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La crisi legata al Covid-19 ha riportato alla ribalta un interrogativo chiave degli ultimi anni, e in fondo l’unico interrogativo cruciale dei Paesi dell’Europa occidentale: c’è ancora un futuro per l’Unione Europea? Per questa Unione che dà un peso e una spina dorsale a un’Europa geografica difficile da definire? Si sentono quasi risuonare le parole che il Signore ispirava al profeta Geremia nel tempo dell’esilio e della disperazione: «C’è una speranza per la tua discendenza – oracolo del Signore» (Ger 31,17a)? Di fronte alle critiche e alle diffidenze, si può immaginare un futuro credibile senza l’Unione Europea? Questa Unione non dovrebbe essere forse uno strumento politico, oltre che economico, perché l’Europa rientri definitivamente nell’ambito della storia umana? E non dovrebbe avere pure una dimensione culturale e spirituale?
Gli alti e bassi degli aiuti comunitari, in un momento in cui la crisi economica comune, legata alla pandemia, cominciava a delinearsi, hanno suscitato dubbi in molte persone che fino a quel momento erano state piuttosto europeiste. Gli euroscettici esultano e brandiscono la loro «soluzione» di ripiegamento sulla sfera nazionale come l’unica possibile. Gli europeisti ribadiscono che, per essere efficaci, le soluzioni e le risposte devono essere europee e coordinate, ma il ritornello sembra logoro. È possibile individuare motivi per sperare?
Una vecchia questione
La questione ha assunto una gravità più evidente, ma non è affatto nuova. Da anni ci si chiede come dare nuovo ossigeno al processo di unione dei Paesi europei. Con il prevalere della logica finanziaria, il deficit democratico, la lentezza amministrativa e, soprattutto, la mancanza di ispirazione per il futuro, l’Europa fa ancora sognare? La risposta è chiaramente negativa, e la Brexit lo ha dimostrato.
Da una parte, ci sono coloro che sono convinti che un’Europa più unita e più decisionista sia l’unico modo per aver peso di fronte alla Cina e agli Stati Uniti e, più vicino a noi, per resistere all’opera di sgretolamento sotterraneo che l’attuale leader della Russia compie per indebolire le democrazie. Egli lo fa non perché abbia delle mire sull’Europa in quanto tale, ma perché un fallimento di questo grande spazio democratico favorirebbe la sopravvivenza del suo sistema autoritario e la sua permanenza al potere, convincendo fino in fondo i liberali e democratici russi – che esistono ancora – che è inutile guardare all’Occidente. Questa strategia viene portata avanti da due secoli, in Russia.
D’altra parte, c’è chi è convinto che una rimodulazione delle identità nazionali – a volte millenarie, a volte molto più recenti, ma senza dubbio simbolicamente ed emotivamente più forti – sia l’unico modo per ridare speranza a popolazioni che, specialmente nelle classi inferiori, si sentono al contempo escluse dai flussi e dai vantaggi della globalizzazione e culturalmente e socialmente emarginate nel proprio Paese.
La campagna sulla Brexit nel Regno Unito e l’ascesa dei cosiddetti «movimenti populisti» nell’Europa continentale lo hanno dimostrato[1]. La crisi legata al Covid-19 rende più urgente una domanda, che si potrebbe formulare così: esiste un’alternativa al progetto politico europeo sorto dopo il terribile fallimento del secondo conflitto mondiale, una guerra sicuramente globale, ma generata da odi e rancori europei? L’Europa politica può conciliare il mantenimento di vecchie nazioni, ricche di tradizioni, e di una struttura sovranazionale con sempre maggiore autorità, entrambe con un concreto grado di legittimità democratica? Quali sono le debolezze e le risorse dei popoli europei per affrontare il proprio futuro?
L’imprescindibile fattore demografico
La recente crisi sanitaria ha messo in risalto l’età media della popolazione europea. La percentuale di persone di età superiore ai 65 anni raggiunge livelli che la specie umana non aveva mai conosciuto e solleva questioni inedite per le politiche di sanità pubblica[2]. L’attualità ricorrente della questione dell’eutanasia è segno anche di questo problema sociale. Ricordiamo che un secolo fa l’Europa dominava il mondo sul piano politico (in particolare attraverso i suoi imperi coloniali), economico e demografico. Un dominio destinato a finire dopo la grande carneficina della Prima guerra mondiale e il fallimento morale che essa simboleggiava. L’Europa, però, non se ne rendeva ancora pienamente conto (eccetto forse i grandi scrittori profetici austro-ungarici).
