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Dalla pastorale sanitaria alla pastorale con gli operatori sanitari
Le professioni sanitarie, come tanti altri impegni vocazionali, possono essere un trampolino privilegiato e una via aperta verso Dio. Medici, psicologi, infermieri e personale ausiliario si affacciano, con gli occhi e con le mani, sul mistero profondo dell’essere umano che soffre e ama, resiste e spera, confida e combatte. E pertanto è loro concesso di sfiorare, anche solo per un istante, il mistero stesso di Dio. È la tesi di fondo di queste pagine, che possiamo sintetizzare così: la cura pastorale degli operatori sanitari deve aiutarli a percepire e a riconoscere, nel concreto esercizio della loro professione, la presenza viva del Risorto, che si fa loro incontro attraverso coloro che soffrono. In altre parole: essere un operatore sanitario, per chi crede, è al tempo stesso procedere verso Dio e farsi raggiungere da Lui.
Di conseguenza, una pastorale con i professionisti della sanità che voglia permeare tutti i recessi del loro lavoro dovrà tener conto di entrambe le dimensioni profetica e comunitaria della fede. Non potrà quindi accontentarsi di esortare al servizio e di favorire la celebrazione sacramentale. Indubbiamente la dedizione e la preghiera – diakonia e leiturgia – dovranno far parte integrante di queste proposte apostoliche, ma non va dimenticato l’annuncio che il Regno e la fraternità – martyria e koinonia – sono già presenti in germe nei centri sanitari, nelle case di cura e nelle corsie di ospedale.
In questo articolo vogliamo considerare i professionisti della sanità non soltanto come agenti, ma anche come destinatari dell’evangelizzazione. In effetti, molto spesso l’operatore della sanità viene invitato con insistenza, e a vario titolo, a diventare un «missionario»; tuttavia a volte egli si accorge di doversi riconoscere, al tempo stesso, un «discepolo». Dunque, qui parleremo di pastorale con gli operatori sanitari, piuttosto che di pastorale sanitaria o di operatori sanitari che fanno pastorale, ossia del cammino che gli «sfigurati» aprono – per chi si prende cura di loro – verso la contemplazione di Colui che è il «trasfigurato» di Dio.
Gli operatori sanitari credono ancora in Dio?
Sarebbe presuntuoso, e irrealistico sotto ogni profilo, fornire una mappa dettagliata e tesa a descrivere senza lacune chi sono e in che cosa credono gli operatori sanitari di oggi. Così come ogni altra collettività umana, essi costituiscono un gruppo eterogeneo, vario e multiforme. Alcuni vengono da contesti credenti (familiari, educativi, universitari) dove l’esperienza della fede ha avuto un ruolo importante. Fra loro c’è chi ha continuato a coltivare attivamente la dimensione religiosa appresa, decidendo di partecipare a gruppi, movimenti, associazioni o attività parrocchiali. Altri, invece, hanno attuato un progressivo allontanamento dalla dimensione religiosa.
Le motivazioni che animano la maggior parte degli operatori sanitari credenti si basano su elementi di altruismo e di umanesimo. Una percentuale dei professionisti della salute avverte, nella cura dei sofferenti, una vocazione che è radicata in princìpi religiosi. E fra loro non mancano persone che intraprendono un percorso di avvicinamento a proposte spirituali di vario tipo, a partire sia da precedenti posizioni lontane dalla religione, sia da appartenenze religiose istituzionalizzate.
Sotto questa luce, il report su «Qualità della vita, burnout professionale e impatto del Covid-19 sul medico», pubblicato da Medscape nel 2020, fornisce molti dati su cui possiamo riflettere. Per questa ultima edizione dello studio annuale sono stati intervistati più di 1.100 medici spagnoli, di 32 specializzazioni diverse, sui loro stili di vita. Il 55% di loro si è dichiarato in qualche modo credente; in concreto, il 42% ha affermato di possedere convinzioni religiose, mentre il 13% ha detto di avere credenze spirituali. Invece, il 35% si è detto non credente. Inoltre, all’interno del primo gruppo, il 67% degli intervistati ha affermato che la propria religiosità o spiritualità lo ha aiutato al momento di affrontare i problemi del proprio lavoro.
