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La questione della post-verità non si esaurisce nella definizione che ne dà l’Oxford English Dictionary: «I fatti oggettivi sono meno influenti, nel formare la pubblica opinione, degli appelli a emozioni e delle credenze personali»[1]. I cosiddetti «fatti oggettivi» implicano la possibilità di essere registrati e quantificati. E oggi vediamo che la possibilità di quantificare in tempo reale cose come l’approvazione o meno di un gran numero di persone riguardo a un’affermazione o a un fatto trasforma tale «emozione quantificata» in qualcosa di «reale» in termini di «immagine pubblica» e di «voti» a favore o contro ciò che viene approvato o disapprovato. Allo stesso tempo, la velocità con cui il Covid-19 si diffonde fa sì che misurarne i dati «oggettivi» – quanti sono i contagiati accertati, quanti quelli probabili secondo vari modelli proiettivi e via dicendo – diventi una questione molto complessa. Tuttavia la minaccia reale del virus restituisce ai dati scientifici, per quanto complessi e di carattere ipotetico, il loro valore a fronte delle «opinioni».
In sostanza stiamo sperimentando che, sebbene la virulenza delle fake news nel corso degli ultimi anni ci abbia fatto avvertire che «la realtà cedeva», la virulenza mortale del Covid-19 ci fa comprendere che «cede anche la post-verità». Se prima la realtà cosiddetta «oggettiva» cedeva sotto l’impatto delle notizie false, adesso tutto cede: la realtà della vita a causa della malattia e della morte; le notizie «scientifiche», perché non riusciamo a misurarle e a oggettivarle; e le notizie false, perché il loro effetto dura poco, fintantoché non si trova un modo per neutralizzarne il virus.
Il «distanziamento sociale» che ci è stato imposto sembra destinato a durare. Non si tratta soltanto di una crepa che si apre allontanandoci fisicamente dagli altri, ma di una spaccatura che ci si frappone nei confronti di tutto. Ci fa compiere un passo indietro e ripensare criticamente tutto ciò che abbiamo creato, ciò che facciamo e diciamo.
La realtà ha ceduto
La morte della verità[2]: questo è il titolo del libro della giornalista del New York Times Michiko Kakutani. Due anni fa, citando Jorge Luis Borges, ella ha improntato a una chiave estetica la sua impietosa analisi sulla manipolazione dell’informazione come strumento di potere nell’era Trump. La giornalista, per argomentare le sue tesi, si è valsa di un racconto di Borges, Tlön, Uqbar, Orbis Tertius.
«Quasi immediatamente la realtà ha ceduto in più punti. Quel che è certo, è che anelava a cedere. Dieci anni fa, bastava una qualunque simmetria con apparenza di ordine – il materialismo dialettico, l’antisemitismo, il nazismo – per mandare in estasi la gente. Come, allora, non sottomettersi a Tlön, alla vasta e minuziosa evidenza di un pianeta ordinato?»[3].
Nel racconto di Borges, una società segreta, composta da astronomi, biologi, ingegneri, metafisici, poeti, chimici, moralisti, pittori e geometri, inventa un pianeta, che chiama Tlön. Insieme, i suoi membri ne elaborano la geografia, l’architettura, i sistemi di pensiero…, in modo così affascinante che Tlön diventa a poco a poco più reale della realtà. Le narrazioni sulla vita a Tlön, contenute in una misteriosa enciclopedia, soddisfano, per la loro coerenza interna, la necessità delle persone di dare al mondo un senso migliore che non l’abusato «deserto della realtà», come lo chiamava Jean Baudrillard[4]. E a poco a poco accade che l’«ordine» di Tlön soppianta il mondo reale e si impossessa della vita della gente.
Non è lì che si trovano le persone
L’immagine di una realtà che arretra progressivamente, fino al punto da essere soppiantata da Tlön, è inquietante.