Questo conflitto aveva notevolmente accelerato la progressiva cancellazione dell’Europa che la Seconda guerra mondiale e i due decenni successivi avrebbero attuato. I suoi valori, le sue lingue e il suo sistema politico erano diffusi in tutto il mondo. L’Europa allora rappresentava il 25% della popolazione mondiale, mentre ora rappresenta meno del 10%. Mentre essa era in rovina dopo la Seconda guerra mondiale, si può dire che sia stato il progetto europeo a permettere di concretizzare il suo ritorno sulla scena internazionale. Malgrado la fine degli imperi coloniali, malgrado il suo declino economico rispetto al Giappone e agli Stati Uniti (prima che la Cina entrasse nella produzione industriale su larga scala), l’Europa è stata in grado di creare una zona di prosperità mai vista prima, con strumenti molto favorevoli agli scambi economici e che consentivano di evitare quei conflitti fra gli Stati che erano stati così terribili nei secoli precedenti.
Nonostante il graduale ingresso nell’«inverno demografico» a partire dalla metà degli anni Settanta – il calo al di sotto del livello di mantenimento della popolazione (2,1% dell’indice di fertilità) in quasi tutti i Paesi –, la popolazione europea si è sostenuta grazie al contributo della manodopera immigrata. Ma si pone, ed è inevitabile, questo interrogativo: che tipo di energia può ancora generare una società in profondo e irreversibile declino demografico per non diventare sempre più una gerontocrazia intorpidita, inospitale nei confronti dei giovani? L’angoscia delle popolazioni rurali e semi-rurali di fronte alla mescolanza etnica e culturale delle grandi metropoli europee è un fattore chiave delle ultime elezioni e riflette la preoccupazione della popolazione anziana di fronte alle trasformazioni vissute da nazioni che stanno mutando più di quanto fosse auspicato. E non dovremmo dimenticare neppure le migrazioni all’interno dell’Europa, che hanno accentuato notevolmente l’effetto di invecchiamento dei Paesi dell’Europa centrale (Bulgaria, Romania) e dell’Est (Ucraina).
Come ha affermato il card. Jean-Claude Hollerich, «le politiche devono prendere in considerazione le paure. Queste spesso glorificano il passato e frenano le dinamiche orientate verso l’avvenire. Se politiche sensate non terranno conto delle paure dei cittadini europei, questi cadranno in preda a populismi che enfatizzano tali paure per presentarsi come salvatori»[3]. Il fattore demografico è destabilizzante sul piano economico e su quello culturale: dà un peso enorme a una popolazione più conservatrice, che si muove e consuma meno; e, d’altra parte, rende più visibile e più inquietante la mescolanza di popoli in atto.
L’angustia delle classi popolari
Dalla fine degli anni Settanta la «crisi» petrolifera – e poi economica – è diventata costante (disoccupazione massiccia, crisi dello stato sociale, blocco dell’ascensore sociale); i posti di lavoro industriali si sono dislocati altrove nel mondo (e, in maniera sempre più consistente nel XXI secolo, in Cina e in altri Paesi emergenti). Le classi popolari europee quindi hanno dovuto affrontare una profonda crisi di senso[4]. Hanno perso le roccaforti industriali e sindacali (miniere, acciaierie, industrie automobilistiche ecc.) che erano la punta di diamante dei loro valori e si sono trovate in una crisi di identità sempre più profonda.
Da tale crisi non siamo ancora usciti, e il progetto europeo viene troppo spesso percepito come burocratico, distante, elitario, esclusivamente finanziario e poco democratico. Troppo spesso, inoltre, gli Stati hanno mascherato le loro sofferte decisioni riparandosi dietro lo schermo di Bruxelles, senza mai sottolineare i grandi benefici procurati dall’Unione: un mercato interno vasto e pratico; un basso costo del denaro grazie a una Banca Centrale che beneficia della garanzia tedesca; fondi strutturali che hanno aiutato molto i Paesi più poveri a entrare nell’Unione (Penisola iberica, poi Grecia e Irlanda, quindi i Paesi dell’Est); una migliore capacità di negoziazione nelle discussioni commerciali con i Paesi terzi; programmi di scambio e di formazione a livello dell’Unione ecc.