Al di là dei dati riportati, si può certamente constatare, come un fenomeno ambientale abbastanza generalizzato, che le questioni relative al significato costituiscono praticamente un argomento di conversazione tabù. Come accade riguardo al tema della morte, allo stesso modo è difficile che gli operatori sanitari, nel contesto lavorativo, si lascino coinvolgere in conversazioni profonde e sincere sulle questioni riguardanti il senso ultimo di ciò che fanno, le motivazioni esistenziali che li spingono, la fonte della loro speranza, le domande che li assillano, il valore che riconoscono a chi soffre, la passione con cui incoraggiano i malati e le paure che li assalgono.
Questo tabù del significato nell’ambito della sanità ostacola l’apertura alla dimensione religiosa. La qualità credente alla quale alcuni professionisti della sanità vogliono improntare l’insieme delle loro esistenze viene per lo più relegata nell’ambito delle questioni private e riservate. Tra i colleghi professionisti, la fede di chi si dichiara praticante suscita perplessità, meraviglia e persino incomprensione, attirandosi commenti come: «Ma davvero ci credi ancora?», o: «Come puoi parlare di Dio dopo quello che hai studiato e con tutto quello che vedi?».
Lo «sfigurato» è il «trasfigurato»
Pertanto, di fronte a domande come queste, sono necessarie proposte pastorali mature. Gli operatori sanitari non devono cadere nella tentazione di dare risposte manichee, per venire a capo, ingannevolmente, di qualcosa che senza dubbio è molto più complesso. Quindi, una pastorale con il personale medico, se vuole essere attenta al mondo e aperta alle domande della gente, dev’essere innanzitutto «copulativa» e non «avversativa», ossia deve spingersi più sulla via della «e» che su quella della «o». Infatti, si può essere medici, infermieri o ausiliari che credono in Dio e accettare i postulati della teoria evoluzionistica; o andare a Messa ed essere consapevoli che il Signore non manda malattie e non decide a suo capriccio chi si salva e chi no; o pregare con devozione, sapendo che la Bibbia non sostituisce lo studio, ma nemmeno è messa in discussione dagli ultimi progressi della ricerca, perché si tratta di ambiti diversi.
Queste affermazioni potrebbero apparire semplicistiche e ingenue, tuttavia è essenziale che vengano articolate in modo corretto, con la «e». Da questo dipenderà la maggiore o minore sintonia dell’azione pastorale con il volto divino che ci viene proposto dalla Scrittura, dal magistero e dalla tradizione. Un Dio che, incarnandosi, rende solidali il divino e l’umano; che sulla croce unisce la sofferenza e la promessa; che risorgendo assimila per sempre lo sfigurato e il trasfigurato. Non è infatti possibile che Dio si ponga in un atteggiamento di opposizione all’uomo. Allo stesso modo, per l’operatore sanitario non è una scelta obbligata mettere la fede tra parentesi, se vuole vivere il proprio lavoro con professionalità e con rigore.
Curare a occhi chiusi: la mistica nel mondo della sanità
Diversi anni fa, quando frequentavo l’ultimo anno della facoltà di Medicina, un professore ci pose una domanda che ancora mi risuona nella mente: «Che cos’è per voi curare?». Ricordo che facevamo fatica a rispondere. Dopo alcuni secondi di silenzio – quelli che gli ci vollero per posare uno sguardo sereno su ciascuno di noi –, il professore ci stupì con questa affermazione: «La cura è quello che accade ai pazienti mentre il loro medico studia».
Recentemente ho incontrato di nuovo quel professore, che adesso è in pensione. È stato lui stesso a ricordarmi quell’aforisma che ci aveva fatto pensare. Allora tra i compagni di classe eravamo in tanti a restare imbarazzati, rendendoci conto che avevamo appreso molte nozioni di Medicina, ma poco di ciò che significa essere medici.
