una lettera privata, l’autorevolezza dello scrivente ne avvalora l’importanza: ebbe notevole diffusione e giunse nelle mani di Galileo. Questi ritenne di dover intervenire subito con una risposta al Bellarmino che scrisse nel maggio 1615, sotto forma di Lettera a Cristina di Lorena, madre del Granduca di Toscana. Si tratta in realtà di un trattato, in cui Galileo amplia quanto ha scritto al Castelli, mettendo a fuoco il punto centrale: è pericoloso portare la Scrittura in dispute naturali, perché, se essa non può errare, possono sbagliare i suoi interpreti (cfr V, 317)[24]. È fondamentale perciò distinguere l’ambito scientifico da quello religioso.
Gli accusatori di Galileo, per condannare il copernicanesimo, adducevano il passo di Giosuè 10,12, «Fermati, Sole!». Lo scienziato invece faceva notare che occorreva comprendere il senso vero del dettato biblico. Il significato letterale doveva essere inteso correttamente, poiché quando si parla di «piedi e mani e occhi» di Dio, oppure di «ira, di pentimento di Dio» (V, 315), la Bibbia si adatta alle capacità di comprensione umane. Così anche nel parlare di verità naturali, la Scrittura usa il modo di esprimersi della gente comune. Si tratta di un problema antico, e viene citato in proposito sant’Agostino.
Ma qual è il fine della Scrittura? La rivelazione insegna la salvezza dell’uomo, non quanto ha attinenza col mondo fisico e naturale. Per tale ambito Dio ha dotato l’uomo di intelligenza e di ragione. Di qui il principio metodologico: «Nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità […] delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie» (V, 316).
Un altro principio riguarda le leggi della natura, che sono assolute e inesorabili: la scienza le scopre e le codifica. Qualora una scoperta in natura o una dimostrazione si rivelassero in contrasto con il testo della Scrittura, è compito dei teologi cercare la giusta interpretazione, perché la verità è una e non può darsi contraddizione tra Scrittura e Natura: entrambe provengono da Dio. Al termine della lettera Galileo propone un’interpretazione del passo di Giosuè secondo il copernicanesimo[25].
Allo scienziato, tuttavia, non interessava nell’ambito ermeneutico «dimostrare che il copernicanesimo fosse vero e quello tolemaico falso. Galilei, al contrario, negava che si potesse usare la Scrittura all’interno di argomentazioni di carattere scientifico, perché la verità delle affermazioni bibliche che riguardano le realtà naturali non è di tipo scientifico, bensì religioso»[26]. La Bibbia – nota Galileo – non è un libro di scienze e insegna «come si vadia in cielo, e non come vadia il cielo»[27]. La Lettera a Cristina di Lorena costituisce quindi «lo splendido documento di questa così importante svolta nel pensiero occidentale»[28], perché afferma l’autonomia della scienza. La grande scoperta di Galileo non è solo la proposta del copernicanesimo, ma il valore oggettivo del metodo scientifico.
La condanna del copernicanesimo
Va poi fatta un’altra considerazione a proposito della lettera a Foscarini. Il Bellarmino non ritiene «eretico» il sistema copernicano, per una ragione che sta alla base della definizione di «eresia», intesa come dottrina che contraddice la fede della Chiesa: un’affermazione eretica non può mai essere dimostrata vera. Ora, se il Bellarmino avesse ritenuto eretico il copernicanesimo, non avrebbe potuto lanciare a Galileo la sfida della «vera dimostrazione».
L’osservazione rinvia alle censure del copernicanesimo del 24 febbraio 1616. I consultori del Sant’Uffizio dichiarano la tesi della centralità e immobilità del Sole «assurda in filosofia e formalmente eretica in quanto contraddice espressamente la Scrittura»; invece la mobilità della Terra, oltre che assurda, è «per lo meno erronea nella fede» (XIX, 320 s)[29]. Stranamente, al parere dei consultori non segue alcun decreto. Si noti però il decreto dell’Indice, del 5 marzo 1616: poiché il copernicanesimo è dottrina falsa e contraria alla Scrittura, proibisce l’opera di Foscarini e il libro di Copernico «finché non sia corretto». Tuttavia è assente il termine «eretico» e non vi si nomina Galileo[30].