D’altra parte, gli strumenti comunitari di finanziamento mostrano quanto potente possa essere l’Unione sul piano finanziario, se c’è la volontà politica. È nelle questioni finanziarie che si rivela al tempo stesso il meglio (la capacità di sostenere progetti di sviluppo) e il peggio (l’incapacità di attuare una vera solidarietà, come nel caso del dibattito sui coronabonds) dell’Europa. La questione dei coronabonds mostra il divario che si è creato all’interno di un progetto di Europa puramente mercantile, in cui l’elemento sociale e quello politico sono relegati al ruolo di «parente povero».
Crisi sociale e crisi politica si coniugano oggi con una crisi sanitaria unica. L’Europa può riprendersi? E, in caso affermativo, come? La pandemia del Covid-19 darà il colpo di grazia al progetto europeo in affanno? O sarà l’opportunità per una nuova solidarietà e per un progetto rinnovato? Ci sono molte ragioni per dubitarne. Dietro questa domanda, che molti leader europei si pongono, ce n’è un’altra, più decisiva e ancora più delicata: cosa vogliono veramente i popoli europei? Come vogliono vivere? C’è ancora per loro un ruolo nella storia che darebbe senso al loro futuro, sia come «vecchie» nazioni portatrici di un ricco patrimonio culturale e spirituale, sia come membri di un’Unione politica sovranazionale? Vi sono oggi profeti come Geremia che osano annunciare all’Europa che ci può essere una speranza per il suo futuro?
Un antico proverbio recita: «Non si può essere ed essere stati». L’Europa è stata certamente qualcosa nella storia. Deve forse rassegnarsi a vedersi nel futuro solo come un luogo marginale in cui cinesi e americani, russi e arabi competono per acquistare i loro palazzi, le loro squadre di calcio o vendere i loro prodotti? Secondo questa saggezza antica, l’Europa avrebbe già avuto il suo momento di gloria e il suo momento storico; adesso le tocca abbandonare ogni pretesa di influire sulle grandi questioni del mondo, lasciare spazio ad altri, ripiegarsi sulla nostalgia per la grandezza passata. Sarebbe vano voler ritardare l’inevitabile e voler essere ancora qualcosa: questo atteggiamento quasi stoico sembra poco evangelico.
Ostacoli considerevoli
Ricordiamo gli ostacoli che il progetto europeo deve affrontare. In primo luogo, una demografia depressa, che influisce sulle scelte pubbliche, esigendo politiche a favore degli anziani. Più una popolazione è anziana, più ha paura, e più tutto ciò che fa leva sulla paura pesa sulle scelte. Più una popolazione stenta a rinnovarsi, più lo straniero al suo interno suscita paura, perché è più giovane e prolifico.
In secondo luogo, c’è una vera e propria crisi del modello politico democratico. La democrazia, come sappiamo, non è fatta innanzitutto di istituzioni e di un sistema elettorale, di garanzie formali – anche se tutto questo è indispensabile –, ma è un insieme di partiti, di associazioni e, soprattutto, un ethos comune, un accordo fondamentale sui valori che danno senso al sistema di norme giuridiche che li esprimono. Ora, le società europee si sono frammentate[5]: le grandi istituzioni portanti, che permettevano di avere un gruppo di attivisti che beneficiavano di un’educazione politica condivisa, sono crollate (chiese, partiti, sindacati e associazioni varie); si sono affermati come valori l’individualismo e l’utilitarismo, che rendono più difficile la nascita di progetti politici che vadano oltre il breve termine.
In terzo luogo, la specializzazione economica su scala mondiale ha fatto sì che alcune categorie privilegiate conservassero posti di lavoro importanti e ben remunerati, mentre per molti membri delle classi popolari si sono imposti il declassamento e la disoccupazione (il Regno Unito ne è un eccellente esempio, con i famosi contratti a zero ore). Senza dimenticare la minaccia del declassamento e della disoccupazione per coloro che non ne sono stati ancora colpiti; e la paura per i loro figli e nipoti. Di conseguenza, gli interessi divergono e i partiti di sinistra, come quelli di destra, fanno fatica a elaborare progetti politici credibili. Partiti «nuovi», cosiddetti «populisti», fanno propaganda per rimettere in discussione l’Europa, il libero scambio e l’immigrazione, ma le loro presunte «soluzioni» sembrano più illusioni ottiche che misure concrete.
In tutto il mondo la Cina accresce la propria influenza attraverso le sue risorse finanziarie e i suoi prodotti, mentre gli Stati Uniti riscoprono una politica isolazionista e poco incline al multilateralismo. C’è poi la Russia, che ha tentato più volte di influenzare le campagne politiche nei Paesi occidentali e che non teme di entrare in un conflitto duraturo con l’Unione Europea, come dimostra la sua scarsa volontà di porre fine alla guerra in Ucraina.