Ci concentriamo, in primo luogo, sull’arretrare della realtà «oggettiva» rispetto alle emozioni e alle credenze personali della gente. Ne possiamo trovare un buon esempio in un’affermazione dell’ex presidente della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, Newt Gingrich, quando era consigliere del presidente Trump[5]. Durante la «convention nazionale repubblicana del 2016, la conduttrice della Cnn Alisyn Camerota ha posto una domanda a Newt Gingrich sul cupo discorso nativista, tutto legge e ordine, di Trump, che descriveva scorrettamente l’America come un Paese assediato dalla violenza e dalla criminalità, ed è stata rimbeccata dall’ex presidente della Camera. “Capisco il suo punto di vista”, ha detto Gingrich. “L’opinione attuale è che i liberal abbiano un’intera serie di statistiche che in teoria potrebbero essere giuste, ma non è lì che si trovano le persone. La gente è spaventata. La gente ha l’impressione che il governo l’abbia abbandonata”. Camerota ha osservato che le statistiche sulla criminalità non erano numeri liberal: venivano dall’Fbi. E Gingrich ha replicato: “No, ma quello che ho detto resta vero. La gente ha questa impressione”»[6].
Il punto è se ad aprire la strada a questo tipo di mentalità sia un’enorme confusione rispetto alla verità o se si tratti di qualcos’altro. È lecito domandarci: quale corda toccano i cosiddetti «populisti» quando danno più valore di verità all’«impressione della gente» che ai dati dell’Fbi? Lasciamo stare il fatto che a tutti noi, abituati a vedere film sull’Fbi, l’appello alle sue statistiche, definite affidabili, può risultare un po’ ingenuo. Concentriamoci piuttosto su quello che vuole dire la giornalista Camerota: che dobbiamo convenire su «fatti» e non su «impressioni». Questo è il punto: che sia stata messa in discussione la contrapposizione tra i fatti e le impressioni. L’adesione delle volontà, per esempio, poiché si trasforma in qualcosa di statisticamente misurabile in tempo reale, è un «fatto» concreto. Reale e concreto come le cose fisiche. L’opinione pubblica quale oggetto di misurazione – poiché non soltanto può essere misurata in tempo reale, ma anche pronosticata con un alto grado di attendibilità (fino a non molto tempo fa la si poteva misurare massivamente solo nelle elezioni generali) – si è trasformata nel soggetto politico con cui interagisce chi esercita (o desidera conquistare) il potere.
Non ci soffermeremo su questo fenomeno. Basterà segnalare che oggi non è più sufficiente contrapporre «fatti» a «impressioni» o «sentimenti». Alle statistiche che enumerano la quantità di crimini, di immigranti e di crescita del Pil si aggiungono quelle su coloro che sicuramente voteranno un certo esponente politico, trasformando tutte le precedenti in «un’intera serie di statistiche che in teoria potrebbero essere giuste», come affermava Gingrich, ostentando di non dare loro alcun peso, perché «non è lì che si trovano le persone».
La frase è rivelatrice. È in gioco il luogo esistenziale in cui «si trovano le persone». Quello è dunque il luogo dove bisogna andare a incontrarle. Si tratta di un luogo complesso, in cui un individuo si colloca per «decidere» liberamente quale strada seguirà, quali politiche sosterrà e chi sceglierà a rappresentarlo.
L’uso della parola «persone» è importante. Infatti, un punto su cui la realtà ha «ceduto» è la solidità dei dati anonimi come luogo in cui fermarsi e collocarsi. Il fatto che si tenga conto delle speranze e delle paure, ovvero del «dove» la persona si colloca quando si tratta di scegliere, fa sì che la persona si senta apprezzata e che non le è richiesto di guardare anzitutto ai numeri. Al potere anonimo dei dati astratti vengono contrapposti i sentimenti delle persone reali. Questo attribuisce a ogni persona un valore assoluto, ovvero quello di poter sfidare qualsiasi statistica con la concretezza e la libertà del suo voto.
C’è chi continua a tacciare tutto ciò di «populismo». E afferma sprezzante che non è vero che i populisti «credono nella gente», ma piuttosto la manipolano. Tuttavia, forse non è opportuno semplificare troppo, perché si può anche ipotizzare che i cosiddetti «populisti» in qualche modo abbiano toccato corde profonde nella gente. Hanno scoperto o riescono a far vedere e sentire a molti che «tutti manipolano/manipoliamo». E hanno scelto di dialogare direttamente con ciò che le persone sentono, percepiscono e giudicano con buonsenso, e di smettere di considerarle come una massa ignorante che non conosce «i numeri» e «i concetti». Ciò che dicono alla gente è: «Signore, signora, io cerco di interpretare ciò che lei sente e rispetto ciò che sceglie». Non dicono: «Guardi i numeri che le mostro, e dovrà darmi ragione».