Non si può a priori dire che tale censura riproduca fedelmente il pensiero del Bellarmino[31]. Tuttavia, il 25 febbraio Paolo V aveva incaricato il cardinale di convocare Galileo per esortarlo ad abbandonare le sue idee. È l’incontro del 1616 tra il Bellarmino e lo scienziato. Il porporato comunica al Papa la sottomissione di Galileo. Una settimana dopo, Paolo V riceve in udienza lo scienziato, mostrandosi molto benevolo con lui e assicurandogli la propria stima: crede alla sua buona fede e al suo attaccamento alla Chiesa[32].
Dopo un paio di mesi, poiché circolano voci calunniose contro lo scienziato, il Bellarmino gli rilascia il 26 maggio un attestato di onorabilità: «Galileo non ha abiurato in mano nostra né di altri qua in Roma, né meno in altro luogo, […] ma solo gli è stata denunziata dichiarazione fatta da Nostro Signore [il Papa] et publicata dalla Sacra Congregatione dell’Indice, nella quale si contiene, che la dottrina attribuita al Copernico […] sia contraria alle sacre Scritture e però non si possa difendere, né tenere»[33].
Ma chi voleva la condanna del copernicanesimo? Molte personalità della Curia romana sono preoccupate per gli sconvolgimenti causati dalle scoperte di Galileo, al punto da ravvisare nei «teologi copernicani» l’origine di una nuova setta eretica da contrastare vigorosamente. Anche gli ambienti accademici e culturali italiani sono angustiati della forza «distruttrice» della nuova astronomia[34]. Va anche rilevata la determinazione di papa Paolo V, una figura per certi aspetti singolare, perché, di fronte ai problemi della Chiesa, esige una soluzione autoritaria, ma poi non entra nella complessità dei problemi. Lo si era visto nel 1607, nella controversia De auxiliis[35]. La stessa prassi si nota per il copernicanesimo. Paolo V vuole una soluzione immediata: dovrebbe essere dichiarata dottrina eretica, secondo quanto sostenuto da alcuni domenicani[36]. Ma, come si è detto, il termine «eretico» non compare nel decreto dell’Indice.
La reazione di Galileo e il processo del 1633
«Dopo aver letto la lettera del cardinale a Foscarini […] Galileo cessò di asserire che l’eliocentrismo era provato dalle osservazioni [fatte], e pensò a una “vera dimostrazione” in forma di una teoria delle maree»[37]. Purtroppo quest’ultima non era una dimostrazione. Eppure l’atteggiamento dello scienziato si modificò radicalmente. Galileo aveva la certezza che fosse stata scritta con le osservazioni astronomiche una pagina inedita della scienza, radicalmente diversa rispetto alla tradizione aristotelica, tolemaica o ticoniana[38], e assolutamente nuova rispetto al passato: era la prima pagina della scienza moderna.
Per cogliere meglio la prospettiva in cui si inserisce il rapporto tra il Bellarmino e Galileo va fatto un cenno al processo del 1633, determinato dalla pubblicazione del Dialogo sopra i due Massimi Sistemi[39]. Galileo è attento a conformarsi alle norme del tempo: egli chiede e ottiene l’imprimatur sia dall’inquisitore del Sant’Uffizio di Roma, sia da quello di Firenze. Ma il papa, Urbano VIII, ritiene che tali permessi siano stati estorti e quindi delega a una commissione il compito di riesaminare il libro.
Nel dialogo si confrontano tre personaggi: Salviati è lo scienziato che difende il sistema copernicano; il secondo è l’aristotelico Simplicio; il terzo è Sagredo, l’uomo colto, interessato alle nuove dottrine. Il punto è che sulla bocca di Simplicio (un filosofo del VI secolo, il cui nome poteva essere inteso ironicamente: «semplicione») viene posta l’argomentazione teologica di Urbano VIII: come va il cosmo lo conosce solo «la divina onnipotenza» (XIX, 330)[40]. Il Papa si ritiene offeso da Galileo, anche se paradossalmente tale inserimento nel Dialogo sembra fosse stato imposto da lui stesso[41].