Devo dire che in tante occasioni ho fatto esperienza del fatto che – per parafrasare il professore – «davvero la cura è quello che accade ai pazienti mentre il loro medico rinuncia a credersi Dio». Infatti, sappiamo già che la differenza tra Dio e un medico è che Dio non si crede un medico[1]. Sicché gli operatori sanitari, forse oggi più che mai, accanto all’innegabile necessità di studio e di formazione, hanno bisogno di spazi che consentano loro di connettersi con la dimensione trascendente che attraversa tutte le realtà umane, anche quelle relative alla salute e alla malattia.
Infatti, al di là delle divergenze religiose e di fede, questi professionisti condividono senza eccezione l’esperienza di giornate di lavoro abitualmente intense e attraversate da un carico emotivo spesso nascosto. Non è difficile imbattersi in sentimenti di impotenza, frustrazione, vuoto, solitudine, e perfino di rabbia e di insensatezza. Altre volte, invece, gli esiti delle battaglie vinte spingeranno all’euforia, al trionfalismo e all’orgoglio per il lavoro ben fatto. Questa è una cosa buona e, entro certi limiti, desiderabile.
Ma quando si vive soltanto «dal tetto in giù», c’è il rischio di venire continuamente sballottati tra l’eroismo più indiscusso e il fallimento – in apparenza – più clamoroso. In altre parole, c’è il rischio di estenuarsi a forza di salire al vertice e poi cadere irrimediabilmente, una volta dopo l’altra, fino al fondo del baratro. Invece, quando nel tetto della scienza e della professione si aprono lucernari di trascendenza, diventa possibile uscire da se stessi e sbarazzarsi di quei vincoli che obbligano l’operatore sanitario a vedersi superficialmente come eroe o come impostore. Di fatto, si schiude una sorta di mistica del successo e del fallimento, che non imprigiona e non rende schiavi, ma libera e incoraggia.
Il compito di una pastorale che voglia far aprire i professionisti della sanità alla dimensione trascendente della loro vocazione consiste nell’aiutarli a considerarsi umili strumenti, ma chiamati a dare la vita per guarire i malati e prendersene cura. A tal fine, sarà irrinunciabile offrire loro spazi di silenzio e di raccoglimento, in cui possano affidare tranquillamente le varie esperienze del quotidiano alle mani silenziose di Dio, ma anche fornire elementi che consentano loro, al di là delle varie tecniche di supporto psicologico, di fare una lettura mistica di tutto ciò che caratterizza la vita, sia come gioie sia come amarezze.
Questo sguardo a occhi chiusi, in apparenza distratto, trasforma il personale medico in testimone di cure e guarigioni che in definitiva non dipendono da lui, sebbene ne richiedano la presenza e l’operato in molte parti del processo.
Sei dimensioni «sotto il camice»
Chi sono gli operatori sanitari credenti di oggi? Che cosa li caratterizza? Quali elementi hanno in comune? Sono domande legittime, di grande interesse per chi voglia immaginare una pastorale corretta rivolta ai professionisti della salute. Tuttavia, sarebbe ancora una volta pretenzioso – e molto ingenuo – cercare di proporre qui un’antropologia completa, che mostri le caratteristiche essenziali delle persone che lavorano nell’ambito sanitario. Anzitutto perché la loro enorme diversità costituisce già un dato pertinente; in secondo luogo, perché non sempre è facile affacciarsi sulle questioni profonde che abitano il loro intimo.
Di fatto, l’infermiere a cui si rivolgono i pazienti non si sente sempre così efficiente come essi pensano; né il medico è così sicuro di sé; né lo psicologo così acuto; né l’ausiliario così comprensivo. Infatti, ciò che succede al personale medico «sotto il camice» a volte diverge dalla percezione che ne hanno i pazienti, le famiglie e perfino gli stessi colleghi. In definitiva, essi non sono diversi da qualunque altro individuo: nessuno sa fino in fondo che cosa accade nell’intimo di un’altra persona.