Ha ceduto anche la post-verità
Riflettiamo un momento su quanto è accaduto con la pandemia del coronavirus: ora ha ceduto anche la post-verità. Così come nel racconto borgesiano gli oggetti immaginari di Tlön «apparivano» nel mondo reale, vediamo che ora «oggetti reali» – principalmente morti per e con il Covid-19 – appaiono «contabilmente» in mezzo alle narrazioni della post-verità. Vediamo che quanti avevano (hanno) narrazioni dominanti si sono visti obbligati varie volte a cambiarle rapidamente, di fronte all’avanzata implacabile del contagio.
Un esempio interessante da osservare è come siano cambiati i discorsi del presidente Donald Trump, un fenomeno via via rilevato da alcuni media Usa[7]. Le parole del Presidente risuonavano nelle orecchie degli ascoltatori mentre i loro occhi fissavano la parte bassa dello schermo televisivo, dove scorrevano i crawl con i dati della pandemia. Riscontriamo dunque che, quando ha fatto riferimento alla prima persona risultata positiva al test del Covid-19, Trump ha detto: «Si tratta di una persona venuta dalla Cina… È sotto controllo. Andrà tutto bene». Era il 22 gennaio, e il crawl riportava: «1 caso, 0 morti». Quando il Presidente ha affermato: «Io non mi prendo alcuna responsabilità», perché l’informazione che aveva ricevuto era «di un’altra epoca» e quanto accadeva era del tutto nuovo, era il 13 marzo, e il crawl indicava: «2.200 casi; 49 morti». E quando Trump ha detto: «L’ho sempre saputo. È proprio vero. È una pandemia. Ho sempre sentito che era una questione molto seria», era il 17 marzo, e il crawl indicava: «6.135 casi, 111 morti».
È stato allora che, rispondendo a una domanda del giornalista della Cnn sul cambiamento dei suoi discorsi, Trump ha affermato che chi avesse analizzato uno per uno i suoi interventi, avrebbe compreso che il suo era sempre stato «un tono finalizzato a dare tranquillità al Paese». E ha detto al giornalista che era la Cnn a turbare la gente e che, se a sua volta avesse voluto farlo lui, avrebbe potuto turbarla molto di più. Questo dialogo si è svolto il 30 marzo, e il crawl riportava: «160.008 contagiati; 2.984 morti». Sei giorni dopo, i contagiati salivano a 312.481 e i morti a 9.132. Tuttavia, quando i contagiati hanno superato quota 600.000 e i morti sono saliti a 26.000, il Presidente è tornato all’attacco e ha annunciato che avrebbe tagliato i fondi all’Oms, colpevole di avere tardato a dare l’allarme sulla pandemia. Mentre scriviamo, i contagiati sono più di 2,6 milioni e i morti superano i 127.000 (fin dall’inizio dei suoi interventi il Presidente ha detto che 100.000 sarebbe stato «un buon numero»).
I dati continueranno a cambiare, come pure la narrazione, ma se ne può vedere la dinamica. Essa si muove fra due poli e segue uno schema che riguarda il «tono», come lo definisce Trump. I suoi discorsi si muovono tra il polo di un tono volto a «tranquillizzare la gente» e quello di un tono che cerca di «focalizzare la rabbia su un nemico». Sono due cose proprie del discorso della post-verità di sempre, che mostrano come essa continuamente si riarma e resta in piedi.
La breccia e la lotta per impossessarsi della narrazione
I discorsi della post-verità fanno appello a un desiderio fondamentale della gente, quello di «stare tranquilla»; e uno dei meccanismi «tranquillizzanti» è la ricerca di «capri espiatori». Tuttavia, nella misura in cui la pandemia cresce, discorsi di questo tipo non bastano più, anzi causano sconforto e, in molti, vera e propria indignazione. Finché non si troverà un vaccino e una cura, nessuno può «stare tranquillo». E i «capri espiatori» non servono a molto: il virus è un nemico che ci rende suoi alleati a nostra insaputa. Il Covid-19 ha aperto una breccia nel nostro sistema immunitario, e questo non consente ad alcun discorso di essere definitivo. Di fatto, non appena si intravede la possibilità non tanto di curare la pandemia quanto di «convivere» con essa, cominciano ad affiorare gli interrogativi sulla gestione dei dati e della quarantena, e si acuisce quella che l’antropologa argentina Rita Segato chiama «la lotta per appropriarsi della narrazione sul coronavirus»[8]. Molti discorsi sono stati fatti per cercare di conquistare quello che Edward Said, intellettuale palestinese, ha definito «il diritto a narrare»[9]. La lotta verte su chi avrà la capacità di esporre la narrazione finale – o dominante – di quanto è accaduto.