L’argomentazione, in quanto pronunciata dal rappresentante della filosofia più retriva e antiquata, appariva stravolta. Inoltre, per far esplodere l’ira di Urbano VIII qualcuno aveva insinuato il dubbio che i tre delfini che figuravano nel frontespizio del libro fossero un’allusione al suo nepotismo: erano invece lo stemma dell’editore.
Il processo parte da un verbale del 1616, da cui risulta che il commissario generale Seghizzi, qualora Galileo non si fosse presentato o non avesse obbedito all’ingiunzione, avrebbe dovuto notificargli un precetto scritto che risulta agli atti, dove si trova un inciso dirimente: l’opinione copernicana «non si può in nessun modo (quovis modo) tenere, insegnare, difendere»[42].
Ma tale precetto fu realmente dato a Galileo? Nell’attestato del Bellarmino a Galileo l’inciso non risulta, «forse perché […] intempestivo o addirittura contrario a quanto aveva ordinato lo stesso Paolo V»[43]. Per di più, nel faldone del processo il testo non è firmato né dal Bellarmino, né dal notaio, né da Galileo. Varie ipotesi sono state formulate per giustificare l’anomalia, e si è pensato anche a un falso costruito per il processo a Galileo. La pubblicazione recente dei documenti relativi al processo escluderebbe il falso[44].
In ogni caso, da lì prende l’avvio l’atto di accusa[45]. Tuttavia, quando gli viene contestato, Galileo mostra il certificato del Bellarmino, che è diverso. Allora il processo riparte proprio da quel documento. L’accusa è la più grave: Galileo ha difeso una tesi che era stata dichiarata contraria alla Scrittura. Lo scienziato è costretto all’abiura. «Tu Galileo suddetto […] ti sei reso a questo ufficio vehementemente sospetto di eresia, cioè di aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, che il Sole sia centro della Terra (sic), e che non si muova da Oriente a Occidente, e che la terra si muova e non sia il centro del mondo e che si possa tenere e difendere per probabile un’opinione dopo essere stata dichiarata e deffinita per contraria alla Sacra Scrittura» (XIX, 405)[46].
Il giudizio è del 16 giugno; la sentenza, del 22 giugno 1633. Al termine della seduta inquisitoriale, l’ultima umiliazione per Galileo: «Gli abbruciarono in faccia il libro, dove tratta del moto della terra»[47].
Nei Documenti vaticani del processo di Galileo Galilei risulta un’«Informazione anonima sull’abiura di Galileo»: «Si noti che tal taccia di eresia non c’è in alcun dei Decreti del Papa Paolo V e Urbano VIII, onde il Padre Plazza nella dissertazione Biblico Phisica pag. 133, 138 et 139 dice che detta censura fu “compiuta” soltanto dai Cardinali del Santo Officio ma annuente Pontifice»[48]. Un consultore del tribunale quindi notava che il copernicanesimo non era mai stato condannato come «eresia». Appare chiaro che la ragione della sentenza è il volere di Urbano VIII, ma non esiste un decreto che condanni l’astronomia copernicana come eretica. I qualificatori lo avevano consigliato, ma – come si è visto – senza seguito. C’era solo il decreto dell’Indice del 5 marzo 1616 che proibiva il libro di Foscarini, e quello di Copernico e di de Zuñiga su Giobbe, donec corrigantur[49].
Una pagina drammatica di storia
La conclusione di questa pagina di storia è drammatica. Galileo fu condannato e mandato in carcere proprio dai suoi amici e ammiratori, il primo dei quali era Urbano VIII. Va segnalata invece l’assenza del Bellarmino, ormai scomparso da 12 anni, che aveva saputo veder chiaro lo stato della questione.
La condanna non fu qualcosa di casuale, ma la necessaria conseguenza del rifiuto, da parte della Chiesa, di distinguere quanto lo studioso proponeva: un ambito proprio della scienza e uno della rivelazione e della fede[50]. Ciò ebbe conseguenze tragiche per la storia della Chiesa[51]. La proibizione del 1616 portò alla formulazione del principio che ritiene la Sacra Scrittura – poiché dettata dallo Spirito – vera in ogni sua affermazione. In qualche modo, questo è anche il rifiuto della tesi più moderata che ispirava il Bellarmino. Da allora in poi si affermerà nell’esegesi biblica il principio «concordista», cioè «la tendenza ad affermare che la Bibbia è necessariamente vera anche da un punto di vista scientifico»[52].
