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Nel suo discorso del 21 giugno 2019 a Napoli, papa Francesco ha incoraggiato l’elaborazione di una teologia mediterranea. Questa teologia, ha precisato, metterà in gioco «nuove narrazioni»: «Vi è bisogno di narrazioni rinnovate e condivise che, a partire dall’ascolto delle radici e del presente, parlino al cuore delle persone, narrazioni in cui sia possibile riconoscersi in maniera costruttiva, pacifica e generatrice di speranza». La narrazione, di cui queste pagine abbozzeranno uno schema, prenderà le mosse da una «composizione del luogo»: dal posto in cui ha parlato, papa Francesco intravedeva, attraverso i fitti rami di grandi alberi, il golfo di Napoli. Alla sua destra c’era una fila di lecci monumentali, la quercia dal fogliame sempreverde, tipica del bacino del Mediterraneo.
Allo stesso modo, le pagine che seguono considereranno il Mediterraneo a partire dai suoi alberi e, in particolare, da uno di questi, quell’olivo che ha un ruolo caratteristico nel paesaggio, nella vita sociale e nel patrimonio religioso del mondo mediterraneo[1]. Si tratterà di arrendersi a un’evidenza: gli alberi rendono migliori le culture e le religioni. Conferiscono loro un surplus di dolcezza. E l’olivo, che viene coltivato su tutte le coste e nell’entroterra di questo bacino, lo fa in modo singolare. Se esso è, come scrisse l’agronomo romano del I secolo Columella, «il primo di tutti gli alberi»[2], è anche il primo nel suo modo di addolcire l’esperienza umana e religiosa.
Non si intende qui fornire sull’olivo dati enciclopedici, botanici o altro; si proporrà piuttosto di sforzarsi di pensare a partire dall’albero, imparando «il suo modo di essere nel mondo e di comporre con lo spazio e il tempo»[3]. A differenza di Platone, che nel Fedro affermava di non avere nulla da imparare dagli alberi[4], queste pagine andranno alla scuola di un albero, come con un saggio. La domanda che il poeta Francis Ponge rivolgeva ai pini: «Sorgete, alberi di pino, sorgete nella parola. Non vi si conosce, date la vostra formula»[5], sarà indirizzata qui all’olivo. Anch’esso ha una formula, un modo, un carattere che è importante scrutare, chiamare alla parola: ci aiuterà a comporre noi stessi con lo spazio e il tempo, nella società e davanti a Dio.
La Bibbia, lo sappiamo, mette in guardia contro le pratiche idolatriche associate a grandi alberi[6], a volte offerti come simboli di orgoglio umano[7] e, in generale, demistifica la natura[8]. Tuttavia, accoglie il mondo naturale in quella che si potrebbe definire una «fraternità» del creato. Moltiplicando le metafore, essa fa posto alla flora nell’esperienza umana e divina: «Olivo verde, straordinario per la bellezza del suo frutto, questo è il nome che il Signore ti ha dato» (Ger 11,16); «Sarò come la rugiada per Israele […], esso avrà la magnificenza dell’olivo» (Os 14,6-7). Nella tradizione cristiana, questa fraternità ha trovato il suo manifesto nel Cantico delle creature di Francesco d’Assisi: «messor lo frate sole», «sora luna e le stelle», «frate vento», «sor’aqua», «sora nostra matre terra» e i suoi «coloriti flori». Nelle strofe del Poverello, come in quelle dei profeti biblici, la simpatia cosmica diventa il mantello di un linguaggio profondo che unisce l’oggetto e il soggetto della lode. «Manifestare il sacro sul cosmo e manifestarlo nella psiche è la stessa cosa», scrive Paul Ricœur. «Cosmo e psiche sono i due poli della stessa espressività, io mi esprimo esprimendo il mondo, esploro la mia sacralità decifrando quella del mondo»[9]. L’indagine che segue avrà questa doppia traccia: l’attenzione all’albero significherà, a ogni passo, attenzione all’uomo che vive in simbiosi con esso, una simbiosi che è essa stessa visitata da Dio.
L’invito di papa Francesco si pone all’inizio di questa ricerca. Egli l’ha provvisto di una sorta di precedente: l’esortazione apostolica Querida Amazonia (QA), che ha fornito all’immensa Amazzonia prospettive etiche e teologiche responsabili e stimolanti. C’è da ripetere, riguardo al bacino del Mediterraneo, ciò che papa Francesco ha formulato riguardo al bacino amazzonico. In un caso come nell’altro, il primo atteggiamento è quello della contemplazione: «Imparando dai popoli originari, possiamo contemplare l’Amazzonia e non solo analizzarla, per riconoscere il mistero prezioso che ci supera. Possiamo amarla e non solo utilizzarla, così che l’amore risvegli un interesse profondo e sincero. Di più, possiamo sentirci intimamente uniti ad essa e non solo difenderla, e allora l’Amazzonia diventerà nostra come una madre» (QA 55). Queste pagine attiveranno un’empatia simile: per accogliere l’olivo, che vibra alla luce del Mediterraneo, e per accoglierlo in tutte le sue dimensioni, occorre innanzitutto mettersi in sintonia con la sua vibrazione essenziale.