È proprio a questo deve mirare la cura pastorale dei professionisti della sanità: alle questioni profonde che affiorano nel silenzio di un turno di notte; alle domande fondamentali che emergono dopo un tempo di guardia; agli interrogativi che s’impongono quando si è sfiniti o sconfitti; ai desideri di fare il bene – sempre di più e meglio – che si manifestano dopo che c’è stato un consulto o si sono visitati i pazienti nella corsia di un ospedale.
In tale contesto, vogliamo ora proporre alcune dinamiche fondamentali che ci sembra attraversino, in un modo o nell’altro, l’esperienza esistenziale degli operatori sanitari credenti. Presentiamo dunque sei dimensioni che riteniamo importanti per una comprensione pastorale dell’essere umano che vive sotto il camice. Elementi che possono servire per individuare, suscitare e accompagnare la crescita di medici, psicologi, infermieri, ausiliari e altri componenti del personale sanitario che vogliano vivere la loro professione alla luce della fede.
Quel che chiamiamo «vocazione»
Spesso sentiamo dire che le professioni sanitarie implicano una vocazione, o che è necessario avere una vocazione per dedicarsi al mondo della salute e fare bene il proprio lavoro, o per non venire meno alla propria professione. In questo senso è vero che le attività di cura raggiungono strati vitali così profondi da configurare, almeno in potenza, un certo modo comune di considerarsi e di porsi. Di fatto, quando in un gruppo si incontrano medici e infermieri, è facile che essi facciano capannello e che finiscano ben presto per parlare di pazienti, di sintomi, di guardie, di casi o di malattie.
Possiamo affermare, a grandi linee, che la vocazione equivale a trovare il proprio posto nel mondo: a scoprire a che cosa si vuole dedicare il proprio tempo e, più ancora, la propria vita. Per i cristiani questo si manifesta nel desiderio di rispondere a una chiamata concreta di Dio, che ti conquista e ti entusiasma. Tuttavia, la vocazione non è qualcosa in cui ci si imbatte; e nemmeno la si sperimenta sempre allo stesso modo. Essa è, piuttosto, qualcosa che si intuisce, si coltiva, si arricchisce, di cui si dubita, si ha timore, e che cresce, si sviluppa e si elabora.
Pertanto, la cura pastorale dovrà aiutare a scoprire quali sono le proprie motivazioni vocazionali; le loro sfumature individuali; quali fonti le nutrono; la terra fertile in cui esse gettano radici e diventano feconde. Dovrà anche accompagnare i tentennamenti che fanno parte di qualsiasi vocazione. Infatti, quale medico non ha pensato qualche volta do appendere il camice al chiodo e di cambiare professione? Infine, la cura della dimensione vocazionale dovrà comprendere la sua trasformazione in stimolo e incoraggiamento, ma senza rinunciare alle sue componenti di responsabilità matura, di perseveranza fiduciosa e di impegno serio.
Una sapienza del tempo
Come quella di ogni essere umano, anche la vita dell’operatore sanitario è piena di alti e bassi. Vi si incrociano di continuo il successo e il fallimento, il dubbio e la certezza, l’aspettativa e l’impotenza, l’energia e la stanchezza, la soddisfazione e la delusione, la gioia e la tristezza. Sì, i «tempi per ridere» e i «tempi per piangere»[2] fanno parte di ogni sfida esistenziale, se la si vuole affrontare con maturità e con serietà. E questo a volte tormenta, genera interrogativi, mette in discussione e può arrivare perfino a stressare. Ma al tempo stesso il pianto e il riso formano una coppia danzante che è unita e inscindibile.
Perciò è importante aiutare il professionista della sanità a coltivare anche una dimensione sapienziale, nella sua esperienza del tempo. Vale a dire, invogliarlo a immergersi tra gli scogli di senso che affiorano nei momenti concreti di riso e di pianto; spingerlo a demolire i falsi cliché che lo portano a muoversi nella mera immediatezza di una vita «dal tetto in giù»; esortarlo a scalare le vette impervie che gli permetteranno di sondare l’orizzonte e di resistere nella speranza.