C’è però anche un danno gravissimo per la scienza: fu il primo ostacolo che la Chiesa pose al diffondersi delle scoperte astronomiche e al fiorire di una nuova scienza che stava trasformando radicalmente la conoscenza del cosmo e dell’uomo.
Si dà anche qualcosa di positivo. Dal rapporto tra Bellarmino e Galileo risulta chiara la preoccupazione dello scienziato di tenere la Chiesa al passo con i tempi, ed è proprio questo il motivo per cui egli si illude di poter diventare il consulente scientifico dell’autorità ecclesiastica[53]. Egli è convinto di riuscire ad argomentare la sua tesi in modo così persuasivo da piegare gli oppositori, i quali notano le lacune della sua argomentazione, ma non colgono il valore eccezionale delle sue scoperte.
Termina così il processo a Galileo, ma inizia nella storia il «caso Galileo», appunto il rapporto tra l’autonomia della scienza e la verità della Sacra Scrittura[54].
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[1]. Cfr C. Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, I, Paris, A. Picard, 1890, 1151-1254; F. Motta, Bellarmino. Una teologia politica della Controriforma, Brescia, Morcelliana, 2005, 67-72.
[2]. Cfr F. Motta, Bellarmino…, cit., 7 s; Id., Roberto Bellarmino. Teologia e potere nella Controriforma, Milano, Il Sole 24 Ore, 2014, 226-233.
[3]. L’opera di F. Motta, Bellarmino…, cit., coglie bene la figura del cardinale: egli non è lo studioso di una teologia disincarnata, e neppure un religioso di maniera tutto dedito alla Chiesa e al culto, ma l’autore di un «ideale di persuasibilità della fede fondato sull’appello incessante, metodico, al principio d’autorità. Un ideale che sorregge l’edificio teorico della Chiesa nello sforzo di cattolicizzazione universale» (ivi, 10).
[4]. Cfr U. Baldini, «L’astronomia del cardinale», in Id., Legem impone subactis. Studi su filosofia e scienza dei gesuiti in Italia 1540-1632, Roma, Bulzoni, 1992, 285-303.
[5]. Cfr F. Motta, Bellarmino…, cit., 10; Id., «Epistemologie cardinalizie. Ipotesi, verità, apologia», in G. M. Bravo – V. Ferrone, Il processo a Galileo Galilei e la questione galileiana, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010, 100: il Bellarmino «è il massimo “esperto di verità” a disposizione della Chiesa romana» (ivi).
[6]. La lettera era rimasta sconosciuta fino al 1876, quando fu pubblicata dallo storico e filosofo D. Berti, Copernico e le vicende del sistema copernicano in Italia nella seconda metà del secolo 16. e nella prima del 17. Con documenti inediti intorno a Giordano Bruno e Galileo Galilei, Roma, Paravia, 1876.
[7]. Cfr la risposta del Clavio in Galileo Galilei, Le Opere, Edizione nazionale a cura di A. Favaro – I. Del Lungo, voll. I-XX, Firenze, 1890-1909, 1964-19683, XI, 92 s (le Opere di Galileo sono citate nel testo con il volume e la pagina). Galileo si accorse che la risposta al Bellarmino si era divulgata nell’ambiente romano con vivaci discussioni.
[8] . L’ingresso del Bellarmino nel processo a Giordano Bruno avviene quasi al termine del procedimento; sul ruolo del Bellarmino, cfr L. Firpo, Il processo a Giordano Bruno, Roma, ed. Salerno, 1993, 92 s.
[9] . M. D’Addio, Il caso Galilei. Processo, Scienza, Verità, Roma, Studium, 1997, 73-75.