L’olivo nel giardino umano
Scoprire un olivo è, il più delle volte, scoprire un oliveto. Da sei millenni l’albero fa parte del giardino umano: è stato coltivato in frutteti sparsi intorno ai centri abitati. «L’olivo – scrive Christophe Boureux – è l’albero civilizzatore per eccellenza in tutto il bacino del Mediterraneo»[10]. La sua coltivazione ha contribuito al modellamento dei rilievi: sulle coste e nell’entroterra cresce in paesaggi terrazzati o ad anfiteatro. Benché l’olivo possa essere coltivato in collina o in pianura, si trova particolarmente a suo agio sui terrazzamenti trattenuti da muretti a secco. Queste mura svolgono un ruolo essenziale: prevengono gli smottamenti, combattono l’erosione, contribuiscono al drenaggio e impediscono la desertificazione del territorio. In realtà creano un microclima favorevole alla lenta crescita dell’albero.
Sarebbe necessario recarsi sulle colline di Battir, un villaggio palestinese a sud-ovest di Gerusalemme, per constatare il miracolo dell’architettura agricola in questione. Si scoprirebbe un paesaggio straordinario, nato da millenni di interazione, alternando terrazzamenti irrigati per l’orticoltura e terrazzamenti a secco coltivati a vite e olivo. La meraviglia di Battir – le colline sono patrimonio dell’umanità dell’Unesco dal 2014 – si trova infatti, in vari gradi, in tutto il Mediterraneo.
I muretti a secco sono l’eredità di generazioni, instancabili nel lavorare ai piedi degli olivi. Hanno il loro poeta in Giovanni Boine, il quale, nel saggio La crisi degli olivi in Liguria (1911), scrisse: «Terrazze e muraglie fin su dove non cominci il bosco, milioni di metri quadri di muro a secco che chissà da quando, chissà per quanto i nostri padri, pietra per pietra, hanno con le loro mani costruito. Pietra su pietra, con le loro mani, le mani dei nostri padri per secoli e secoli, fin su alla montagna! Non ci han lasciati palazzi i nostri padri, non han pensato alle chiese, non ci han lasciata la gloria delle architetture composte: hanno tenacemente, hanno faticosamente, hanno religiosamente costruito dei muri, dei muri a secco come templi ciclopici, dei muri ferrigni a migliaia, dal mare fin in su alla montagna! Muri e terrazze e sulle terrazze gli olivi contorti a testimoniar che han vissuto, che hanno voluto, che erano opulenti di volontà e di forza»[11].
Oltre ai muri materiali, è l’arte di costruirli che è entrata a far parte del patrimonio dell’umanità (dal 2018 è stata inclusa nella lista del patrimonio culturale immateriale[12]). Questo riconoscimento consacra la rinascita dell’abilità in questione: uomini e donne si rimettono a fare quello che facevano i loro bisnonni. Ovunque venga restaurato un muretto, o ne venga fatto uno nuovo, si riceve una lezione di saggezza[13]. Il ritorno all’arte della pietra a secco è indicativo del desiderio dell’uomo di ritrovare il posto che gli spetta nella creazione, accanto all’albero.
Un’epifania colorata
Se l’olivo dà un tocco caratteristico al paesaggio mediterraneo, lo si deve anche al colore luminoso del suo fogliame, tra il verde e il grigio argenteo. L’esitazione tra i toni, scrive il poeta palestinese Mahmoud Darwish, conferisce all’albero il suo fascino inafferrabile: Nel suo reticente verde-argento / Il colore esita a dire ciò che pensa, e a guardare ciò che c’è dietro. / Il ritratto, per l’olivo, non è né verde né argento. / L’ olivo è il colore della pace, se la pace avesse bisogno / di un colore[14].
L’oscillazione delle foglie tra il verde scuro lucido del lato superiore e il verde chiaro argenteo del lato inferiore crea una vibrazione che il minimo soffio di vento intensifica. Il modo unico che ha l’olivo di dare del «tu» alla luce è accentuato dalla disposizione ariosa del suo fogliame, che forma una specie di trama. «Il suo fogliame non è mai del tutto opaco – scrive Aldous Huxley –. C’è sempre un po’ d’aria tra le sottili foglie grigio-argentee, sempre un balenar di luce nelle sue ombre»[15]. Giuseppe Barbera gli fa eco: «Le chiome, mobili al minimo vento, lasciano filtrare la luce e attraverso i filari che compongono le terrazze coltivabili è possibile scrutare insieme mare e cielo. Appaiono argentee, ricoperte da una lanugine biancastra che ingrigisce il verde, rendendo cangiante un’intrinseca luminosità»[16]. A differenza degli alberi fitti dei Paesi nordici, l’olivo non occulta il paesaggio in cui cresce, ma lo enfatizza e lo ritma, con altrettanti sciami luminosi. Eugenio Montale li vede «come greggi», «qua e là disseminati» sulle colline[17]. «Il campo di olivi s’apre e si chiude come un ventaglio», scrive da parte sua Federico García Lorca[18]. L’olivo vibra nel paesaggio.
Più di ogni altro, Vincent van Gogh è stato attratto dalla luminosità dell’olivo. Durante il suo soggiorno a Saint-Rémy de Provence, ai piedi delle Alpilles, ha scelto gli oliveti dei dintorni come soggetto di 18 dei suoi dipinti. Il Campo degli olivi (1889) è attraversato da un’unica vibrazione cromatica, quella che gli olivi trasmettono dal campo al cielo e dal cielo al campo: una Pentecoste a cielo aperto.
In un altro dipinto dello stesso anno, Olivi con le Alpilles sullo sfondo, sono gli olivi che trasmettono alle montagne le ondulazioni del rilievo. In un certo senso, l’olivo aspettava il post-impressionismo di van Gogh: il tocco leggero delle foglie richiedeva quello del pennello, tra interstizio e impasto, mentre la luce coglie l’uno e l’altro.