La crisi sanitaria del Covid-19, favorendo il ripiegarsi sullo Stato-nazione e provocando una brusca crisi economica, ha messo in luce i vecchi problemi europei e le reali differenze di sensibilità in Europa. Su questo punto c’è un chiaro divario tra Est e Ovest dell’Unione, come ha osservato il card. Hollerich: «I Paesi dell’Europa centrale condividevano piuttosto il concetto tedesco di “popolo”, diverso da quello francese di “nazione”, quale garante per la libertà e l’indipendenza: le sue connotazioni erano positive. L’ampliamento del 2004 è stato un’occasione mancata per l’integrazione europea. Il dialogo tra diverse narrazioni non è avvenuto»[6]. Gli ostacoli non sono nuovi, ma ora appaiono in tutta la loro forza.
Cos’è l’Europa?
La Russia è un eccellente punto di partenza per porsi di nuovo la domanda sulla natura dell’Europa. Perché, in fondo, l’Europa non è un continente come gli altri: è solo una penisola del continente asiatico, e la questione dei suoi «confini» è una delle più antiche della geografia. Una questione che non si pone né per l’Africa, né per l’America o per l’Oceania. Dove si trova il confine europeo? Una risposta tradizionale è che esso va dagli Urali al Bosforo, passando attraverso il Volga e il Caucaso. Ma gli azeri sono forse europei quanto gli armeni o i georgiani? Sempre ammesso che lo siano. L’Europa è prima di tutto uno spazio culturale contrassegnato da Roma, Atene e Gerusalemme[7].
Da due secoli slavofili e occidentalisti discutono per sapere se la Russia sia fondamentalmente europea o asiatica, oppure una «terza via» che non sarebbe né l’una né l’altra. La questione del rapporto della Russia con l’Unione Europea non è soltanto una questione politica, ma è anche, e forse prima di tutto, una questione di anima, di cultura e di valori. È per questo, tra l’altro, che il dialogo ecumenico tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa russa è così rilevante. Di qui l’importanza della Dichiarazione congiunta, firmata a Cuba nel 2016 da papa Francesco e dal patriarca Kirill[8].
Una problematica simile si pone con la Turchia. Essa ha conservato un piccolissimo pezzo di Europa, anche se, sotto l’attuale regime, tutto tende a legarla al mondo asiatico di lingua turca e a farle abbandonare il «sogno» europeo, e l’Europa non è affatto entusiasta di accoglierla.
La problematica russa e quella turca sono in un certo senso gemelle, in quanto entrambe pongono la questione dell’Europa in termini di valori e di credenze molto più che di geografia. E questa è in sostanza la questione essenziale, senza dubbio più decisiva rispetto alle altre sopra menzionate.
Una questione di fede e di valori
Nessuna comunità umana, come pure nessun individuo, può vivere senza speranza e senza fede, anche se quest’ultima è la credenza elementare nel valore della propria vita. Come ha affermato il card. Hollerich, «l’Europa non può essere costruita senza un’idea di Europa, senza ideali»[9]. A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso c’è stata una profonda crisi nel sistema tradizionale di valori, e il cristianesimo non conserva più in esso un posto privilegiato. Questo è un fenomeno non circoscritto all’Europa, anche se è senza dubbio al suo interno che la rottura è più evidente.
Tale crisi spazia dall’ambito culturale alla pratica religiosa, come pure alle ideologie collettiviste che sostenevano l’impegno per il sociale e che avevano assunto un ruolo importante in Europa dall’età dell’Illuminismo. Dov’è oggi il movimento socialista che è stato così potente con i suoi sindacati, partiti, associazioni e intellettuali? Le confessioni cristiane rappresentano solo una piccola parte dei giovani e dell’animazione della vita culturale e civile. In molti Paesi – dalla Scandinavia alla Spagna, passando per i Paesi Bassi e il Regno Unito – le Chiese sembrano continuare a esistere solo attraverso edifici grigi e alcune tradizioni residue[10]. Certo, l’Italia e la Polonia costituiscono – forse – delle eccezioni, ma anche in questi Paesi il processo di secolarizzazione è notevole e il tasso di natalità è altrettanto basso, se non più basso, che altrove. Sia le élite sia le classi popolari sembrano titubanti: dove andare? A chi rivolgersi?