[10]. Cfr L. Firpo, «Il processo di Galileo», in Nel quarto centenario della nascita di Galileo Galilei, Milano, Vita e Pensiero, 1966, 94; G. Morpurgo-Tagliabue, I processi di Galileo e l’epistemologia, Vicenza, Edizioni di Comunità, 1963, 55; G. de Santillana, Processo a Galileo. Studio storico-critico, Milano, Mondadori, 1960, 195-197.
[11]. P. A. Foscarini, Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici, e del Copernico, della mobilità della Terra e stabilità del Sole, Napoli, Scoriggio, 1615.
[12]. Il Lorini non conosceva nemmeno il nome di Copernico, tanto che in una lettera a Galileo cercava di giustificare il proprio ragionamento su «quell’Ipernico, o come si chiami», la cui opinione è contraria alla Scrittura: cfr A. Fantoli, Galileo. Per il copernicanesimo e per la Chiesa, Città del Vaticano, Specola Vaticana – Libr. Ed. Vaticana, 20103, 167; 203-206.
[13]. Cfr S. Pagano, I documenti vaticani del processo di Galileo Galilei (1611-1741), Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 2009, XXX s.
[14]. Anzi, proprio la Riforma aveva rivolto un pesante attacco alla Chiesa, sul fondamento del senso letterale della Bibbia: essa metteva in discussione la gerarchia della Chiesa e il primato del Papa (cfr R. Fabris, Galileo Galilei e gli orientamenti esegetici del suo tempo, Città del Vaticano, Pontificia Accademia delle Scienze, 1986, 35).
[15]. Cfr H. Denzinger, Enchiridion symbolorum, a cura di P. Hünermann, Bologna, EDB, 19662, n. 1507, 640 s. Il decreto cita il passo di 2 Tm 3,16, che rileva l’ispirazione divina dell’Antico Testamento, ma ribadisce che l’insegnamento è finalizzato a educare l’uomo alla giustizia, e che quindi concerne la sfera etica e religiosa.
[16]. Cfr H. Jedin, Storia del Concilio di Trento, II, Il primo periodo 1545-1547, Brescia, Morcelliana, 1974, 112. Jedin mostra che l’abuso della Scrittura per scopi profani viene espressamente condannato dal decreto (ivi).
[17]. «Quello che è sicuro è che per “vera dimostrazione” [il Bellarmino] non intendeva una prova sperimentale. Questo dice che il significato attribuito dal Bellarmino alle ipotesi non è quello neoplatonico ma quello tomistico» (G. Morpurgo-Tagliabue, I processi di Galileo…, cit., 52 s). Di fatto il Bellarmino distingue chiaramente tra ipotesi e dimostrazione. Tutt’al più si può discutere che cosa si intenda per «vero» come specificazione di «dimostrazione».
[18]. Cfr Th. S. Kuhn, La rivoluzione copernicana. L’ astronomia planetaria nello sviluppo del pensiero occidentale, Torino, Einaudi, 1972 (or. 1957), 254; 290. Per Kuhn, il Bellarmino conosceva le scoperte di Galileo, ma negava che esse provassero il sistema copernicano: «Sebbene il telescopio permettesse di costruire molte argomentazioni, non provava nulla» (ivi, 290). La dimostrazione scientifica dell’eliocentrismo (con la parallasse stellare) avvenne nel 1728, con l’astronomo James Bradly; Galileo sosteneva un sistema che, «nell’interezza dei suoi contenuti tecnici, era fattualmente falso» (U. Baldini, «Bellarmino tra vecchia e nuova scienza», in Id., Legem impone subactis…, cit., 312 s; 333, note 17 e 24).
[19]. Il 7 marzo 1516, mons. Dini riferì al Bellarmino il parere del p. Grienberger: egli avrebbe preferito che Galileo «havesse prima fatto le sue dimostrazioni, e poi entrato a parlar della Scrittura» (XII, 151 s).
[20]. Questa conclusione è del Baldini nell’articolo «L’astronomia del cardinale», cit., 300.
[21]. Nel 1572, a Lovanio, nel commento alla Summa di san Tommaso, il Bellarmino aveva scritto: «È certo che il vero senso della Scrittura non è in contrasto con nessun’altra verità, sia essa filosofica o astronomica» (F. Motta, «Epistemologie cardinalizie…», cit., 100).