Degli alberi della campagna la Bibbia dice che «battono le mani» (Is 55,12). L’olivo ha un suo modo di fare, timido e gioioso al tempo stesso. Anche se vecchio, nodoso e rugoso, è giovane nel suo fogliame. Durante le quattro stagioni dell’anno, invia lo stesso segno di ammiccamento agli uomini, dalle terrazze sulle colline. Risveglia in loro un senso di appartenenza, immemorabile eppure giovane, a questa Terra.
Albero della vita
In Le dialogue de l’arbre, Paul Valéry scrive, a proposito dell’albero, che «espone nello spazio un mistero del tempo»[19]. Il botanico Francis Hallé è d’accordo con lui: «Un albero è tempo reso visibile»[20]. L’olivo è una delle specie la cui longevità desta meraviglia. Anche se dopo alcuni pini e sequoie, è tra le piante più durature. Due suoi patriarchi meritano una menzione: il primo, chiamato S’Ozzastru, cresce a Luras, nel nord della Sardegna, e avrebbe circa 4.000 anni; il secondo, l’Oliveira do Mouchão, si trova a Mouriscas, in Portogallo, e gli vengono attribuiti 3.350 anni. Con il pino, la sequoia o il cipresso, l’olivo ci pone di fronte a un’altra scala temporale: «Molti alberi – spiega Hallé – sono potenzialmente immortali, il che significa che non hanno un programma di senescenza. Mettete un albero nelle migliori condizioni possibili per tutta la sua vita e proteggetelo scrupolosamente da tutti gli attacchi, da tutti i pericoli, da tutti gli sfortunati eventi che possono accadergli: scoprirete che non muore»[21].
La meditazione umana davanti alla longevità dell’albero ha portato forse al simbolo dell’albero della vita? In L’ epopea di Gilgameš la «pianta della vita» viene definita «la pianta della vita prolungata»[22]. La Bibbia è sensibile alla perseveranza dell’albero nella fecondità e alla sua fedeltà nel portare frutto[23]. Il profeta Geremia parla dell’uomo che si fida di Dio come di «un albero piantato dalle acque, che stende le sue radici verso il ruscello; non vede il calore che arriva e le sue foglie rimangono verdi; nell’anno della siccità è spensierato e non cessa di dare frutti» (Ger 17,8). L’olivo illustra bene questa fecondità nonostante il caldo e la siccità. Lo fa in un’esistenza la cui estensione nel tempo trascende di gran lunga quella della vita umana. Non sorprende che l’olivo, durevole fino all’estremo e prodigo, attraverso il suo frutto, di un olio dalle virtù curative, sia stato designato in alcune tradizioni come l’albero della vita[24].
«L’albero della vita»: la Bibbia, nella sua saggezza, non avrebbe potuto scegliere un simbolo migliore. Esso ha ricevuto una nuova rilevanza nella botanica moderna e nelle scienze ambientali. Quando Ezechiele parla di alberi le cui foglie sono «una medicina» (Ez 47,12), non sa quanto ha ragione. Al di là delle loro virtù medicinali, le foglie hanno un compito vitale nel mondo in cui viviamo. Conosciamo il ruolo della fotosintesi nella riduzione dell’anidride carbonica e nella produzione di ossigeno; conosciamo il ruolo degli alberi nell’emissione di vapore acqueo nell’atmosfera, che regola le precipitazioni. «Un albero può essere paragonato a un impianto di depurazione», scrive Hallé[25]. Il ruolo di tutela che gli alberi svolgono per la vita sul nostro Pianeta è stato «finalmente» riconosciuto. Primo Levi non avrebbe potuto dirlo meglio: «Se l’organicazione del carbonio non si svolgesse quotidianamente intorno a noi, sulla scala dei miliardi di tonnellate alla settimana, dovunque affiori il verde di una foglia le spetterebbe a pieno diritto il nome di miracolo»[26].
In questa funzione vitale, l’albero è in dialogo con l’elemento che la Bibbia mette al primo posto nel mondo creato: la luce. L’albero, infatti, è un pozzo di luce: «“L’albero è un pozzo di luce”. La frase è del poeta Israel Eliraz. Apre una breve poesia. L’ho ricevuta come un novizio riceve dal proprio maestro uno haiku, il sasso su cui inciampa. Ho tentato di smentirlo: l’albero produce ombra, spegne la luce! Poi, l’evidenza: ma certo, l’albero è un pozzo luminoso. Ascolta in silenzio la luce dei cieli, la mormora sottovoce. La capta dalla sua cima, con i pori delle foglie, e la trasmette fino agli ultimi filamenti, nel buio della terra. Fibra ottica, segreta parabola dello scambio essenziale: accompagnare le luci dell’azzurro fin nell’humus»[27].
L’albero è sempre ciò che non avevamo visto, tanto che tendiamo a relegarlo, inerte, in secondo piano. «E poi ho visto l’albero», inizia una poesia di Gioacchino Du Bellay (1522-60). «Tu guardavi l’olivo – spiega la musa Mnemòsine al poeta Esiodo nel dialogo immaginato da Cesare Pavese –, l’olivo sul viottolo che hai percorso ogni giorno per anni, e viene il giorno che il fastidio ti lascia e tu carezzi il vecchio tronco con lo sguardo, quasi fosse un amico ritrovato e ti dicesse proprio la sola parola che il tuo cuore attendeva»[28]. C’è sempre un momento in cui i nostri occhi si aprono sull’albero: è al centro del giardino, dove si svolge il processo più vitale. Un olivo è ugualmente al centro dei chiostri di Tabgha, in Israele, e di Saluzzo, in Italia: esso respira come ogni albero al centro del giardino.
