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I racconti delle origini sono a volte piuttosto sconcertanti. Quando il Signore Dio presenta all’uomo la donna che ha appena tolto dal suo fianco, Adamo esclama, giocando con le parole: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. / La si chiamerà “donna” (‘iššâ), perché dall’uomo (‘îš) è stata tolta!» (Gen 2,23).
Il lettore condivide lo stupore di Adamo, che ha infine trovato «un aiuto che gli corrisponda». Tuttavia, questa prima reazione non può resistere a lungo a una pur minima riflessione. Innanzitutto, ci si sorprende che egli parli della donna alla terza persona singolare: parla di lei, ma non le parla.
E se si prosegue la lettura fino alla fine della storia della prima coppia umana, ci si rende conto che Adamo non rivolge nemmeno una volta la parola a sua moglie; e questo è reciproco, di conseguenza. Cosa vede Adamo nella donna che Dio gli presenta? Nient’altro che il proprio riflesso: «osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne». Questo si chiama narcisismo. Esclude la differenza, quindi la complementarità.
Come stupirsi allora se Eva, quando partorì il primo figlio, disse, giocando sul significato del nome «Caino»: «Ho acquistato un uomo grazie al Signore». Questo è un modo per mettere Adamo, suo marito, fuorigioco!
Non sorprende che il mutismo che caratterizza la prima coppia si trasmetta alla generazione successiva. Infatti, secondo il testo ebraico, tra i due fratelli Caino e Abele non viene scambiata alcuna parola: «Caino parlò al fratello Abele. Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise» (Gen 4,8). La traduzione greca dei Settanta ha colmato quella che si riteneva una lacuna, aggiungendo: «Caino disse a suo fratello Abele: “Andiamo fuori” e…». Abele muore senza aver detto nulla a suo fratello. Muore senza aver dato la vita. Egli merita il suo nome «Abele», hebel in ebraico, che significa «soffio», «vapore», «vacuità», «inanità».
C’è un’altra storia inquietante…