Segato riferisce alcuni tentativi di narrazione contrapposti. Per alcuni, quanto è successo significherà lo scaccomatto al capitalismo e all’egoismo. Altri affermano che la malattia verrà usata per il genocidio degli scartati. C’è chi sospetta che si tratti di un esperimento di controllo autoritario sui cittadini, partito dalla Cina. Altri parlano di una pedagogia fascista che ci insegna a guardarci dal nemico (i contagiati). Accanto a opinioni estreme come queste, ce ne sono altre più interessanti. Osserviamo che è entrata in crisi la credenza della supremazia umana sulla Terra ed è emerso ciò che molte «piccole culture» hanno sempre sostenuto: che la Terra possiede noi, e non siamo noi a possedere la Terra. Segato evidenzia il sorgere di uno «Stato materno» in molti Paesi: uno Stato che non soltanto gestisce, ma è capace di accudire, maternamente, soprattutto i più vulnerabili. In questo senso la pandemia concede un ruolo di protagonista alla posizione femminile nel mondo, a ciò che è peculiare delle donne: essere materne, accudire, creare casa-famiglia.
L’interessante è che si è aperta una breccia in tutte le narrazioni (si può vedere in tempo reale la loro lotta per «riarmarsi»), e in questa breccia, in questo territorio non occupato, c’è spazio libero per pensare.
Autori come Paweł Zerka sottolineano il carattere aperto del problema: «Ma il capitolo finale di questa saga non è ancora stato scritto. In una crisi con effetti molto tangibili a breve termine esso dipenderà in grande misura da quale leader otterrà buoni risultati contro il virus. Nessuno a oggi sa se la Polonia, la Francia o altri Paesi riusciranno a venire a capo della malattia o se la Ue sarà capace di dimostrare la propria utilità o indispensabilità. Nessuno sa quale punto di vista di quale governo vincerà». «Fra qualche mese le persone sapranno se per loro l’Europa ha fatto pochissimo o molto. Forse chiederanno più Europa per proteggersi da future pandemie o forse la respingeranno. È inquietante, ma sembra che tutte le direzioni siano possibili»[10].
La breccia resterà aperta – pur con i suoi alti e bassi – finché il virus sarà fuori controllo, finché non ci saranno un vaccino e una cura. È una breccia che si è aperta sia nella verità che si basa su dati scientifici sia in quella fondata sulla percezione della gente. Si avverte in ogni famiglia, come pure nelle istituzioni politiche e nei mercati. La politica è consapevole di dover decidere tenendo presenti non soltanto i propri interessi particolari, ma il bene comune. Ed è attenta sia ai dati scientifici sia allo stato d’animo generale della popolazione. I politici più intelligenti sono quelli che hanno dimostrato capacità di riconoscere i propri errori o visioni parziali, e di cambiarli al più presto. Si nota che le concezioni meramente ideologiche, anche se si moltiplicano e mutano, non sono compatibili.
La gente percepisce tutte queste cose. È quanto sta avvenendo con le statistiche del coronavirus: si presta attenzione ai numeri, si sa che interpretarli è un’operazione complessa e non li si assolutizza. Invece l’attenzione, relativizzandoli, si focalizza sul problema reale: l’aumento dei contagi, il non sapere con certezza se i guariti siano anche immuni e non contagiosi, e soprattutto la mortalità. Sebbene anche i morti subiscano la manipolazione statistica, essi costituiscono un «dato di fatto» oggettivo. Almeno su un punto ha preso il sopravvento la realtà «non manipolabile».