Sole liquido
Nella Bibbia, l’olivo è ripetutamente chiamato «l’albero dell’olio» (1 Re 6,23. 31-33; Is 41,19; Ne 8,15). L’albero che vibra alla luce del sole è un alchimista che esprime questa luce in quella del suo olio. L’olio dell’olivo, scrive Boureux, è un «sole liquido, il primo misterioso stato della fiamma delle lampade»[29]. L’autore traduce così l’amicizia dell’albero, che accompagna l’uomo nella notte.
L’ebraismo ha un’intera festa legata al miracolo dell’olio: è Ḥanukkah, la festa della dedicazione – di fatto una nuova dedicazione – del tempio di Gerusalemme nel 164 a.C., tre anni dopo la sua profanazione da parte di Antioco IV Epifane. La festa è quella di una luce che risplende di nuovo, quella della grande menorah del tempio (cfr 1 Mac 4,52-59; 2 Mac 1-2; 10,1-8). Significativamente, questa festa si colloca non soltanto all’approssimarsi del solstizio d’inverno, e quindi al punto di svolta dell’anno verso la luce, ma anche nel momento in cui, una volta terminata la raccolta delle olive, inizia la produzione dell’olio nuovo. L’antica tradizione ebraica associa questa festa al miracolo della fiala d’olio[30]. Ritrovata nel tempio devastato, questa ampolla conteneva una quantità di olio che permetteva alla menorah di bruciare per un solo giorno; essa alimentò la (settuplice) fiamma per otto giorni, quelli necessari per ottenere un olio nuovo, debitamente consacrato. Il miracolo è infatti quello delle risorse nascoste che Dio concede, permettendo una resilienza inaspettata. È significativo che esso si esprima nel «sacramento» dell’olio, il dono dell’olivo.
Le risorse che Dio concede non giungono senza il miracolo della condivisione. Anche qui l’olivo ha un ruolo esemplare. La Bibbia assicura ai più poveri il diritto di spigolare (raccogliendo da terra) e di racimolare (raccogliendo dall’albero) dopo il raccolto. Essa sa che la natura può essere molto generosa e che è impossibile raccogliere tutto al primo passaggio[31]. La Torah prescrive che il proprietario non farà un secondo passaggio, affinché il campo o il frutteto sia aperto ai più indigenti: «Quando scuoterai i tuoi olivi, non tornerai a fare la raccolta; ciò che resta sarà per l’emigrante, l’orfano e la vedova […]. Ricorderai che nel paese d’Egitto eri schiavo; perciò ti ordino di mettere in pratica questa parola» (Dt 24,20.22). Il miracolo, quindi, è anche quello di una cultura sociale attenta alla destinazione più ampia possibile dei frutti della terra. Una società dignitosa è una società che protegge il diritto dei più poveri non soltanto a essere nutriti, ma anche a contribuire al loro cibo: è questa la dignità dello spigolare. Van Gogh dipinse nel 1889 un quadro intitolato Donne che raccolgono olive: così, a suo modo, ha consacrato la generosità sociale dell’olivo.
La diffusione delle lampade ad olio in tutto il Mediterraneo la dice lunga sul rapporto che esiste, da secoli, tra l’uomo e la fiamma dello stoppino. Fino a tempi recenti, i poeti hanno celebrato questa luce diversa. «La lampada rende il suo canto leggero, dolce come lo si sente nelle conchiglie. Sembra che la lampada si prenda il suo tempo per illuminare gradualmente l’intera stanza. Ali e mani di luce sfiorano lentamente le pareti», scrive Léon-Paul Fargue[32]. Anche Octavio Paz ascolta la lampada confidenziale: «Il bagliore della lampada ad olio, un bagliore che disserta, moralizza, discute con se stesso»[33]. Oggi evidentemente siamo passati ad altri modi di illuminazione, ma le conquiste della modernità accentuano in qualche modo il nostro appuntamento con la luce dello stoppino nella sua amichevole perseveranza.
La famosa XXIV sura del Corano, An Nûr («La Luce»), ha consacrato la qualità teologica di una tale luce: «Dio è la luce dei cieli e della terra. La Sua luce è come quella di una nicchia in cui si trova una lampada, la lampada è in un cristallo, il cristallo è come un astro brillante; il suo combustibile viene da un albero benedetto, un olivo né orientale né occidentale, il cui olio sembra illuminare senza neppure essere toccato dal fuoco. Luce su luce» (v. 35).
Nel suo commento alla sura, il filosofo, poeta e mistico Ibn ‘Arabī (1165-1240) osserva che la permanenza assicurata dall’olio alla luce della lampada la rende più adatta del sole a rappresentare la luce divina, essendo il sole soggetto all’alternanza del giorno e della notte. La caratteristica principale della luce di Dio è proprio la dissipazione delle tenebre[34]. Ecco che una piccola fiamma dice di Dio e della sua luce più del sole stesso! Lo fa per chi è di guardia con essa e scopre che in essa, nel suo modo di riaccendersi costantemente, di lottare per essere una cosa sola, «anche il tempo si mette a vegliare»[35]. In qualche modo l’uomo lo sa: nessuna illuminazione artificiale lo dispenserà dal vegliare in compagnia di una fiamma. Il mistero del tempo e il mistero di Dio sono nascosti nel mistero di una tale fiamma, che si nutre dell’olio dell’olivo[36].