I vecchi modelli sembrano scomparsi o inefficaci, ma le voci che ne invocano di nuovi fanno fatica ad accordarsi o a superare lo stadio della formula magica. Si può ancora credere che, con il riscaldamento globale e la crescita demografica di alcune regioni del mondo, sia davvero possibile stabilire confini ermetici, anche quando c’è necessità di tantissimi studenti e di lavoratori poco qualificati? Che sia possibile restare in un luogo importante per la ricerca medica o industriale senza avere intensi scambi con il resto del mondo? Che possiamo considerarci come un gigantesco parco di divertimenti globale? Un parco popolato da anziani, che non avrebbero bisogno di un grande numero di donne che dall’estero vengano a prendersi cura di loro – spesso in modo ammirevole –, di operai che vengano a svolgere lavori che nessuno desidera più fare, nei mattatoi o sulle strade da asfaltare, per non parlare del settore edile e di quello agricolo?
Certo, nelle classi popolari declassate da 40 anni di globalizzazione e di deindustrializzazione è forte la tentazione di dire: «Ripieghiamoci su noi stessi, preserviamo la nostra cultura e i nostri valori, non lasciamo che milioni di stranieri assetati di terra e di lavoro vengano ad abitare nei nostri quartieri e ad assumere i nostri impieghi; ricostruiamo la forza nazionale!».
Ma questo è possibile? E se anche lo fosse, sarebbe davvero un ideale foriero di avvenire? Sulla nostalgia e sul risentimento, sulla chiusura e sull’esclusione non si può edificare nient’altro che una casa di riposo senza eredi. La storia ce lo dimostra ampiamente. Solo uno slancio a livello di speranza e di valori può dare un senso a una comunità umana. L’Europa non può accontentarsi di essere una zona di debole crescita economica con frontiere più o meno rigide. Non può avere come obiettivo quello di diventare o restare un museo che onori il suo passato, giudicandolo più o meno glorioso.
La sfida è, in primo luogo, spirituale: «La crisi è una cesura: può indebolirci o farci affrontare nuove sfide. La crisi causata dal coronavirus ci presenta sfide personali, esistenziali e religiose»[11]. Il quadro generale non ispira davvero ottimismo. Ma è proprio l’ultima parola che può essere detta? Possiamo delineare i contorni di quella che potrebbe essere una speranza per l’Europa?
Le strade del futuro
Esistono strade che potrebbero contribuire a giustificare il progetto europeo e il permanere dei popoli antichi che ne sono portatori. In primo luogo, poiché l’Europa ha ampiamente contribuito alla distruzione delle risorse naturali e, a partire dalla Rivoluzione industriale, ha favorito una relazione predatoria con il mondo, essa potrebbe porsi la sfida di diventare uno spazio più verde e meno inquinato. Sul serio: inventare nuovi stili di vita e di produzione meno avidi di energia, promuovere una rivoluzione verde, cambiare il rapporto con il consumo. Si tratta di un programma impegnativo, dal momento che è risaputo quanto l’auto faccia ancora parte delle abitudini quotidiane, il turismo all’estero sia un desiderio diffuso e, soprattutto, il consumismo abbia conquistato un posto preminente nel sistema di valori. In breve, occorre indirizzare le politiche pubbliche verso una transizione ecologica in cui l’attività economica non sia più guidata in primo luogo dalla distruzione dei combustibili fossili, ma dai servizi alle persone; occorre promuovere una società che riscopra il locale, il servizio, il non commerciale, la guarigione di una terra esausta e ferita. Questo è più facile a dirsi che a farsi, quando, ad esempio, la dipendenza dai cellulari – e da altri gadget digitali – continua a impoverire le terre rare e a saturare un traffico internet ad alto consumo energetico.
Il confinamento prolungato è stato sufficiente per mostrare in modo spettacolare la resilienza del nostro Pianeta, che improvvisamente è diventato più blu. È stata come una prova scientifica dell’impatto umano, una verifica sperimentale delle convinzioni ecologiche sostenute, tra gli altri, da papa Francesco nella Laudato si’.
Si tratta anche, a causa dell’indebolimento demografico, di inventare una società che accetti di avere un grande numero di anziani. Nella nostra società in decrescita demografica la questione della cura agli anziani è chiaramente essenziale, come è stato messo in luce con crudezza dalla crisi del Covid-19, e questa società ha tutto da guadagnare dal riprogettarsi come una società della cura, della premura, dell’attenzione ai più piccoli, ai disabili, ai senzatetto.