Il pensare e la breccia
Tutte le narrazioni giungono qui al loro punto interrogativo e si vedono costrette a mantenere delle aperture di pensiero davanti alla pertinace «resistenza» che oppone la realtà del virus. Ebbene, l’apertura è la dimensione più propria di ciò che chiamiamo «pensare». Pensare non è soltanto cogliere la realtà e ragionare su che cos’è e come funziona. A rendere possibile queste operazioni della nostra intelligenza è un’apertura che chiamiamo «spirituale», perché è autocosciente e rivolta all’intera realtà. Questo mistero in cui viviamo immersi senza farlo oggetto, in modo esplicito, della nostra attenzione è in tensione tra due poli: il nostro punto di vista personale, autocosciente e responsabile della propria apertura, e quello di tutte le altre persone, altrettanto autocoscienti e responsabili, dotate quindi di prospettive e decisioni nei confronti delle quali dobbiamo essere rispettosi e in dialogo. In mezzo a questa tensione sorge e si sviluppa, includendoci, quella che chiamiamo «la realtà».
Apertura personale e in prospettiva
La tensione tra apertura personale e visione prospettica è un fenomeno che si verifica, nella vita di ogni persona e di ogni Paese ed epoca storica, con ritmi e in gradi diversi. Il fenomeno nuovo a cui oggi assistiamo consiste nel fatto che l’apertura e la visione prospettica si verificano in un modo tendenzialmente simile nel mondo intero: il numero dei morti e dei contagiati dal Covid-19, per esempio, è il primo dato che riferiscono tutti i media. Mentre in altri momenti ci sono notizie che alcuni vogliono ascoltare e altri no, oggi tutti desideriamo ascoltare quelle idee che possano meglio aiutarci ad affrontare la pandemia, da chiunque provengano, e non ci accontentiamo di nulla che non sia realmente efficace e che non ci tiri fuori dalla crisi sociale, sanitaria, lavorativa, economica, politica, culturale e religiosa in cui siamo immersi. È sorprendente l’immediata tendenza a «chiudere questa breccia», non appena sorgono indizi del fatto che la pandemia «sta finendo», che il virus «sta perdendo intensità». Perciò bisogna approfittare della breccia per assaporare l’aria della complessità della verità e per riconoscere definitivamente il cattivo odore delle notizie false, convocando molti pensatori che pensino assieme, cercando la verità comune a partire da ogni prospettiva diversa e particolare.
Un’esperienza condivisa che ci trasforma in interlocutori
Nell’instabilità e nell’incertezza generali, ci sono alcune cose che si decantano come un sapere indiscutibile. È significativa, per esempio, l’esperienza che abbiamo della pandemia. Si tratta di un’esperienza condivisa e condivisibile in modo molto reale, come forse mai nessuna prima d’ora lo era stata da così tante persone. La stiamo condividendo in tempi e in misura diversi, ma essa si impone inesorabilmente. Nel caso di altre esperienze che si diffondono «globalmente» accade che immediatamente si particolarizzino, assumano le caratteristiche proprie di ogni cultura, regione, età e condizione sociale. Con la pandemia, invece, succede il contrario: è essa a dare un timbro comune a tutto ciò che è particolare.
Un segno del fatto che si tratta di un’esperienza condivisa è che essa ci trasforma tutti – qualsiasi persona incontriamo – in «interlocutori»: parliamo di questo, e ciascuno lo fa con l’autorità della propria esperienza e nel rispetto e nell’interesse per quella dell’altro. Ma in comune c’è ben più dei temi specifici di conversazione: c’è l’esperienza che, qualsiasi cosa diciamo, facciamo e pensiamo, siamo costretti a mantenere una certa distanza sociale, che non è solo fisica. Da un lato, ci allontaniamo: possiamo stringere un accordo o insultarci, ma non possiamo darci la mano per suggellare l’accordo o prenderci a pugni (o insultarci come prima, avvicinandoci provocatoriamente al volto dell’altro). Dall’altro lato, ci avviciniamo, in quanto interlocutori paritetici davanti a un problema che ci coinvolge tutti. Per questo, in mezzo a tutte le spaccature che dividono l’umanità, questa breccia che si è aperta nella bolla mentale in cui tendiamo a rifugiarci e a difenderci è qualcosa che va mantenuto a ogni costo, perché è una breccia che ci unisce. Un’apertura a qualcosa di comune che ci trascende e per questo ci unisce.