L’albero di Pasqua
La longevità degli olivi si accompagna a una straordinaria capacità di resistenza. I Paesi del Mediterraneo possiedono tutti degli olivi secolari, associati a storie: colpito da un incendio, da un fulmine o dal gelo, il tronco distrutto, ridotto al suo ceppo, questo albero ha fatto nascere dei germogli, si è ricostruito una vita[37]. Un passo del libro di Giobbe evoca la capacità di alcuni alberi di riprendere vita in condizioni estreme; il ritratto potrebbe essere quello dell’olivo: È vero, per l’albero c’è speranza: / se viene tagliato, ancora si rinnova, e i suoi germogli non cessano di crescere; / se sotto terra invecchia la sua radice e al suolo muore il suo tronco, /al sentire l’acqua rifiorisce e mette rami come giovane pianta (Gb 14,7-9)[38].
Dell’albero di Giobbe e di tanti sopravvissuti tra gli olivi possiamo dire che sono cugini degli alberi miracolati di Hiroshima. La città ha circa 170 alberi – ginkgo, eucalipto, pino, canfora e altri – che, irradiati, spezzati alla radice, schiacciati dall’esplosione, sono tornati a vivere e continuano a crescere. Questi alberi non sono soltanto il simbolo di una continuità oltre la rottura, ma sono questa continuità stessa. In modo analogo, molti olivi sono come dei reduci, sopravvissuti a disastri di ogni tipo. È una sorpresa se, al terzo tentativo, la colomba liberata da Noè ritorna da lui con «un ramo d’olivo fresco in bocca» (Gen 8,11)? Un albero era tornato in vita nella creazione devastata, ed è l’altro eroe di questa storia, una promessa per tutti i viventi.
Non sorprende, quindi, che gli alberi – soprattutto gli olivi – accompagnino quella che, nella fede cristiana, rappresenta la più radicale ripresa di vita. La passione di Gesù si apre in un giardino, chiamato «degli olivi». Gesù è sepolto in un luogo piantato con alberi – «Nel luogo dove Gesù fu crocifisso c’era un giardino, e in quel giardino un nuovo sepolcro dove nessuno era mai stato deposto» (Gv 19,41) –; è in questo giardino che egli risorge, scambiato per il giardiniere (cfr Gv 20,15). La ripresa della vita ha il suo segreto solo in Dio, ma si riflette nella storia di certi alberi, segnata da rinascite insperate. In questo senso, gli olivi dell’Orto del Getsemani svolgono il ruolo di un quinto Vangelo. È improbabile che le grandi piante che oggi vi si trovano fossero testimoni della preghiera di Gesù (Tito, quando pose sotto assedio Gerusalemme nel 70 d.C., ebbe cura di abbattere tutti gli alberi nelle vicinanze), ma esse potrebbero essere i discendenti degli alberi testimoni (i ceppi e le radici degli olivi riservano sempre delle sorprese). Nei loro tronchi tormentati questi alberi rendono visibile qualcosa della lotta di Gesù nella sua preghiera; nelle loro foglie e nei loro frutti ne raccontano anche la fecondità.
Ogni albero, in effetti, ha qualcosa di cristico, non solo per la forma che disegnano il suo tronco e i rami, ma anche per la non violenza del suo ethos: l’albero non restituisce nessuno dei colpi che gli vengono inferti. Esso è, secondo le parole dei saggi indù, «un organismo così generoso da offrire la sua ombra a chi viene per tagliarlo»[39]. Gesù ha la dolcezza di un tale albero: «Nel fogliame dei suoi fianchi respira un libro aperto: è un albero dalla scorza di pelle. Incassa ogni colpo, non ne ricambia nessuno. Sola, la linfa si spande, un in-folio in sottofondo, di nuovo testamento»[40]. Il «miracolo dell’olio» si prolunga nell’essere di Cristo. «Lo Spirito del Signore è su di me perché mi ha consacrato con l’unzione», annuncia Gesù nella sinagoga di Nazaret, citando Isaia (Is 61,1; Lc 4,18). E continua, con il profeta: «per fasciare i cuori spezzati»[41]; nel testo profetico, la guarigione avviene mediante l’applicazione di un «unguento di gioia» (v. 3)[42]. L’olio unifica così l’essere e la missione dell’Unto di Dio, facendone una missione di compassione[43]. Cirillo di Gerusalemme (313/315-387) considerava il battesimo una partecipazione «ai frutti dell’olivo fecondo che è Gesù Cristo (τῆς καλλιελαίου Ιησοῦ Χριστοῦ)», a causa dell’unzione del battezzato «dalla testa ai piedi»[44]. Gesù, il nostro «bell’olivo»: la teologia non potrebbe essere più mediterranea di così. Tra l’albero dei giardini della passione, della morte e della risurrezione, l’albero delle colline di Giuda, l’albero ai confini del Marocco e della Spagna e la persona di Cristo, l’innesto ha avuto successo – e come non potrebbe? – grazie alle parole del Vescovo di Gerusalemme. Un albero racconta, attraverso i secoli, il mistero di Cristo con il tronco logorato nel dolore e sempre giovane nei suoi rami, il miracolo della vita che riemerge contro ogni speranza, il miracolo dell’unzione assorbita ed espressa nella compassione[45].
* * *
Un albero unisce i Paesi del Mediterraneo. Li unifica come un’unica terra, dando loro una cultura comune attraverso le divisioni dei confini e dei conflitti[46]. Gli olivi sono in pace, mentre le nazioni che li circondano sono divise: «Polline, tutto è polline in Israele nelle giornate di aprile; polline, tutto è polline, in quei giorni in Palestina. È uno sciame sulle colline, un esodo di stame in gineceo. Il muro, il filo spinato, la cupola di ferro non ci possono fare nulla: qui e là, gli olivi vengono fecondati»[47].