La società deve anche affrontare il progressivo indebolimento del nucleo familiare e cercare di difenderlo. Come ha fatto notare il card. Hollerich, «la crisi attuale ci mostra anche la necessità di relazioni umane e di reti di solidarietà. Scuole e asili nido chiusi e lavoro da casa ci mostrano l’importanza della famiglia come prima cellula di solidarietà. Le nostre politiche hanno minato le reti familiari, favorendo l’individualismo, frutto delle nostre preferenze economiche. Mi rivolgo ai politici affinché facciano tutto il possibile per rafforzare le famiglie, i primi nuclei di solidarietà»[12].
E inevitabilmente occorre avere il coraggio di affrontare la questione della diversità culturale e religiosa, dell’integrazione di popolazioni che cercano prosperità e una vita migliore, o che semplicemente fuggono dalla guerra e dalla siccità. I Paesi europei sono la matrice della creazione di una nuova unità politica, nella quale dovrebbe essere possibile conciliare diverse appartenenze e identità. La sfida di consentire a persone oriunde di altre aree del mondo di realizzare il loro desiderio di partecipare alla vita culturale e politica di un Paese che affonda le sue radici nella storia antica e ha una particolare identità con i legami culturali ed emotivi con le altre regioni del mondo da cui provengono i loro genitori è una delle chiavi per l’Europa di domani.
Voler difendere un nazionalismo di tipo etnico o basato sull’esclusione delle persone di origine straniera può solo portare a conflitti civili[13] e costituisce comunque un vicolo cieco. Non soltanto moralmente, ma anche demograficamente suicida. Le Chiese hanno il loro ruolo da svolgere in questi processi e in queste opportunità di creare un’unità politica che onori veramente la massima dell’Unione Europea unitas in diversitate. Una massima intrinsecamente cattolica, in quanto la Chiesa riunisce in una sola famiglia popoli diversi e sostiene l’ideale di una vera unità dell’umanità nel rispetto di ogni lingua, cultura e tradizione.
La Chiesa senza dubbio fa fatica a vivere perfettamente questa realtà, ma ne ha sempre riconosciuto il valore e la rilevanza. Va sempre ricordata l’architettura propria dell’Unione Europea, basata sui princìpi di solidarietà e di sussidiarietà[14]. In un certo senso, l’Europa è chiamata a cercare di attuare politicamente e culturalmente ciò che la Chiesa cattolica cerca di incarnare religiosamente nel mondo: una vera comunione, nel rispetto delle differenze culturali.
L’Europa come laboratorio
L’Europa potrebbe dunque essere come il laboratorio di un’umanità guarita dalla sua hybris, dalla sua folle corsa verso il «sempre di più» nella produzione e nel consumo; di un’umanità che rispetta le differenze e accetta le solidarietà, onorando ogni storia e ogni lingua, ma riconoscendo la necessità di una vera unità politica. Da decenni, l’America Latina e l’Africa generano visionari che auspicano progressi per i loro rispettivi continenti. Un successo – anche relativo – dell’Europa a questo livello li incoraggerebbe, mentre un eventuale fallimento, con un ritorno al «ciascuno per sé», rallenterebbe i progetti di unità.
Durante le sue conferenze stampa in occasione della crisi legata al Covid-19, il governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, ha ripetutamente affermato che ciò che stava accadendo a New York sarebbe successo altrove, dicendo ai cittadini di altri Stati: «We are your future» («Siamo il vostro futuro»). In questo senso, l’Europa è il futuro dell’umanità, perché anticipa evoluzioni che avverranno necessariamente altrove. Per esempio, la questione demografica e quella relativa al posto degli anziani nella società si presenteranno presto anche altrove in modo molto simile. E il passaggio a un modello economico meno basato sul consumo a ogni costo e sulla distruzione delle risorse naturali è una sfida che va ben oltre l’Europa e di cui un numero sempre maggiore di persone sulla Terra diventa consapevole. Il destino dell’Europa è di reinventarsi profondamente, senza per questo perdere il legame con le generazioni precedenti e con le pagine della storia, alcune delle quali sono state davvero gloriose.
L’Europa deve abbandonare l’illusione dell’onnipotenza, la tentazione di uscire dalla storia abbandonandola e di ritirarsi nel proprio piccolo giardino recintato; deve promuovere una società del dialogo, della cura e del rispetto per i più deboli. Restituendo un ruolo centrale al personale sanitario, la crisi del Covid-19 ha dimostrato che non sono necessariamente le persone più pagate a essere le più indispensabili per il funzionamento della società. Allo stesso modo, l’Europa è chiamata a essere uno spazio in cui la ricerca di senso venga riconosciuta nella varietà delle sue forme e dove le diverse religioni dialoghino nel rispetto reciproco.