Cambiamento nella percezione del «nemico» principale
Il fatto che siamo tutti «interlocutori validi» si manifesta anche in un altro fenomeno: è cambiata la nostra percezione del nemico. C’è qualcosa che si va affermando e che si può formulare così: «Io posso restare contagiato. Se succede, quasi sicuramente contagerò qualcuno che mi è vicino». Questa certezza ha cambiato la percezione del «nemico» come di qualcosa di «esterno» che posso eliminare, esorcizzare, condannare. La dinamica interna del virus ha la peculiarità di utilizzare le cellule sane per vivere e riprodursi a danno del portatore, e quindi rende ciascuno di noi «alleato» del virus nel propagare la malattia. Fa male a me, e devo evitare che mi usi per fare male ad altri.
Questa verità che tutti colgono – e chi non la coglie tende a subire la sanzione sociale – si traduce in un fenomeno nuovo che ha toccato ogni ambito della nostra vita e che si manifesta nel cambiamento della distanza sociale. Il mero fatto della definizione della distanza da cui un colpo di tosse può trasmettere il virus ha mutato la configurazione dello spazio pubblico nella sua totalità: trasporti, spazi pubblici, eventi di massa (dai concerti alle Messe o ai pellegrinaggi nei luoghi di culto). Le città, gli edifici, i trasporti che abbiamo creato ci avevano avvicinati sempre di più, ma, in questo momento, la necessità di distanziarci a più di un metro ha paralizzato il mondo. Quasi tutto diventa inospitale, perché quasi nulla è fatto per sopportare tali distanze. Soltanto qualcosa come un virus contagioso poteva modificare da solo questo mondo che abbiamo costruito. E lo ha fatto.
La breccia ci apre all’essenza del pensare come servizio
Un’altra cosa nuova ci capita col nostro rapporto nei confronti della natura, perché ci siamo imbattuti nell’impossibilità di «dominare» il virus mediante la conoscenza, mentre esso si diffonde e produce morti su vasta scala. Ci eravamo abituati a considerare la natura relativamente «docile» ai nostri desideri, riuscivamo in qualche modo a «prevederne» le resistenze e a manipolarla, per lo meno dove ci interessava. Il «non dominio» su una realtà naturale che ci insidia a livello mondiale sposta decisamente il nostro pensiero dal polo dei suoi interessi a quello del «mettersi al servizio» della realtà: tutti i Paesi cercano di approntare un vaccino, tutti tentano di trovare le pratiche migliori per affrontare lo stesso problema. Questo aspetto del pensare che si mette al servizio degli altri resta di solito nascosto quando le necessità della vita vengono tutte soddisfatte e quando la natura ci permette di indagarla e di sottometterla a esperimenti senza opporre limiti insuperabili, quando non agisce in maniera aggressiva e letale, come invece fa il virus.
Quando la realtà non deborda o lo fa in maniera più o meno circoscritta a un determinato luogo, come è accaduto a Černobyl, allora l’oggetto principale della conoscenza non è «l’altro in quanto altro», ma l’altro in funzione del proprio desiderio, progetto e convenienza. Ma quando insorge una minaccia mortale come quella del virus, dalla quale non ci si può difendere, si acuisce il desiderio di conoscere l’altro in quanto tale, di sapere che cos’è e come funziona, per potersi difendere. E questo in maniera tale che quell’«altro» condiziona tutto: il denaro che occorrerà investire, il tempo che richiederà e i sacrifici che imporrà. Alla ricerca non vengono poste le «nostre» condizioni. E il risultato non viene pensato affinché possano fruirne soltanto alcuni, dal momento che la salute di uno è legata a quella di tutti.
Questo pensare che si mette al servizio dell’altro è una cosa che avviene naturalmente nell’ambito della conoscenza spirituale del soggetto amato, ma di solito non si applica facilmente al campo economico e sociale, in cui prevale, come si è visto, il desiderio di «impadronirsi della narrazione». Per esempio, i genitori sono interessati a conoscere il proprio figlio per quello che è, come sta, che cosa lo rende felice. Non desiderano imporgli cose che rispondono ai loro desideri, bensì inculcargli con amore i loro valori in modo che poi sia lui stesso a scegliere. Ovviamente c’è sempre un conflitto di desideri in questo ambito della relazione tra genitori e figli. È nel campo dell’amicizia che si può vedere con chiarezza questa caratteristica del pensare che si mette al servizio dell’altro.