L’olivo unisce anche le tre religioni abramitiche. Dio aspetta «là dove sono le radici», scrive il poeta Rainer Maria Rilke[48]. Queste radici sono chiaramente quelle dell’olivo. Ognuno dei tre monoteismi, come abbiamo già visto, incrocia più volte l’«albero dell’olio» nella propria tradizione. Insieme possono coltivare l’olivo nella loro memoria, nella loro immaginazione e nei loro propositi, concentrandosi sulle lunghe temporalità, al di là delle rotture, proteggendo l’ambiente creato dai padri, muro dopo muro, prolungando lo spirito della spigolatura e la destinazione universale dei frutti della terra, scegliendo di non colpire di vendetta, salvaguardando, nel cuore del tempo e della notte, lo spirito della veglia. Tutti modi per prolungare il «miracolo dell’olio», per scoprire le risorse inaspettate che Dio ci offre, trasmesse dall’albero che fa segno sulle colline. Occorre, ancora una volta, sedersi al suo fianco; esso, come scrive Lea Goldberg nella sua poesia Olivi, dice «cose sagge e semplici»: Hanno resistito all’ondata di calore / ed erano confidenti nella tempesta, / come se si fossero appostati per l’eternità / sul pendio di fronte al villaggio in rovina, / dove si argentarono nella fredda luce della luna crescente. / Ancora fermi, quanto abbondanti in questa pace. / Ecco la vecchiaia matura! / Ascolta, ascolta le raffiche /di vento attraverso il paesaggio degli olivi. / Che alberi modesti! / Riesci a sentire ora? Stanno parlando ora / Cose sagge e semplici[49].
Quali sono le «cose (debarîm) sagge e semplici» che sussurrano gli alberi? È possibile riconoscervi le «cose» o le «parole» (in ebraico, è sempre lo stesso termine debarîm) che dice a proposito degli alberi il libro chiamato Debarîm, il Deuteronomio. Nelle leggi di guerra, Mosè stabilisce che, nel caso di un assedio prolungato, gli alberi da frutto saranno risparmiati: «Quando tu porrai un lungo assedio a una città, combattendo contro di essa per prenderne il controllo, tu non brandirai l’ascia per distruggerne gli alberi, perché sarà dei loro frutti che tu ti nutrirai: tu non li abbatterai. L’albero del campo è un essere umano (’adam), per essere da voi assediato?» (Dt 20,19). L’analogia finale, tra l’albero e l’’adam, gioca all’interno di una domanda retorica: l’albero, ovviamente, non è un essere umano; più precisamente, non è per nulla un uomo di guerra. Esso è assolutamente un non belligerante, non avendo alcun mezzo per difendersi. Il commentatore medievale Rashi parafrasa il testo con la domanda: «Può l’albero del campo ritirarsi, davanti a te, nella città assediata?»[50]. No, naturalmente; l’albero è per natura immobile, disarmato di fronte alla mobilità strategica dell’uomo.
Il poema tuttavia va oltre. Mettendo l’uno di fronte all’altro gli olivi (risparmiati) e il villaggio in rovina, il testo della Goldberg dimostra che una legge saggia può diventare assurda. Quando è in gioco un villaggio, e non più una città fortificata, le cose cambiano: non è auspicabile, in questo caso, risparmiare gli uomini come gli alberi da frutto? Di fronte alle rovine del villaggio, gli olivi diventano allora un memoriale: stanno lì, ritti nella loro vecchiaia, in nome degli abitanti del villaggio che non sono potuti invecchiare con loro in pace. La domanda del Deuteronomio riceve allora un’altra risposta, quella contraria: sì, gli alberi corrispondono agli esseri umani[51].
Questa inversione midrashica è al cuore della poesia di Natan Zach (1930-2020), Kî ha’adam ‘etz hasadeh («Poiché l’’adam è un albero del campo»)[52]. Invertendo l’ordine biblico delle parole, il poeta gioca con una metafora al contrario: sì, l’uomo è un albero del campo. La metafora è elaborata lungo tutto il poema, in modo alternato: «Come l’albero, l’uomo cresce. Come l’uomo, anche l’albero è sradicato […]. Come l’albero, l’uomo aspira verso l’alto».
Nei poemi della Goldberg e di Zach, gli olivi sussurrano cose sagge e semplici, facendo eco alle parole bibliche. Sì, gli alberi e gli uomini sono legati, tanto da essere metafora l’uno per l’altro. E gli olivi, nel giardino umano, ne rappresentano la prova millenaria.
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FOR A MEDITERRANEAN THEOLOGY.A RETURN TO THE OLIVE TREE
In his speech on June 21, 2019, in Naples, at the Pontifical Theological Faculty of Southern Italy, Pope Francis encouraged the elaboration of a Mediterranean theology. In the spirit of Veritatis gaudium and Laudato si’, this article considers the Mediterranean, commencing with the olive tree, which plays a distinctive role in its landscape, social life and religious heritage. In «its way of being in the world and composing with space and time» (J. Tassin,) the olive tree gives Mediterranean religions and cultures a blessed surplus of sweetness.
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[1]. Il saggio è nato come prefazione al volume di C. Manunza (ed.), Dialogo, discernimento e teologia. Percorsi nel contesto del Mediterraneo, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2020. L’Autore desidera esprimere la sua gratitudine a Lorenzo Gasparro, redentorista, che ha curato la traduzione dal francese di questo scritto; e a Jihad Youssef, Carol Cooke-Eid, Elliott Rabin, Benjamin Bevc e Johan Verschueren, che hanno collaborato alla sua elaborazione.