Una buona pastorale con gli operatori sanitari deve mirare al significato, a volte penultimo, che sostiene e attraversa sia i periodi gioiosi sia quelli segnati dalla fatica. Infatti, certamente dobbiamo tenere i piedi ben piantati per terra o, in altri termini, impegnarci nel concreto della nostra storia personale, ma al tempo stesso abbiamo anche bisogno di alzare lo sguardo verso il cielo, ossia di trascendere in qualche modo il compito immediato per intravedere ciò che dà senso alla nostra vita. Nella prospettiva della fede, comprendiamo che non troveremo ciò in un’idea astratta che ci porti tra le nuvole, ma in un Dio personale che, in Gesù Cristo, è via, verità e vita.
Forze e debolezze
Gli operatori sanitari non sono supereroi, non è necessario che lo siano; non dobbiamo chiederglielo, e nemmeno essi possono pretenderlo da sé. Assumere dunque questa dimensione creaturale, che è inerente a ogni essere umano ma va spesso richiamata alla coscienza, implica che si accolgano i propri pregi e i propri difetti come parte dell’itinerario spirituale verso Dio. Serve una buona dose di lealtà. Infatti, chi vuole osservarsi in modo imparziale deve mettere in luce risvolti spesso imbarazzanti: insicurezze, complessi, paure, umiliazioni, rotture, ambizioni, delusioni, ferite ecc. Ma deve pure avere fiducia nel fatto che la salvezza si realizza anche con questi limiti.
Gli operatori sanitari curano e si prendono cura dei malati con ciò che fanno, con ciò che sanno e con ciò che sono. Una relazione diventa terapeutica quando si trasforma in un incontro fra due «tu» segnato dalla verità e dall’umiltà (due virtù, queste, che vanno sempre insieme). Allora ciascuno dovrà impegnarsi nel compito di discernere ciò che lo fa sentire forte e ciò che lo fa tremare. La prima dimensione, per abbracciare con gratitudine ciò che si è ricevuto di buono, evitando di inorgoglirsene eccessivamente; la seconda, per collocare gli scossoni nel piano salvifico di Dio e trasformarli in opportunità per vivere professionalmente radicati nella verità.
Con il compito di aiutare
La medicina, la psicologia, l’infermieristica e le altre attività rivolte alla sanità sono il modo concreto che i professionisti della sanità hanno scelto per amare. Per loro tali attività acquistano una dimensione missionaria. Questa determinazione ad «aiutare le anime» – secondo l’espressione usata da sant’Ignazio di Loyola – è un elemento essenziale dell’impegno del personale medico credente, che confida realisticamente in un Dio che è amore. Oggi noi useremmo altri termini per esprimere la stessa idea: oggi l’«aiuto» ha acquisito una fisionomia particolare che attiene al servizio e al prendersi cura; e il concetto di «anima» lo si comprende con categorie personaliste ed esistenziali che inglobano tutto l’essere umano e tutti gli esseri umani con cui entriamo in contatto.
In definitiva, vogliamo ribadire che essere un operatore sanitario può trasformarsi in un modo di essere cristiano. La pastorale con i professionisti della sanità deve mirare a una sintonia tra l’amore e la fede.
Tuttavia, accanto a questa ermeneutica della speranza, va collocata anche un’ermeneutica del sospetto, perché le professioni di aiuto possono essere vissute anche in maniera disordinata (per esempio, con aspetti masochistici, narcisistici o perfino colpevolizzanti). Pertanto la pastorale consisterà nel saper proporre strumenti per condurre la professione sanitaria in modo maturo, diligente e serio. A tal fine, è importante esaminare l’origine delle motivazioni più profonde che spingono ad aiutare; fare un discernimento sul mondo di necessità, desideri, chiamate, mozioni e angosce; e comprendere il modo specifico in cui ciascuno vive tale missione. L’aiuto che così gli operatori sanitari offrono può arrivare a essere un atto intrinsecamente umano e umanizzante per loro e per i pazienti di cui si occupano: per dirla con Otto Kernberg, «il risultato della nostra propensione istintiva all’amore»[3].