L’amore è la misura della verità, e non tollera altra misura se non l’amore stesso. Esso a volte esige che una verità, sebbene dolorosa, venga totalmente rivelata. Altre volte, al contrario, richiede che qualcosa resti nascosto finché non sia Dio a rivelarlo. Nell’ambito interpersonale, questo è chiaro. Nella nostra relazione con la natura, come dicevamo, non lo è sempre. Siamo noi uomini a decidere quando rivelare totalmente un aspetto della natura e quando occultarlo, in base alla nostra convenienza del momento. Con il virus non funziona così: è la sua pericolosità che comanda e fa sì che impegniamo tutto il nostro sapere e potere per scoprire come interagire con esso in modo che non ci faccia ammalare e che non ci uccida. Il rispetto per queste «leggi della natura», che in altri ambiti non osserviamo, qui si impone come una questione di vita o di morte.
«Servizio» significa che l’atteggiamento davanti agli oggetti in generale è la disponibilità: il soggetto mette a disposizione degli oggetti il suo ambito spirituale affinché essi si rivelino più pienamente in lui. Il lavoro fenomenologico è il servizio attivo del soggetto mediante il quale egli lascia che gli enti si rivelino così come sono. È un lavoro integrale, che cerca il logos dei fenomeni, non per dominarli, imponendo loro le nostre narrazioni, ma per interagire con loro, rispettando ciascuno di essi come prezioso in sé, nella totalità del creato.
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THE PANDEMIC HAS OPENED A BREACH IN OUR WAY OF THINKING ABOUT REALITY
Over the last few years the virtual virulence of fake news has made us feel that the truth based on scientific data had given way to the truth based on people’s perception. However, today the actual virulence of Covid-19 has made us feel that everything has given way: the reality of life, for the illness and death it has provoked; the “scientific” news, because we can’t measure and objectify it; and the fake news, because its effect are fleeting, until we find a way to neutralize the virus. In the bitter struggle to appropriate the narrative about the coronavirus, all narratives are forced to maintain openings of thought in front of the pertinacious “resistance” that opposes the reality of contagion. The pandemic has opened a breach in our way of thinking about reality, and made us attentive to the essence of thinking as a service and not as a domain.
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[1]. Cfr F. Occhetta, «Tempo di post-verità o di post-coscienza?», in Civ. Catt. 2017 II 215-223.
[2]. Cfr M. Kakutani, La morte della verità. La menzogna nell’era di Trump, Milano, Solferino, 2018. Michiko Kakutani, giornalista statunitense di padre giapponese, è stata il critico letterario del New York Times dal 1983 al 2017. Vincitrice di un premio Pulitzer nel 1998, è celebre per i suoi scritti sulla letteratura contemporanea. In La morte della verità, il suo primo libro, ha messo a tema il tipo di mentalità che si è andato imponendo negli Stati Uniti (e in gran parte del mondo) negli ultimi decenni, quello che in politica ha permesso di arrivare al potere a personaggi capaci di radunare tanti più seguaci quanto più trascendono i limiti del «politicamente corretto».
[3]. J. L. Borges, Tutte le opere, Milano, Mondadori, 1984, 640.
[4]. Cfr J. Baudrillard, Simulacri e impostura, Milano, Pgreco, 2008.
[5]. Cfr T. O’Donnell, «Newt Gingrich raves that Trump is just like Theodore Roosevelt», in The Week, 13 aprile 2020.
[6]. M. Kakutani, La morte della verità…, cit., 68.
[7]. Cnn, «¿Cómo ha cambiado el discurso de Trump frente al coronavirus?», 1 aprile 2020.
[8]. «Entrevista a la antropóloga Rita Segato en “Brotes verdes”», 31 marzo 2020.
[9]. E. Said, «Permission to Narrate», in Journal of Palestine Studies 13 (1984/3) 27-48.
[10]. P. Zerka, «La guerra por las narrativas que el Covid-19 ha desatado en el corazón de Europa», in El Confidencial, 23 marzo 2020.