[2]. Lucio Giunio Moderato Columella (4-70 d.C.) ha scritto: «Ex omnibus stirpibus minorem impensam desiderat olea, quae prima omnium arborum est» («Fra tutte le piante l’olivo è quella che richiede spesa minore, mentre tiene tra esse il primo posto») (De Re Rustica, V, 8,1,3).
[3]. J. Tassin, Penser comme un arbre, Paris, Odile Jacob, 2018, 9.
[4]. Cfr Platone, Fedro, 230 d.
[5]. F. Ponge, «Le carnet du bois de pin», in Id., La rage de l’expression, Paris, Gallimard, 1976, 114.
[6]. Si tratta dei culti resi «sotto qualsiasi albero verde» (Dt 12,2; cfr 1 Re 14,23; 2 Re 17,10; Is 57,5; Ger 3,6.13; Ez 6,13; Os 4,13; quando sono specificate le specie, l’olivo non è mai incluso tra gli alberi citati).
[7]. Vedi Ez 31,3-4 (cfr 17,3-10); Dn 4,7-14.
[8]. Cfr Francesco, Laudato si’ (LS), n. 78.
[9] . P. Ricœur, Finitude et culpabilité. La symbolique du mal, in Id., Philosophie de la volonté, II, Paris, Aubier-Montaigne, 1960, 19 s. Cfr LS 85.
[10]. C. Boureux, Les plantes de la Bible et leur symbolique, Paris, Cerf, 2014, 65. Citando, riguardo alla terra di Israele, «grano, vino e olio nuovi» (cfr Dt 7,13; 11,14; 12,17; Os 2,10; Sal 104,14-15), la Bibbia descrive in realtà il regime agricolo fondamentale dell’area mediterranea.
[11]. G. Boine, «La crisi degli olivi in Liguria», in La Voce 3 (1911) 604.
[12]. L’elenco associa l’arte in questione a sette Paesi del Mediterraneo (Spagna, Cipro, Croazia, Francia, Grecia, Italia, Slovenia), a cui si aggiunge la Svizzera.
[13]. Il poeta americano Steve Zeitlin ha paragonato la scrittura della poesia alla costruzione di un muro a secco (cfr S. Zeitlin, The Poetry of Everyday Life: Storytelling and the Art of Awareness, Ithaca [NY], Cornell University Press, 2016, 245: «Building a Stone Wall as a Lesson in Poetry»). Si può quindi affermare che la poesia sull’olivo è una rete di muri che sostengono a modo loro l’albero e la cultura ad esso associata. Questa rete va da Omero a Lea Goldberg (Israele, 1911-70) e Mahmoud Darwish (Palestina, 1941-2008). La letteratura dell’olivo passa anche attraverso Giovanni Pascoli (1855-1912), Antonio Machado (1875-1939), Giovanni Boine (1887-1917), Jean Giono (1895-1970), Federico García Lorca (1898-1936), Leonardo Sinisgalli (1908-81), Miguel Hernández (1910-42), Odysseas Elytis (1911-96), Giuseppe Gironda (1920-2005), Giuseppe Bonaviri (1924-2009), Francesco Biamonti (1928-2001) e Mehmet Yashin (nato nel 1958). Cfr C. Ferrini, «Pour une littérature de l’olivier», in La pensée de midi 10 (2003/2) 136-140.
[14]. M. Darwish, «The Second Olive Tree», in Id., A River Dies of Thirst, London, Saqi Books, 2009, 107; il testo è stato tradotto dall’arabo da Marilyn Hacker.
[15]. A. Huxley, L’ albero d’olivo, Milano, Henry Beyle, 2018, 25 (or. The Olive Tree, London, Chatto & Windus, 1936).
[16]. G. Barbera, «Il mare degli oliveti», in A. Huxley, L’ albero d’olivo, cit., 45.
[17]. E. Montale, «Fine dell’infanzia», in Id., Ossi di seppia, Torino, Einaudi, 1942, 92.
[18]. F. García Lorca, «Paisaje», in Id., Poema del cante jondo, Firenze, Passigli, 2019; cfr www.rinconcastellano.com/biblio/sigloXX_27/lorca_jondo. html
[19]. P. Valéry, Eupalinos ou l’architecte. L’ Âme et la danse. Dialogue de l’arbre, Paris, Gallimard, 1945, 179 (in it. Eupalinos o l’architetto, Milano, Mimesis, 2011).
[20]. F. Hallé, La vie des arbres, Paris, Bayard, 2011, 13.
[21]. Ivi, 22.
[22]. L’ épopée de Gilgameš. Le grand homme qui ne voulait pas mourir, Paris, Gallimard, 1992, 202, tavoletta 11, ll. 268-270 (in it. L’ epopea di Gilgameš, Milano, Adelphi, 1986).
[23]. Cfr Ger 17,8; Ez 47,12; Sal 1,3; 92,13-15; Ap 22,2.
[24]. Così in La vita greca di Adamo ed Eva, 9,3; 13,1-2. Cfr La vita latina di Adamo ed Eva, 36,2 («arbor misericordiae Dei, de qua currit oleum vitae»); 40; 41,3; Vangelo di Nicodemo, 19. In 2 Enoch, 8,4-5 l’olivo è invece associato all’albero della conoscenza.
[25]. F. Hallé, La vie des arbres, cit., 17.
[26]. P. Levi, Il sistema periodico, Torino, Einaudi, 2014, 214.
[27]. J.-P. Sonnet, «Membra Jesu nostri», trad. E. Costa, in Id., La scorciatoia divina, Milano, Àncora, 2013, 111.