Conclusione
Uno dei simboli universali del «mito» europeo è James Bond, il personaggio di Ian Fleming. Agente segreto del Regno Unito, egli è diventato un’icona mondiale, nota a tutti. Il paradosso è che si continuano a girare film su un eroe che rappresenta un mondo scomparso, quello dell’Impero britannico. D’altra parte, quando il personaggio di Bond venne ideato, il Regno Unito era già – dal punto di vista politico, militare e anche nei suoi Servizi segreti – stretto alleato degli Stati Uniti d’Amierica. Un eroe che non sembra raccomandabile, sia nel suo rapporto con la violenza sia in quello con le donne. Eppure James Bond rimane. Il mito si trasforma e la serie continua.
Nell’opera del 2012 intitolata Skyfall – magistralmente diretta da Sam Mendes, e che segna il cinquantesimo anniversario della saga di James Bond, inaugurata nel 1962 – viene posta esplicitamente la domanda: «È ancora possibile fare un James Bond oggi? Ha ancora senso?». Gli sceneggiatori si chiedono: «Come fare ancora un James Bond nel 2012? Non è finito, superato, fuori moda?». Il film pone la domanda non soltanto al personaggio, ma anche al Regno Unito e, quindi, più in generale, all’Europa: cosa si può, cosa si vuole ancora vivere? Alcuni affermano tranquillamente, e non senza motivo: «L’Europa è finita. Sì, avete dominato il mondo; avete dato l’impronta ed esportato le vostre credenze e le vostre tecnologie ovunque, ma la vostra epoca è finita. Non vi resta che uscire dalla Storia e cadere nell’oblio».
La questione principale che l’Europa deve affrontare oggi è quella del senso della sua esistenza e del suo progetto collettivo. L’Europa si trova di fronte a una sfida: vuole ancora vivere? Ha ancora una speranza collettiva? Nel film, è M., il capo di James Bond, che esprime le sue convinzioni. La si vede scossa davanti alle bare di giovani inglesi assassinati, coperte dalla bandiera britannica. L’Europa ha ancora giovani pronti a morire per la loro patria e per la speranza che rappresenta?
Di fronte all’arrogante commissione d’inchiesta che la interroga, M. difende il significato della lotta della sua vita e cita la parte finale di un famoso poema di Tennyson: «Molto perdemmo, ma molto ci resta; noi non siamo più quella forza che nei giorni lontani muoveva la terra e il cielo, noi siamo ciò che siamo: un’eguale indole di eroici cuori, fiaccati dal tempo e dal fato, ma forti nella volontà di combattere, cercare, trovare, e di non cedere»[15].
Ciò che affermano questi versi è il kairos europeo dei nostri giorni: noi non saremo mai più ciò che siamo stati nella storia del mondo, ma ci siamo ancora. Non abbiamo forse ancora qualcosa per cui vivere? Non abbiamo un contributo da dare che possa avere valore per tutto il mondo? Senza voler mostrare alcuna superiorità morale o culturale, ma avendo il senso di un futuro ancora aperto in modo diverso; umilmente, ma senza rinunciare a un’eredità di cui per molti aspetti abbiamo motivo di essere orgogliosi.
Sì, siamo solo ciò che siamo, ma ciò che saremo dipenderà da ciò che vogliamo ancora essere. È auspicio che l’Europa ritrovi un senso per la sua esistenza; che lo ritrovi sia ogni nazione al suo interno, sia il progetto di unità nella diversità che le darà modo di partecipare al mondo multipolare di domani.
Il Covid-19 e la crisi climatica rendono le questioni più trasparenti. Nel suo discorso del 2014 al Parlamento europeo, papa Francesco ha delineato, senza nascondere in alcun modo le difficoltà, la tabella di marcia: «È giunta l’ora di costruire insieme l’Europa che ruota non intorno all’economia, ma intorno alla sacralità della persona umana, dei valori inalienabili; l’Europa che abbraccia con coraggio il suo passato e guarda con fiducia il futuro per vivere pienamente e con speranza il suo presente. È giunto il momento di abbandonare l’idea di un’Europa impaurita e ripiegata su se stessa per suscitare e promuovere l’Europa protagonista, portatrice di scienza, di arte, di musica, di valori umani e anche di fede»[16]. A incoraggiarci, ci sono le parole di san Paolo: «Vigilate, state saldi nella fede, comportatevi in modo virile, siate forti» (1 Cor 16,13).