[22]. Cfr Decretum de vulgata editione Bibliorum et de modo interpretandi Sacram Scripturam: Concilio di Trento, IV sessione, 8 aprile 1546.
[23]. «Contro l’allegoresi dell’interpretazione protestante dell’Apocalisse, il gesuita ribadisce prima di tutto l’importanza del suo significato letterale» (F. Motta, Bellarmino…, cit., 193).
[24]. Cfr Galileo Galilei, Lettera a Cristina di Lorena sull’uso della Bibbia nelle argomentazioni scientifiche, a cura di F. Motta, Genova, Marietti 1820, 2000, 96-98.
[25]. Cfr ivi, 142-144: è la conclusione della Lettera.
[26]. M. Pesce, «Introduzione» a Galileo Galilei, Lettera a Cristina di Lorena…, cit., 59.
[27]. Ivi, 101. È noto che i criteri qui proposti per l’esegesi della Bibbia sono stati ripresi, e fin quasi citati, da Leone XIII nell’enciclica Providentissimus Deus, del 18 novembre 1893.
[28]. A. Fantoli, Galileo…, cit., 231.
[29]. Censura del 24 febbraio. Cfr S. Pagano, I documenti vaticani…, cit., 42 s; A. Fantoli, Galileo…, cit., 205. L’espressione «formalmente eretica» è la censura più grave in teologia, perché contraddice una dottrina di fede.
[30]. Cfr S. Pagano, I documenti vaticani…, cit., 47.
[31]. Cfr L. Firpo, Il processo di Galileo…, cit., 92-98. Il decreto del 1616 è definito lo «specchio fedele delle vedute del Bellarmino» (ivi, 98). Secondo lo storico della scienza Giorgio de Santillana, la responsabilità storica della condanna di Galileo nel 1616 «ricade su Bellarmino e soltanto su di lui» (Il processo a Galileo, cit., 292). Si veda la critica a de Santillana in A. Fantoli, Galileo…, cit., 215 s.
[32]. Cfr S. Pagano, I documenti vaticani…, cit., LVII-LX.
[33]. Ivi, LXI.
[34]. «L’opinioni del Copernico e del Galileo distruggono tutta la Filosofia, molta Teologia, […] e fanno stravaganti conseguenze, pareggiando la terra alle stelle, et a’ cieli»: è il giudizio dato dal provveditore allo studio di Pisa, Giovanni da Sommaia (cfr M. Bucciantini, Contro Galileo. Alle origini dell’«affaire», Firenze, Olschki, 1995, 27).
[35]. Si tratta di un’agguerrita polemica tra domenicani e gesuiti circa la predestinazione e il modo di conciliare la grazia e il libero arbitrio. Allora Paolo V, su suggerimento del Bellarmino, decise di far tacere tutti, senza entrare nel merito.
[36]. «Paolo V° fu di parere di dichiararla contraria alla Fede; ma opponendosi li SS.ri Card.li Bonifatio Gaetano et Maffeo Barberino, hoggi Urbano 8°, fu fermato il Papa di testa, per le buone ragioni addotte dalle loro eminenze et per la dotta scrittura fatta dal detto S.r Galileo in questo proposito, diretta a Mad.a Cristina di Toscana» (Dal diario di G. Buonamici, in data 2 maggio 1633 [XV, 111]; A. Fantoli, Galileo…, cit., 261, nota 80).
[37]. U. Baldini, L’ astronomia del cardinale…, cit., 292 s. L’autore conclude però che la teoria delle maree ebbe uno scarso successo, che «lo indusse infine, nei Discorsi, ad affrontare la questione dalla base» (ivi).
[38]. Il danese Tycho Brahe, pur ammettendo le orbite planetarie intorno al Sole, asseriva che il Sole girava intorno alla Terra. Le misurazioni dell’astronomo erano matematicamente esatte, tanto che sono alla base delle leggi che Keplero scoprì per le orbite dei pianeti.