[28]. C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Torino, Einaudi, 1999, 165.
[29]. C. Boureux, Les plantes de la Bible…, cit., 65.
[30]. Cfr Megillat Ta‘anit; b. Shabbat, 21b.
[31]. Nel caso dell’olivo, questa generosità è inversamente proporzionale alla frugalità dell’albero: esso dà il suo frutto, pur essendo piantato in terreni poveri e asciutti.
[32]. L.-P. Fargue, Poèmes suivi de Pour la musique, Paris, Gallimard, 1919, 108.
[33]. O. Paz, Aigle ou soleil?, Paris, Falaize, 1957, 69.
[34]. Cfr D. Gril, «Le commentaire du verset de la lumière d’après Ibn ‘Arabī», in Bulletin d’études orientales, Mélanges offerts à Henri Laoust 29 (1977) 185.
[35]. G. Bachelard, La flamme d’une chandelle, Paris, PUF, 1961, 21.
[36]. Si veda la parabola delle dieci vergini in Mt 25,1-13; cfr anche Lc 12,35-36.
[37]. Vi sono, tuttavia, lotte in cui l’olivo soccombe. Così è stato dal 2010 nel Salento, dove gli oliveti secolari sono stati decimati da un batterio mortale di origine straniera, la Xylella fastidiosa.
[38]. Cfr anche Is 6,13, che menziona quercia e terebinto.
[39]. Mahābhārata, 12.146.5. Il tema è sviluppato nel romanzo di R. Powers, Il sussurro del mondo, Milano, La nave di Teseo, 2019. Cfr J.-P. Sonnet, «L’albero-mondo. A margine del Sinodo sull’Amazzonia», in Civ. Catt. 2019 IV 116-122.
[40]. J.-P. Sonnet, «Membra Jesu nostri», cit., 113.
[41]. Così in almeno un buon numero di manoscritti.
[42]. Sui gesti di cura e compassione usando l’olio di oliva, cfr Lc 10,34 e Gc 5,14.
[43]. La composizione dell’olio per l’unzione sacra è indicata in Es 30,24. L’olio si usa nella consacrazione del sommo sacerdote (Lv 8,12), ma anche nell’unzione regale e profetica (1 Re 19,16). Sull’evento regale, si veda in particolare 1 Sam 9,15-16; 16,13; 24,7; 2 Sam 23,1; 1 Re 1,39. Cfr anche la visione dei due olivi e dei due unti in Zc 4,11-14.
[44]. Cirillo di Gerusalemme, s., Catechesi mistagogiche, II, 3: «Foste unti d’olio esorcizzato dall’estremità dei capelli fino alla punta dei piedi e foste resi partecipi del vero olivo, che è Gesù Cristo». Il «vero olivo (καλλιέλαιος)» è quello coltivato; il contrasto con l’olivo selvatico è presentato in Rm 11,17-24.
[45]. Van Gogh ha provato più volte a rappresentare Gesù nell’Orto degli Olivi. Come scrisse a suo fratello Theo, alla fine decise di dipingere solo gli olivi, senza la figura di Cristo. «Dando la giusta proporzione della figura umana – aggiunge –, forse questo ti farebbe riflettere» (V. van Gogh, Brieven aan zijn broeder. Deel 3, Mij. voor goede en goedkoope lectuur, Amsterdam 1914, 391-392).
[46]. Il 16 aprile 2019 l’Unesco ha dichiarato il 26 novembre «Giornata mondiale dell’olivo». In quella occasione, l’ambasciatore tunisino Ghazi Gherairi ha presentato l’olivo come «un simbolo di pace tra uomini e un simbolo di attività umana in pace con la natura».
[47]. J.-P. Sonnet, La ville où tout homme est né (di prossima pubblicazione). Sul rapporto con l’olivo come sperimentato dai palestinesi e dagli israeliani, cfr D. G. Haskell, The Songs of Trees. Stories from Nature’s Great Connectors, New York, Penguin Books, 2018, 215-240. L’Autore considera il punto di vista di uno degli olivi piantati vicino alla Porta di Damasco, di fronte alla città vecchia di Gerusalemme. Cfr anche N. Shaham, «L’olivo: sintomo ideologico permanente nella letteratura ebraica e israeliana», in Mikan 16 (2016) 209-243 (in ebraico).
[48]. «E Dio aspetta da un’altra parte, aspetta proprio al fondo di tutto. Giù. Dove ci sono le radici» (R. M. Rilke, Wladimir, il pittore di nuvole, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1987, 103). Sulla cura delle radici, cfr in particolare QA 33-35.
[49]. L. Goldberg, «Olivi. Dt 20,19-20», in Id., Shirim, Tel Aviv, Sifriat Poalim, 1986, 221 (in ebraico).
[50]. La Bible de Rachi. I. Le Pentateuque, Paris, Cerf, 2019, 862.
[51]. In un’altra poesia, «In cima a una delle colline» (1956), la Goldberg associa la conoscenza dell’olivo, in relazione alla terra, a quella di una giovane ragazza araba. Con l’aiuto della poesia, la voce ebraica israeliana riconosce così l’essere «a casa» dell’altro, in un rispetto sentito. Per un’introduzione generale alla questione, cfr H. Rogani, Facing the Ruined Village: Hebrew Poetry and the Jewish Arab Conflict (1929-1967), Haifa, Pardes, 2006 (in ebraico).
[52]. N. Zach, Kî ha’adam ‘etz hasadeh, Tel Aviv, Tammuz, 1999 (in ebraico).