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WHAT IS THE FUTURE OF EUROPE?
The health and economic crisis linked to Covid-19 has affected the European Union, but it has revealed more historic issues than it has created new ones. In particular, the crises has brought the issue of the elderly and the issue of ageing to the fore. It has also exacerbated the problems of globalization and its consequences for the working classes. Ultimately, the following questions arise: does Europe, which has dominated the world in so many ways, still have a future? Can it, considering it is not really a geographical continent – hence the Russian and Turkish issues – find an ideal to which it can commit to the future? Can it trace, as the poet Tennyson says, the reasons “to fight, to seek, to find, and not to give in”?
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[1]. La logica populista è antica ed esisteva già a Roma, come ha spiegato R. Doan, Quand Rome inventait le populisme, Paris, Cerf, 2019. Cfr Ch. Guilluy, La France périphérique. Comment on a sacrifié les classes populaires, Paris, Flammarion, 2014.
[2]. Cfr M. Rastoin, «L’invecchiamento della popolazione mondiale e il futuro dell’umanità», in Civ. Catt. 2014 II 444-456.
[3]. J.-C. Hollerich, «Verso le elezioni europee», in Civ. Catt. 2019 II 109.
[4]. Cfr, su questo punto, Ch. Guilluy, La France périphérique…, cit.; Id., No society. La fin de la classe moyenne occidentale, Paris, Flammarion, 2018 (in it., La società non esiste. La fine della classe media occidentale, Roma, Luiss University Press, 2019).
[5]. Cfr, per la società francese, l’analisi sociologica di J. Fourquet, L’ archipel français. Naissance d’une nation multiple et divisée, Paris, Seuil, 2019.
[6]. J.-C. Hollerich, «Verso le elezioni europee», cit., 107.
[7]. Cfr R. Brague, Europe, la voie romaine, Paris, Criterion, 1992. In questo libro Roma è vista come la città che permette di tenere unite Atene e Gerusalemme.
[8]. Cfr Dichiarazione comune di Papa Francesco e del Patriarca Kirill di Mosca e di tutta la Russia, Cuba, 12 febbraio 2016, in w2.vatican.va/ Leggiamo al paragrafo 16: «Il processo di integrazione europea, iniziato dopo secoli di sanguinosi conflitti, è stato accolto da molti con speranza, come una garanzia di pace e di sicurezza. Tuttavia, invitiamo a rimanere vigili contro un’integrazione che non sarebbe rispettosa delle identità religiose. Pur rimanendo aperti al contributo di altre religioni alla nostra civiltà, siamo convinti che l’Europa debba restare fedele alle sue radici cristiane».
[9]. Cfr J.-C. Hollerich, «L’Europa e il virus», in Civ. Catt. 2020 II 152-154.
[10]. A proposito del vuoto spirituale e culturale delle classi popolari nell’Europa scristianizzata si può leggere l’interessante storia-indagine di F. Aubenas, Le Quai de Ouistraham, Paris, L’Olivier, 2010.
[11]. J.-C. Hollerich, «L’Europa e il virus», cit.
[12]. Ivi.
[13]. Questo non significa che non ci si debba opporre al fondamentalismo islamico e alla sua volontà di costruire comunità in cui esso sia dominante.
[14]. Cfr Francesco, Discorso al Parlamento europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014, in w2.vatican.va/ Il Papa ha detto: «Occorre ricordare sempre l’architettura propria dell’Unione Europea, basata sui principi di solidarietà e sussidiarietà, così che prevalga l’aiuto vicendevole e si possa camminare, animati da reciproca fiducia».
[15]. «Though much is taken, much abides; and though; / We are not now that strength which in old days; / Moved earth and heaven; that which we are, we are; / One equal temper of heroic hearts, / Made weak by time and fate, but strong in will; / To strive, to seek, to find, and not to yield» (A. Tennyson, Tennyson: A Selected Edition, Berkeley, University of California Press, 1989, 138-145).
[16]. Francesco, Discorso al Parlamento europeo, cit. Come il discorso di Strasburgo, anche quello per la ricezione del premio Carlo Magno (2016) e quello ai capi di Stato e di governo dell’Unione Europea (2017) mostrano l’attenzione che il Papa argentino ha per l’Europa.