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Niente è come appare, naturalmente. Nei libri di Chandler l’intrico è un labirinto, e non sempre l’interesse dello scrittore è quello di ricomporre la mappa causale dei fatti in un quadro ordinato, dove tutti i conti tornino. Quello lo fanno più abitualmente gli epigoni, non gli scrittori originali, che hanno creato, e poi sempre rigenerato, oltre le convenzioni del genere, il calco della storia poliziesca dura e pura (hard boiled).
Adottato anche dal cinema nel 1975, Farewell, My Lovely invecchia molto meglio sulla carta che non in pellicola. Sotto una trama-pretesto abbastanza convenzionale, scorre la materia calda della geografia mentale e metropolitana di Chandler. Dell’omicidio che accade nelle prime 20 pagine l’assassino è noto da subito, ed è da lì che le molte altre storie prendono corpo, intrecciandosi: un amore tradito, una gemma preziosa, una donna fatale sotto mentite spoglie, un sottobosco di politici e poliziotti corrotti, criminali di ogni specie. La caccia indiziaria di Marlowe riannoderà i fili non tanto di ciò che è accaduto, ma del perché è accaduto.
Il Marlowe chandleriano, non diversamente dal Sam Spade di Dashiell Hammett, da cui prende i tratti e le mosse, è tra i primissimi autentici antieroi del genere. Seguirne il racconto in prima persona è una rivelazione esistenziale: Marlowe è uno di noi, non un genio solutore di enigmi; acciaccato, mostra ogni cicatrice, ogni vulnerabilità e precarietà dell’uomo della strada. Ex poliziotto, guardato con diffidenza dagli ex colleghi, che pure hanno bisogno di lui, sempre in bolletta, minacciato e battuto, occasionalmente sedotto più che seduttore. Un «giusto» a suo modo, però: navigato, ma non avvelenato dal cinismo, compassionevole, testardo, adepto paziente dell’arte poliziesca, intuitivo e digressivo nella prassi investigativa. E naturalmente, come tutti i veri eroi, non può essere corrotto dalla passione o dal denaro, e meno ancora dal potere, per inclinazione profonda dell’anima più che per scelta morale.
Difficile collocare le vicende in un tempo preciso – siamo negli anni Trenta –, mentre il luogo non potrebbe essere che Los Angeles, in rapida quanto rapace modernizzazione, luogo di azzardo e avventura, ma anche di brutalità estrema e fini miserrime.
In questo libro Marlowe agisce all’opposto dell’osservatore imparziale: la sua abilità investigativa, alla fine, è funzione del suo essere parte intima del tessuto organico, palpitante e vischioso della città e del mondo umbratile in cui è immerso.
E poi, memorabile è la lingua dei dialoghi e del monologo del protagonista, lo sguardo empatico, come in questa descrizione di un autoritratto di Rembrandt su un almanacco a muro che si attaglia benissimo allo stesso Marlowe: «La faccia da anziano, floscia, cadente, ispessita dall’alcol, esprimeva disgusto per la vita. Però c’era anche dell’altro: un rude buon umore, che mi piaceva, e gli occhi brillanti come gocce di rugiada».
Nella distopia chandleriana, la risoluzione dei casi è spesso amara, sebbene l’amore – negato, rubato, ridotto a merce – rimanga il movente di ogni azione criminale e del suo contrario. Ma esso è anche, qualche volta, balsamo consolatorio, e riassunto del carattere: «Ti prendono a bastonate in testa, ti strozzano, ti gonfiano la faccia e ti riempiono di morfina, ma tu insisti, dài e dài, finché non si stancano. “Va’ avanti”, ho mormorato. “Dilla tutta”. E Anne, con aria pensosa, l’ha detta: “Baciami, accidenti a te”».
RAYMOND CHANDLER
Addio, mia amata
Milano, Adelphi, 2020, 300, € 20,00.