[39]. Galileo Galilei, Dialogo […] sopra i due Massimi Sistemi del Mondo Tolemaico e Copernicano. Proponendo indeterminatamente le ragioni Filosofiche, e Naturali, tanto per l’una, quanto per l’altra parte, Firenze, G. B. Landini, 1532. Cfr A. Fantoli, «Il processo del 1633», in M. Bucciantini – M. Camerota – F. Giudice, Il «caso Galileo». Una rilettura storica, filosofica, teologica. Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze, 26-20 maggio), Firenze, Olschki, 2011, 187-212.
[40]. Cfr A. Fantoli, Galileo…, cit., 350.
[41]. Cfr ivi, 332. Forse Urbano VIII aveva suggerito di cambiare il titolo del libro. Sul flusso e reflusso del mare era divenuto Dialogo dei Massimi Sistemi del Mondo (S. Pagano, I documenti…, cit., CXIII).
[42]. S. Pagano, I documenti…, cit., 46.
[43]. Ivi, LVIII; cfr A. Fantoli, Galileo…, cit., 218.
[44]. Cfr S. Pagano, I documenti…, cit., LVI.
[45]. Cfr A. Fantoli, Galileo…, cit., 408-410.
[46]. S. Pagano, I documenti…, cit., 222 s. Per «centro della Terra» si intende il centro del mondo.
[47]. Ivi, CCII; M. Camerota, Galileo Galilei e la cultura scientifica nell’età della Controriforma, Roma, Salerno, 2004, 522.
[48]. S. Pagano, I documenti…, cit., 223 s.
[49]. Cfr V. Frajese, «Il Decreto anticopernicano del 5 marzo 1616», in M. Bucciantini – M. Camerota – F. Giudice, Il caso Galileo…, cit., 82-89. Nel Decreto «si parla del copernicanesimo come dottrina “contraria alla Scrittura”, e non di dottrina “eretica” o “errata”» (ivi, 85). Si veda anche V. Frajese, Il processo a Galileo Galilei. Il falso e la sua prova, Brescia, Morcelliana, 2010.
[50]. Non occorre ricordare che già san Tommaso, secoli prima, aveva distinto filosofia e teologia, come due «scienze».
[51]. Cfr M. Pesce, «La ricezione dell’ermeneutica galileiana. Storia di una difficoltà nel distinguere ciò che è religioso da ciò che non lo è», in Id., L’ ermeneutica biblica di Galileo e le due strade della teologia cristiana, Roma, Edizioni di Storia e di Letteratura, 2005, 117-173.
[52]. Id., «Introduzione» a Galileo Galilei, La «Lettera a Cristina»…, cit., 60.
[53]. Significativo in tal senso è il taglio dell’opera di A. Fantoli, Galileo. Per il Copernicanesimo e per la Chiesa. Nel frontespizio del libro si riporta la lettera di Galileo a Dini, del 23 marzo del 1615: Galileo si è dedicato al copernicanesimo, «non avendo altra mira che alla dignità di Santa Chiesa e non indirizzando ad altro fine le mie deboli fatiche». Cfr S. Pagano, I documenti…, cit., L.
[54]. Cfr M. Artigas – M. Sánchez de Tocha, Galileo e il Vaticano, Venezia, Marcianum, 2009; A. Fantoli, Il caso Galileo. Dalla condanna alla «riabilitazione». Una questione chiusa?, Milano, Rizzoli, 2003, 222-254.
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CARDINAL BELLARMINO AND THE “GALILEO CASE”
Bellarmine’s writings are a “literary ocean” of modern Catholicism, with the Controversies his most representative work. However, the cardinal’s fame is linked to a meeting with Galileo in 1616 and a letter in which he referred to the scientist as follows, “He has not demonstrated that the Earth revolves around the Sun! And I believe that it can never be proved”, because it is against the Holy Scripture, the word of God. The discoveries made with the telescope -for example, that Venus revolves around the Sun, that Jupiter has four satellites and others besides-, signaled the crisis of the Ptolemaic system, with a new problem, i.e. what is the relationship between the Bible and Nature? Galileo’s Letter to Christine of Lorraine deals with this subject, with an innovative twist. Galileo discovered the autonomy of the scientific method: the Bible is not a science book; it does not teach “how the heavens go, but how one goes to heaven”.