Ostacoli e aspirazioni
Dietro tutte queste riflessioni ci sono le persone. Sì, le persone che combattono e desiderano, resistono e credono, si impegnano e sperano. Molti ostacoli e aspirazioni che i professionisti della sanità affrontano riguardano la dimensione relazionale, che è inerente alla loro professione; pertanto, essi andranno presi in considerazione e fatti oggetto di grande attenzione.
Tra le possibili difficoltà, alcune sono ricorrenti. Ad esempio, quelle relative alla gestione dei desideri dei pazienti; l’attenzione opportuna alle loro famiglie; lo scontento e i malesseri a volte generati da questi primi due motivi; i giudizi ricevuti; le preoccupazioni e le incoerenze; le tensioni con qualche collega; l’attivismo; il trascurare la vita interiore; la paura della morte; l’incomprensione sperimentata verso i propri valori e credenze.
Ma esistono anche molte opportunità che aprono un percorso pastorale di incontro con il Dio trasfigurato attraverso i mille volti del dolore. In primo luogo, perché la fragilità degli sfigurati suscita il desiderio di guarire le ferite del mondo e dischiude uno spazio privilegiato alla comunione di vita con Cristo Signore. In secondo luogo, perché, se ci si affaccia su alcuni dei momenti più drammatici e profondi che l’essere umano si trova a vivere, diventa evidente che il nostro cuore è fatto per lasciarsi abbracciare alla presenza di Dio e non troverà pace finché non riuscirà a riposare in Lui[4].
La dimensione trinitaria
Le cinque dimensioni che abbiamo menzionate – vocazionale, sapienziale, creaturale, missionaria e relazionale – attraversano la vita degli operatori sanitari e confluiscono in un’altra categoria che dà loro senso e unità: la dimensione trinitaria, che va oltre gli elementi meramente religiosi o spirituali e trascende le limitate analisi psicologiche, antropologiche, sociologiche e culturali.
Molti operatori sanitari percepiscono la necessità di sperimentare il senso, l’incoraggiamento, la vicinanza, la parola e la pace che provengono da Dio, ossia di vivere al tempo stesso con gli occhi fissi sui pazienti (faciem infirmorum) e con il volto rivolto a Dio (coram Deo). Un Dio che confessiamo come Padre, perché sostiene tutta la sua creazione con amore; come Figlio, che ci insegna a vivere la vita fino alle ultime conseguenze; e come Spirito Santo, soffio di amore sperimentato ogni giorno da moltissimi medici, psicologi, infermieri, ausiliari e altri operatori della sanità.
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[1]. Nel libro Primo non nuocere (2016), che è come una confessione personale al termine della sua vita professionale, il neurochirurgo britannico Henry Marsh si interroga, con sottile ironia, sulla differenza che c’è tra Dio e un medico. Dà questa risposta: a distinguerli è il fatto «che Dio non si crede un medico».
[2]. Cfr Qo 3,1-8.
[3]. O. Kernberg, «La patología narcisista hoy», in Cuadernos de psiquiatría y psicoterapia del niño y del adolescente, n. 13-14, 1992, 101-154.
[4]. «Signore, ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te» (Agostino, s., Le Confessioni, I, 1).
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FAITH IN THE WARD. For a pastoral care with health workers
The health care professions can be a privileged springboard and an open way to God. This article intends to show that the pastoral care of health workers must help them to experience and recognise, precisely in the exercise of their profession, the living presence of the Risen Lord, who comes to meet them through those who suffer. These professionals are not only agents but also recipients of evangelization. Thus, we enter the path that the disfigured of this world open up for those who care for them, towards the contemplation of the One who is the transfigured of God.